La Repubblica
30 09 2015
Nella notte voci di un blitz e il trasloco del campo dalla pineta alla scogliera, come agli inizi della protesta: poi l'arrivo di 12 camionette dei carabinieri e i primi fermi. E i francesi sbarrano il confine. Alle 12 manifestazione dei centri sociali. Il sindaco Ioculano: "Lo chiedevamo da tempo". Il vescovo tratta per una collocazione per l'inverno.
Confine sbarrato dai poliziotti francesi, dall'Italia 12 camionette di carabinieri e polizia arrivati all'alba ai Balzi Rossi: succede ora alla frontiera di Ventimiglia, al campo No Borders, autogestito da migranti e attivisti. Per evitare lo sgombero e l'arresto, 100 persone tra migranti e italiani sono fuggiti dal campo occupato sotto la pineta, e si sono rifugiati sugli scogli, portando tutto con loro, come a giugno all'inizio della protesta.
Intorno alle 7, mentre albeggia, nel caos e tra le urla dei No Borders, le forze dell'ordine entrano nell'accampamento con un'ordinanza di sgombero: lo smantellano e bonificano, "Come chiedevamo da tempo, troppi i disagi che causava", commenta subito il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano. Gli attivisti hanno indetto una manifestazione per mezzogiorno nel centro di Ventimiglia; in arrivo giovani da varie parti d'Italia, confermata la presenza di associazioni solidali.
Ma qui, tra i migranti, nessuno si arrende, "Noi resistiamo, stiamo qui sugli scogli, come alle origini, guardandoci a distanza con gli agenti", spiega concitato Alexander, uno degli attivisti dagli scogli.
Intorno, ritmi e slogan della protesta di sempre: “We are not going back”. Intanto le forze dell'ordine in assetto anti sommossa sono sempre più vicine, circondano gli scogli, e si teme uno scontro sulle rocce che potrebbe essere rischioso. "Le strade sono chiuse, ci sono ragazzi che stanno provando a raggiungerci ma vengono bloccati", denunciano dagli scogli i ragazzi, che mandano foto, "ma non sappiamo per quanto avremo ancora i cellulari carichi, nè cosa succederà".
Per il sindaco "devono spostarsi, dove andranno lo valuterà la questura, ma questa situazione non poteva più andare avanti - spiega - capiamo le motivazione della loro protesta ma il campo era abusivo e ci vuole rispetto per una città che è stata accogliente e ospitale".
Ma per mediare con le forze dell'ordine gli attivisti hanno chiamato il vescovo di Ventimiglia, Antonio Suetta, da sempre loro sostenitore: "Sta arrivando qui, ha già contattato la Prefettura e gli hanno assicurato che non useranno la forza - spiega Alexander - Vedremo... Di sicuro, il vescovo si era detto disponibile a concederci una struttura per traslocare il presidio. Se ci lasciassero passare, magari ci sposteremmo senza conseguenze per nessuno...".
Per ora, però, il confronto è sugli scogli, da una parte decine di agenti in assetto antisommossa, dall'altra loro. "C'era tensione nell'aria, sapevamo del rischio di uno sgombero ma non pensavamo di arrivare a questo punto. Dodici camionette sono tante. Mentre i francesi hanno sbarrato il confine per evitarci vie di fuga", conclude Alex.
Dinamo Press
21 09 2015
Un reportage collettivo dalla frontiera di Ventimiglia. Dal 15 giugno sul lungomare alla frontiera tra la Francia e l'Italia, tra le città di Ventimiglia e Menton, si è stabilito il presidio #noborders, nato e mantenuto in una dimensione totalmente indipendente ed autorganizzata.
