Articolo21
17 09 2014
Duecentocinquanta giorni. Domenica scorsa, tanti ne abbiamo contati da quando oltre 270 studentesse di una scuola di Chibok, in Nigeria, furono rapite dal gruppo armato islamista Boko haram. Nei primi giorni dopo il 14 aprile, 57 di loro riuscirono a scappare. Delle altre, non sappiamo più nulla. È una situazione paradossale, se si considera l’aiuto internazionale fornito da diversi stati alle operazioni di ricerca condotte dalle forze di sicurezza nigeriane. Il problema sta proprio là, nell’inefficienza dell’esercito di Lagos, che ha adottato dal 2009 la tecnica del terrore per sconfiggere il terrorismo, senza riuscirci ma rendendosi responsabile, nel frattempo, di migliaia di arresti e torture e centinaia di esecuzioni sommarie di presunti membri di Boko haram che a sua volta, in un crescendo di brutalità, dall’inizio dell’anno ha assassinato oltre 2000 civili.
Il rapimento delle ragazze poteva essere evitato. Nelle settimane successive, Amnesty International rivelò che il quartier generale delle forze armate di Maiduguri era a conoscenza dell’imminente attacco dalle 19 del 14 aprile, quasi quattro ore prima che Boko haram iniziasse le operazioni. L’incapacità di radunare i soldati – a causa delle scarse risorse a disposizione e della paura di fronteggiare un gruppo armato meglio equipaggiato – fece sì che quella notte non venissero inviati rinforzi a difendere la scuola di Chibok. Il piccolo contingente presente – 17 militari e qualche agente della polizia locale – cercò di respingere l’assalto di Boko haram ma venne sopraffatto e costretto alla ritirata.
Ricordate l’hashtag #BringBackOurGirls? Dopo la fatua ed effimera mobilitazione di vip, star e politici, a chiedere che le studentesse rapite 250 giorni fa sono rimaste solo le loro famiglie, le organizzazioni per i diritti umani e qualche organo d’informazione sensibile.
Il Fatto Quotidiano
17 09 2014
Una guerra di donne contro donne quella della tratta di nigeriane in Italia. E che, ora come ora, ha un solo vincitore, il business: secondo i dati dell’International Organization il traffico di esseri umani frutta 150 miliardi di dollari l’anno. Le vittime, quelle che passano al nostro fianco in treno o per strada, sono fantasmi senza nome, diritti, documenti. Persone che arrivano in Italia illuse dal sogno di un impiego e che finiscono segregate e autorecluse per paura di subire o far subire ai loro familiari altre violenze. Le uniche persone con cui parlano sono i clienti che le stuprano a pagamento e le loro sfruttatrici. Che dicono loro di non fidarsi dei bianchi.
“Attenzione, non parliamo di donne sprovvedute. Ci sono anche persone molto colte, che magari hanno frequentato il liceo, l’università. Parliamo di ingegneri e avvocati in Nigeria che però qui in Italia sono vittime della tratta e non sanno come uscirne”, spiega Elisabeth Aguebor, mediatrice nata a Benin City e cresciuta a Lagos, la prima nigeriana a dirigere uno sportello di consulenza per donne nigeriane e dell’Africa Sud Sahariana, Women In One. Il 35% delle donne vittime dello sfruttamento proviene dalla Nigeria. Lo stesso Paese delle ragazze rapite di BringBackOurGirls, slogan (e hashtag) scandito anche da Michelle Obama a Angelina Jolie. Giovani finora mai ritrovate e che, probabilmente, sono già state vendute ai trafficanti per finanziare i fondamentalisti Boko Haram. La stessa Nigeria che nel 2014 è diventata la prima economia africana, entrando di fatto nel gruppo dei nuovi paesi in ascesa, i Mint – in nuovi Brics, per intenderci, che includono Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia – ma i cui abitanti vivono in gran parte nell’indigenza.
“Dobbiamo tornare in Nigeria per capire perché queste ragazze sono schiave, tornare al rito voodoo cui sono sottoposte prima di partire”, spiega Elisabeth con il tono di chi ha conosciuto la vera disperazione, soprattutto nei primi anni del Duemila, quando faceva parte dei “nuclei di strada” tra Novara e Milano e come volontaria aiutava le ragazze sulle statali in cui si vendevano. “Per chi non è africano è difficile capire il grado di manipolazione mentale che il voodoo ha sulla sua vittima, che è convinta che, se si ribellerà agli ordini, impazzirà, avrà sfortuna, condizionandola all’immobilità. Ecco perché la maggior parte di chi ha subito un rito è molto religioso, si circonda di santini e canta inni pentecostali. Cerca in Dio una protezione dal male”.
