La 27 Ora
23 07 2015
Perché è così difficile credere alla vittima di uno stupro? Perché, di fronte a una donna che sporge denuncia, ci si concentra anzitutto sul suo contegno, sul suo abbigliamento, sulle sue frequentazioni? Se succede in una galleria buia, allora è lei che se l’è cercata. RSe succede con un gruppo di amici, allora è lei che c’è stata. Sembra quasi che per essere credibile, una donna debba aver avuto un’arma puntata contro.
Della sentenza di assoluzione in Appello per i sei imputati accusati di aver violentato sette anni fa in un’auto a Firenze una ragazza di 23 anni, loro amica, colpiscono le motivazioni, quel dito puntato contro il comportamento ambiguo della vittima e la sua «condotta tale da far presupporre che, se anche non sobria, era tuttavia presente a se stessa…» e pertanto «i ragazzi possono aver male interpretato la sua disponibilità».
Ecco quella che Emer O’Toole, studiosa della School of Canadian Irish Studies alla Concordia University, ha definito qualche giorno fa sul Guardian l’apologia dello stupro. La docente ne ha scritto a proposito di Magnus Meyer Hustveit, condannato a sette anni per aver abusato almeno una decina di volte della sua fidanzata mentre dormiva.
Il giudice irlandese Patrick McCarthy gli ha sospeso la pena perché ha apprezzato la sincerità del giovane, il fatto che senza la sua piena collaborazione il processo non si sarebbe potuto svolgere: chi altro, se non lui, avrebbe potuto confermare la versione della compagna? Non c’è qualche analogia, fa notare O’Toole, con quanto è successo a Bill Cosby?
Eravamo tutti scettici sull’autenticità delle accuse mosse da 42 donne e abbiamo cominciato a prenderle sul serio soltanto dopo che l’attore ha ammesso di averle drogate prima di abusarne. Dobbiamo forse ringraziare Bill Cosby o Magnus Meyer Hustveit e tutti gli stupratori che rendono credibili le loro vittime? E a loro, invece, cosa dobbiamo dire? Soltanto: «scusa».
Elvira Serra
Twitter@elvira_serra
Huffington Post
03 07 2015
Ci sono sentenze che sono lapidi sulla tomba della giustizia. Sentenze che si appoggiano sulla testa della vittima e restano lì, pesantissime, col loro carico di legalità (ché quella mica la stiamo a discutere) come un marchio d'infamia a imperitura memoria. Da qualche giorno una di queste ha stabilito che se non urli, non sbraiti, non tiri calci pugni e graffi come una gatta arruffata, mentre un paio (almeno) di maschi col testosterone imbizzarrito ti stuprano, non si può dimostrare che questo paio (almeno) di maschi abbiano abusato di te. E va a finire che loro, che pure ti hanno risarcita economicamente per il danno subito, vengano prosciolti da ogni accusa.
Succede che un paio di anni fa, nell'afa estiva dell'Emilia, un gruppo di ragazzi, di quella che viene riconosciuta come la Modena bene, decida di organizzare una festa nella villa con piscina di uno di loro. Succede anche che in una festa in piscina se non ci sono i bikini di qualche femmina da occhieggiare ci si rompa parecchio a fare delle vasche. E succede pure che se ci sono delle ragazze, e se non ci sono in giro dei genitori, la Coca Cola venga allungata con il rum e la Lemon con la vodka... E per gli astemi ci sia anche un po' di fumo. Tutto normale ci si appropria della libertà degli adulti e dei loro più o meno presunti privilegi approfittando della loro assenza.
16 anni li abbiamo avuti tutti e le prime sbornie, le peggiori di tutta la vita, si sono prese nella completa incoscienza dei propri limiti. Io mi ricordo le mie, di sbornie, e ricordo ancor meglio le amiche con cui le prendevo. Eravamo un bel gruppo, eravamo unite, ci spalleggiavamo e ci coprivamo ma qualunque cosa fosse successa nessuna di noi sarebbe stata lasciata sola quando non era in grado di reggersi sulle gambe. Ma io son stata ragazzina tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90 e a ripensarci oggi sembra passata un'era geologica. Mi ricordo delle feste a casa di qualche amico di un'amica, senza piscina, che io di amici bene non ne ho mai avuti (e per fortuna). Mi ricordo che una delle discriminanti che ci faceva decidere se andare o no a quella festa era capire se ci sarebbe stato anche il tipo che ci piaceva (spesso a tutte contemporaneamente). Mi ricordo di risate alcoliche oltre ogni buongusto e buonsenso e mi ricordo di mal di testa da prendere a craniate il muro il giorno dopo.