Il presidio, ad oggi, ha assunto proporzioni impressionanti: una cucina attrezzata per più di 200 pasti, bagni, docce e collegamenti elettrici, un ufficio e zona stampa. Assemblee quotidiane in arabo e in inglese sono la norma a Ventimiglia. Si discute della vita in comune nello spazio così come delle azioni dimostrative da mettere in pratica al confine, distante solo pochi metri ma orizzonte lontano per molti migranti. Cosi', bloccare il traffico al grido di "Open the borders" o decidere di attraversare la frontiera via mare, come hanno fatto sabato 12 settembre circa 35 persone, tra migranti ed attivisti, diventano parte della quotidianita'.
Il presidio di Ventimiglia è uno di quei luoghi in cui le contraddizioni non fanno più paura e la solidarietà e la vita in comune spazzano via ogni traccia di deriva umanitarista. Si vive insieme e si lotta insieme, e spesso si subisce insieme la violenza da stato d'eccezione che ha fatto della frontiera una zona di battaglia. Le scene a cui si può assistere in questi luoghi vanno al di là di ogni immaginazione e costituiscono un laboratorio di gestione violenta dei flussi, una ridefinizione continua dell'azione poliziesca in senso repressivo.
Nella minuscola stazione di Menton Garavan, la prima dopo la frontiera, non c'è mai nessuno, solo un massiccio presidio di gendarmi pronti a salire sui treni per far scendere i migranti ed arrestarli, con controlli veloci basati esclusivamente sul colore della pelle. L'agitazione è perenne come se da un momento all'altro dovesse accadere qualcosa. Sempre. Sono pronti, i poliziotti, a catturare ogni vita in fuga per sbatterla su una camionetta e rispedirla da dov'è venuta. Anche da parte italiana la repressione non si è fatta attendere: ad oggi 18 denunce, 8 fogli di via e due arresti nei confronti degli attivisti del presidio.
Non manca, ad aumentare lo stato d'incertezza, la confusione fra le diverse forze dell'ordine ai due lati della frontiera: sebbene i migranti dell'Africa subsahariana rischino il rimpatrio forzato nel caso in cui vengano scoperti in territorio francese, la maggior parte delle volte vengono invece trattenuti e ammassati in container per ore, prima di essere rimandati in Italia. Al presidio è possibile incontrare persone che già più di una volta hanno tentato il passaggio e subito la cattura e il respingimento in Italia.
La maggior parte dei migranti che si trovano al presidio noborder vengono da Sudan ed Eritrea (vedi mappa). Fuggono dai conflitti nel Darfur (regione occidentale del Sudan) e nel Sud Sudan, nonché dal regime eritreo, dai rischi della mai conclusa guerra in Somalia e dalle minacce della desertificazione.
Non c'è davvero da stupirsi se queste spinte economiche, politiche e ambientali abbiano portato i flussi a fare pressione su Ventimiglia, e se solo di recente iniziamo a parlarne e a notare la loro potenza è perché dal 2011 ha smesso di funzionare il sistema di controlli, detenzioni e respingimenti che Italia e UE avevano finanziato ed esternalizzato in territorio libico.
Già all'interno della regione si trovano centinaia di migliaia di profughi e migranti, ma non accenna a diminuire il numero di quelli che trovano la forza di spostarsi verso altri paesi, attraversando il deserto e il mare, in direzione dell'Italia, della Francia, e magari oltre. Ventimiglia è, allo stesso tempo, un punto fermo e un luogo di passaggio per la maggior parte di chi ci vive. La frontiera tra l'Italia e la Francia è soltanto uno dei luoghi da attraversare, il primo confine dentro la fortezza Europa. La giungla di Calais è per tanti la meta successiva.