Women in One, finanziato dalla Fondazione Padri Somaschi, parla la stessa lingua di chi deve aiutare, tentando di contrastare l’isolamento culturale e sociale delle donne nigeriane, facendo da ponte tra loro e altre realtà del territorio, fornendo consulenza legale e sanitaria, offrendo una prospettiva a chi magari ha un passato di tratta e ora non sa che fare, aiutandolo a costruirsi un curriculum lavorativo e affettivo. Se il 90% delle donne che si rivolge allo sportello di Piazza XXV Aprile, a Milano, è vittima di tratta o lo è stata, il 100% ignora i diritti di cui gode, che siano essi relativi a permessi di soggiorno, casa o maternità. Anche se, magari, sono già da tanti anni in Italia.
“Quello che mi spaventa più di tutto è che chi si rivolge a noi non ha la minima idea di godere del diritto alla salute. Cioè di potersi rivolgere liberamente a un pronto soccorso, a un medico. E questo perché uno dei mantra delle madam – le loro carceriere – è che qualora dovessero finire in ospedale, verrebbero immediatamente spedite nei Cie. Quindi molte rinunciano a curarsi, peggiorando le loro condizioni di salute”.
La guerra alla tratta, infatti, è una guerra di donne contro donne. Le peggiori nemiche di Elisabeth sono proprio le madam, donne spesso sposate, con un doppio lavoro: badanti o cameriere di giorno, sfruttatrici e strozzine di notte. Donne che considerano altre donne “animali da mungere”, da prendere a cinghiate perché obbediscano. Che le costringono a prostituirsi venti ore al giorno, a trasferirsi per seguire i flussi di clienti, levando loro dignità e qualunque sogno di potersi costruire una vita autonoma. “Sono pericolose – dice Elisabeth scura in viso. – Se le madame sapessero di questo sportello, chiuderemmo domani mattina”.
Huffingtonpost
09 09 2014
Una storia nella storia quella di Emma Sulkowicz. Che comincia con una violenza. Era all'Università della Colombia da circa un anno, la giovane studentessa, quando è stata violentata sul materasso della sua camera da letto da un suo compagno di ateneo, almeno stando alla successiva denuncia. Mesi difficili per Emma, che ha portato il peso di questa aggressione sul cuore: mesi di dichiarazioni, esternazioni, ripetute e dettagliate descrizioni dell'accaduto di fronte alle autorità, di polizia e universitarie.
"Lo stupro può accadere, ovunque" ha raccontato Emma. "Io sono stata violentata sul mio letto che da allora è diventato insopportabile per me, un peso insostenibile". Talmente grande che ha deciso di mostrarlo a tutti, per condividerlo, per raccontarlo, per espiare un dolore troppo grande. "Porto con me il materasso ovunque vada, affinché tutti possano sapere cosa è successo lì sopra. Lo porterò con me finché il mio aggressore non sarà punito e espulso dall'Università". Perché, nonostante la sua denuncia e quella di altre due ragazze, lo studente non è stato ritenuto colpevole dello stupro dalle autorità universitarie.
"Ero così ingenua che credevo che non mi avrebbero lasciata sola, perché ho detto solo la verità" ha detto la Sulkowicz all' Huffington Post Usa nel mese di febbraio. "Non mi aspettavo che l'Università non avrebbe preso le mie difese". Emma è una dei 23 studenti che hanno presentato una denuncia federale contro la Columbia per la cattiva gestione dei casi di violenza sessuale. Il Dipartimento dell'Istruzione degli Stati Uniti deve ancora determinare se indagherà l'Università.
Una battaglia che Emma non ha intenzione di perdere. Per questo la sua esperienza è diventata un progetto visivo e una tesi di laurea: "Carry That Weight" si intitola la sua protesta contro l'ingiustizia, che è anche una campagna di sensibilizzazione rivolta alla sua comunità affinché impari ad affrontare il trauma emotivo e fisico provocato dalla violenza sessuale.