Non mi ricordo, e non perché la mia memoria vacilli, di nessuna di noi chiusa in una doccia che scivola lungo la parete di quella stessa doccia mentre un paio (almeno) di bei cristi se la passano a turno. "Dài che questa è una che ci sta e poi non capisce niente, guarda come è fuori". Vero: è fuori, cotta di alcol e hashish. Talmente fuori da vivere quello che gli psichiatri chiamano fenomeno di derealizzazione: una specie di presa di distanza del cervello dalla realtà, quando questa è troppo agghiacciante e spaventosa per poter venire accettata. È talmente fuori, questa tipa (che ha appena 16 anni) che non oppone resistenza a mani invadenti e membri ingombranti di eccitazione. Non urla, non piange, non scalpita e non graffia: "Dai, ci sta"... E poi magari domani neanche si ricorda. E invece, vestita del suo costume e della sua vergogna, lei capisce poco dopo cosa le è successo. Lo capisce al punto da non poter prendere sonno, dal chiamare le amiche e confidarsi con loro e, alla fine, decidere di raccontare tutto alla sua mamma. Che resta di pietra, finge calma, ma impazzisce di rabbia e di dolore per quello che un manipolo di bellimbusti ha fatto alla sua bambina.
Non è facile denunciare una violenza, lo è ancor meno quando sei costretta ad ammettere che eri fuori, che avevi bevuto e ti eri intorpidita il cervello con qualche canna. Non è facile perché inevitabilmente ti scontri con chi pensa che, alla fine, te la sei un po' cercata. Che se a una festa diventi la ragazza del gruppo, vuol dire che sei una di "quelle" e la denuncia del giorno dopo è solo un tentativo goffo e disperato che tiri su per riverginarti imene e coscienza.
Nonostante tutto vai e denunci, mentre la tua città che è grande come uno sputo quando si tratta di appenderti addosso cartello di infamia, ti guarda con un insopportabile ironico disprezzo. Perché quelli che hanno abusato di te sono dei bravi ragazzi e se tu non avessi voluto farci sesso avresti potuto molto semplicemente dire di no. E se non sei stata in grado di farlo, peggio per te. La prossima volta bevi di meno. Mica è colpa di un maschio se approfitta di una femmina... Che poi chiamalo maschio uno che approfitta di una femmina.
Tant'è, tu vai avanti, ti fai la tua battaglia in Tribunale, ti sottoponi a perizie e controperizie, parli con psichiatri, psicologi e magistrati. Racconti la tua storia e provi a non ondeggiare nella fiducia: ti crederanno, tu sai che stai dicendo la verità. E in qualche modo lo crede anche il giudice che per le infinite pagine della motivazione della sentenza, che assolverà i tuoi stupratori, riconosce l'onestà delle tue parole. Solo che non ci sono le prove: "Se è vero che il comportamento passivo della vittima - si legge nelle motivazioni della sentenza - e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all'atto sessuale è altrettanto vero che l'assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la 16enne fosse consenziente".
Tanto basta per proscioglierli e smacchiargli la fedina penale. Per le coscienze no, non c'è sentenza, non c'è magistrato, non c'è perizia che possa ripulire l'infamia di avere abusato di una donna, del suo sesso e della sua dignità.
Deborah Dirani
Corriere della Sera
23 11 2014
Ennesimo scandalo legato alle associazioni studentesche: la violenza a una festaUltima di una lunga serie di abusi e morti accidentali: gli atenei corrono ai ripari
di Elmar Burchia
Stupri di gruppo, abbuffate alcoliche e rituali mortali: le confraternite universitarie e i loro party hanno una pessima fama. Dopo il presunto stupro di gruppo subito da una 18enne durante una festa, e lo scioccante reportage della rivista Rolling Stone, la preside dell’Università della Virginia ha sospeso tutte le attività sociali delle confraternite e associazione studentesche femminili (una sessantina) fino a inizio gennaio. Ciò nonostante, la tradizione centenaria è forte.
La buona reputazione
Sono riti disgustosi, feroci, pericolosi. A farne le spese sono ragazzi e ragazze. Come Jackie. La 18enne era al suo primo anno d’università alla Virginia quando è stata brutalmente aggredita da sette uomini ad una festa, i famigerati «frat party». Un’esperienza terribile, che ha provato a denunciare. Ma nessuno nell’ateneo l’ha voluta ascoltare. L’aggressione sessuale ha guadagnato l’attenzione nazionale dopo la pubblicazione, mercoledì scorso, di un articolo molto dettagliato su Rolling Stone nel quale viene descritta la presunta violenza sessuale avvenuta nel 2012 da parte della confraternita Phi Kappa Psi. La rivista denuncia l’«omertà degli atenei» che scoraggiano gli studenti dal denunciare le violenze subite e l’amministrazione che cerca di nascondere i fatti avvenuti per non rovinare la reputazione delle università. «Ho deciso di sospendere, con effetto immediato, tutte le attività sociali» ha comunicato sabato la preside della prestigiosa università pubblica. «Allo stesso tempo organizzeremo riunioni con studenti, docenti e altro personale per discutere le misure da adottare per prevenire le violenze sessuali in facoltà». Nel frattempo, la preside ha chiesto alla polizia di Charlottesville di indagare sul presunto stupro. Insomma, si corre ai ripari - per cercare di limitare il danno, soprattutto all’immagine. Non è una novità.