Eppure tra i tanti incontri e le tante soste in questi viaggi interminabili, ci sembra che a Ventimiglia qualcosa si rompa nel terribile ingranaggio delle migrazioni. La resistenza, la speranza, la semplice quotidianità paiono spezzare la solitudine del viaggio e l'individualità della ricerca di un futuro. Certo, i percorsi saranno ancora lunghi e diversi. Certo, non tutt* attraverseranno l'odiosa frontiera insieme, e ancora, le diversità sono tante e palpabili. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, il solo trovarsi di fronte a quel confine significa essere vite e corpi resistenti: non ci chiamerete rifugiat*, né migrant* economici, né in nessun altro modo! Già cadono frontiere a Ventimiglia, e sono quelle di categorie artificiali o strumentali malamente calate sui migranti: abbatterle significa incunearsi nell'incapacità e nelle divisioni di un'unione europea balbettante, trincerata dentro una fortezza che ai confini sfoggia la sua assurda violenza. Significa mettere le vite dei migranti avanti a tutto, anche agli interessi di quei paesi, Germania in testa, che dietro il paravento umanitario organizzano la selezione all'ingresso della forza lavoro.
Dentro il campo abbiamo incontrato un meccanismo orizzontale, che inventa continuamente le sue forme di organizzazione e supera le barriere create da lingue e storie differenti. Ma la vita del campo non resta dentro al campo, esce e grida per essere riconosciuta.
Azioni collettive di blocco alla frontiera sono la quotidianità, insieme ad azioni di visibilità come quelle già accennate. Ciò che impressiona è come questa sia una prospettiva cercata e messa in primo piano dagli stessi migranti. Sabato, sono stati per primi i migranti a voler varcare a nuoto, simbolicamente, il confine.
Simbolicamente, certo, ma a pensarci bene, la ricerca dell'azione, della visibilità (anche mediatica), della rappresentazione, sono figlie della vita di fronte a una barriera che in confronto al No Borders Camp altro non è che un feticcio, e come tali aprono un campo di ipotesi politiche altamente riproducibili. Quanto successo ieri tra Serbia e Ungheria si pone sulla stessa linea: più di un migliaio di migranti ha abbattuto alcuni tratti della rete costruita dal governo Orban. L'attraversamento delle frontiere diventa così un'opzione reale, un fenomeno che nei prossimi mesi sarà probabilmente inarginabile.
La dimensione del confine, luogo di passaggio ma anche luogo di soggiorno e di intersezione, pone la questione di "fare rete" dentro le migrazioni. Che si tratti di poter comunicare con altri migranti a Parigi o Calais o in altri angoli d'Europa, che si tratti di una dare supporto legale e logistico diffusamente su tutto il continente, o che si tratti di rivendicare collettivamente e in luoghi diversi il diritto a spostarsi, crediamo che emerga come priorità assoluta quella di identificare parole d'ordine e pratiche comuni che raccontino i percorsi di libertà dentro le linee migratorie, contro i muri della fortezza Europa. La disobbedienza alla frontiera sta divenendo il tratto comune, il collante concreto, di questi movimenti. È attraverso queste pratiche che si definisce la possibilità di fare rete, non tanto attorno a dei nodi geografici, quanto attorno a dei flussi che determinano un campo di resistenza in ogni luogo in cui si condensano.
Oggi i confini dell'Ungheria sono in fiamme, alle porte dell'Europa si alzano barriere di filo spinato. Il confine torna luogo militare, barriera fisica, disperato tentativo di trincerarsi in una identità aggrappata a radici inesistenti. Ma mille altre frontiere si alzano ogni giorno: quelle culturali di chi vorrebbe nazioni frammentate nell'identitarismo, quelle di chi racconta le migrazioni come fenomeni da selezionare, piuttosto che coglierne la dimensione epocale e collettiva, quelle tra virtuosi e fannulloni, tra un Nord Europa austero e laborioso e un Sud insolvente e parassita. Umiliare la Grecia mentre si selezionano i migranti da ammettere sono facce della stessa medaglia: il ricatto del debito e quello del passaporto sono figli dello stesso "there is no alternative".
“Ventimiglia ovunque” non è per noi soltanto uno slogan ma una possibilità reale, un’opzione da praticare, per abbattere e cancellare tutte le frontiere, un nome comune a differenti desideri di libertà.
di Exploit