La morte di Nolan
Ogni volta che si parla di stupri, abusi, morti accidentali, dentro e fuori dai campus, si riaccende la polemica. L’Università della Virginia è uno degli 86 istituti americani attualmente sotto inchiesta da parte del Dipartimento della Pubblica Istruzione per non aver saputo gestire in modo adeguato le denunce di violenza sessuale. Appena qualche giorno fa aveva fatto scalpore la morte di Nolan Burch, matricola all’Università della West Virginia, intossicato dall’alcol ingurgitato con l’imbuto durante la cerimonia di iniziazione alla «Animal House» che lui aveva tanto sognato. Anche in questo caso l’ateneo ha sospeso tutte le attività legate a sodalizi maschili e femminili. All’University of Virginia (Uva) sono iscritti circa 21.000 studenti. È stata fondata nel 1819 da Thomas Jefferson.
Articolo Tre
27 08 2014
Stuprata su un autobus.
E' la storia di Nirbhaya, "colei che non ha paura", stuprata da sei uomini su di un pullman a New Delhi e successivamente morta, nel dicembre del 2012, per le ferite riportate.
Ma è anche il servizio di moda firmato dal fotografo indiano Raj Shetye: una serie di scatti che mostrano una sexy modella che cerca di difendersi dalle molestie di un gruppo di uomini, a bordo del mezzo. Un servizio intitolato "The Wrong Turn", "La piega sbagliata", che ha immediatamente scatenato l'indignazione del mondo intero.
In molti la definiscono ignobile e rivoltante: il fotografo è stato accusato di voler rendere "glamour" lo stupro, proprio nel paese in cui la violenza sessuale sta diventando sempre di più un'emergenza, che riguarda donne e bambine di qualsiasi età.
L'uomo ha tentato di giustificarsi sostenendo di aver voluto semplicemente "raffigurare la situazione delle donne in India", ma le polemiche sono appena agli inizi.
Il Fatto Quotidiano
25 08 2014
Pochi giorni dopo le violenze di gruppo avvenute a Malaga e Gandia, il ministero dell'Interno pubblica alcuni controversi suggerimenti rivolti alle donne. Allarme di politici e associazioni femminili. "Così si torna a dare colpa alle potenziali vittime"
La paura costa meno dell’educazione. Almeno questo è quello che si evince dal sito del Ministero degli Interni di Madrid, che da qualche giorno offre una serie di controversi consigli contro la violenza sulle donne. Tutte dirette esclusivamente al genere femminile.
“Acquistare un fischietto per spaventare il delinquente” o “chiudere le tende per evitare sguardi indiscreti” sono solo due delle nove eccentriche raccomandazioni che il sito ufficiale del governo iberico propone alle donne per difendersi dai molestatori. Tutte sulla stessa scia: meglio nascondersi e non dare nell’occhio.
Consigli che non sono certo passati inosservati sui social network e che hanno allertato blog e associazioni femminili. Diverse deputate del partito socialista hanno accusato il dipartimento diretto dal ministro Jorge Fernández Díaz di voler colpevolizzare le donne: “Non c’è maggior pericolo che un governo di incompetenti: chiudere le tende per evitare di essere violentate, dice il Ministero degli Interni”. Così ha twittato ad esempio l’ex segretaria di Stato delle Pari opportunità Soledad Murillo. Anche Puri Cusapié, dell’esecutivo del Psoe, si è mostrata critica: “Si ritorna a dare la colpa della violenza alle donne. Mi ha ricordato la famosa ‘sentenza minigonna’ (quando nel 1989 si giustificò un’aggressione sessuale da parte di un datore di lavoro nei confronti di una dipendente di 17 anni per gli indumenti portati dalla vittima, ndr). Anche l’eurodeputata spagnola Elena Valenciano ha diffuso una nota, denunciando i consigli del ministero degli Interni sulla prevenzione alla violenza di genere in quanto “alimentano il mostro del machismo dominante”.
E la formazione di Izquierda Unida ha tacciato la lista come “indegna e intollerabile” e ne ha chiesto la rimozione. I nove punti pubblicati online dal governo iberico arrivano dopo due stupri di gruppo che hanno scosso l’opinione pubblica spagnola, avvenuti lo scorso fine settimana: il primo a Malaga (una giovane di 20 anni violentata da cinque ragazzi), il secondo a Gandia (una diciannovenne vittima di quattro uomini).
Se il ministero degli Interni voleva dimostrare la propria vicinanza alle vittime di violenza, non ha però azzeccato neppure uno di queste raccomandazioni: “non passeggiare per vie solitarie”; “evitare di notte le fermate degli autobus”; “guardare attorno alla propria auto prima di utilizzarla o di parcheggiare”; “non mostrare il proprio nome per intero nella buca delle lettera se si vive sole”; “non entrare in ascensore se c’è un estraneo”; “accendere la luce in più stanze per far vedere che in casa vivono più persone”.
Ma dopo l’indignazione collettiva sui social network e le dure reazioni politiche e sociali, fonti del Ministero hanno annunciato all’agenzia di stampa iberica che i consigli antiviolenza verranno modificati. Resta solo da capire in che modo.
Silvia Ragusa