Ingenere.it
08 07 2014
A chi vanno i soldi previsti per il contrasto alla violenza contro le donne? Come verranno ripartiti, e come mai si pensa di aprirne di nuovi, liquidando le strutture storiche con con quattro soldi? Dopo aver lanciato l'allarme, la rete D.I.R.E. annuncia una protesta per il 10 luglio, in occasione della conferenza Stato-Regioni, in cui verrà stabilita la ripartizione dei fondi.
«La distribuzione dei fondi non è chiara - sostengono le associazioni - temiamo che siano distribuiti con criteri “politici” disperdendo le già scarse risorse messe in campo.
E’ evidente che i Centri, che da oltre vent’anni lavorano in Italia con le donne, finiranno per avere finanziamenti irrisori mentre si cerca di creare un sistema parallelo di centri istituzionali con competenze improvvisate le cui procedure ancora “ingessate” in rigidi criteri burocratici, non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza.
In particolare: anonimato, ascolto competente e privo di giudizio, rispetto della loro volontà». Il timore è che con la creazione di centri istituzionali finisca per prevalere la burocrazia, a scapito delle pratiche consolidate da anni di esperienza sul campo.
I centri antiviolenza chiedono:
• che i criteri di riparto dei finanziamenti siano ridiscussi e condivisi con i centri antiviolenza nel rispetto delle raccomandazioni europee.
• che i centri antiviolenza pubblici siano, in questa prima fase, esclusi dal riparto dei fondi: la Convenzione di Istanbul che entrerà in vigore il 1° agosto, sostiene che i governi devono privilegiare le azioni dei centri antiviolenza privati gestiti da donne in quanto servizi indipendenti.
• che nella distribuzione siano compresi solo i centri antiviolenza gestiti da realtà del privato sociale attive da almeno 5 anni e che il finanziamento premi maggiormente i centri antiviolenza che operano da più anni valutando i curricula, i progetti svolti e il tipo di intervento che garantiscono.
• Che ci sia una forte raccomandazione alle Regioni di utilizzare i finanziamenti in aggiunta ai quelli che le amministrazioni regionali dovranno stanziare.
Il Fatto Quotidiano
08 07 2014
Secondo l’analisi di Telefono Rosa a proposito di femminicidio l’indipendenza economica resta un fattore fondamentale di affrancamento dal contesto violento. Lo conferma l’ampia quota di vittime disoccupate (19%), inferiore solo a quella delle impiegate tra le italiane (23%) e a quella delle colf/badanti, ricattabili, povere, vessate da una cattiva legislazione sull’immigrazione, tra le straniere (27%). Non vengono considerate le sex workers uccise, anche quelle spesso migranti, povere, ricattabili, costrette alla clandestinità.
La povertà, la dipendenza economica e l’impossibilità di esigere diritti inclusa la garanzia del diritto di cittadinanza, sovraespongono le donne. Non si capisce che le politiche contro la violenza devono ragionare di prevenzione a tutti i livelli, inclusa la materia economica, la possibilità per le donne di avere reddito e lavoro, e sono tutte cose che le istituzioni fanno fatica a prendere in considerazione, concentrate come sono a imporre alle donne ruoli di cura.
Perché se sei dipendente economicamente non potrai che svolgere ruoli di cura, di servizio, a poco prezzo o gratis. Perché se sei dipendente economicamente non ti resta che affidarti a chi ti mantiene o a chi ti dà elemosine per campare. Quante sono le donne, ma in generale le persone, che accettano situazioni pessime per sopravvivere? Quante restano a vivere con un uomo violento per avere un tetto, da sfamarsi, per se e i propri figli? Quante accettano ricatti osceni per un misero permesso di soggiorno? Quante sono costrette a subire perfino molestie o violazioni di diritti nel contesto lavorativo?
E poco conta se sei diplomata, laureata, perché il mercato del lavoro ti condanna comunque alla precarietà, perciò questa è la ragione per cui, stranamente, donne che hanno un livello di istruzione anche alto restano alla mercè di situazioni che altrimenti non vivrebbero mai.
Vi racconto una storia: una ragazza prende la laurea, non vuole più vivere con i suoi genitori, ha una madre opprimente, a volte violenta, che ha minato la sua autostima e la stalkerizza in continuazione. Lei cerca un lavoro, una stanza presso cui abitare, dopo qualche mese di fatica e sacrifici si convince che non ce la farà e migra in un paese straniero. C’è sempre il miraggio che le cose siano meglio altrove e invece lì c’è sempre un affitto da pagare, un buon lavoro da trovare e quando si rende conto che è tutto molto complicato sceglie di tornare in Italia e come prima cosa conosce un tale che può garantirle non moltissimo ma almeno un letto e da mangiare.
All’inizio sono tutte rose e fiori, si amano, anche se in altre condizioni la ragazza non sarebbe certo subito andata a vivere con lui, sarebbe stata più prudente, avrebbe mostrato più autonomia, e poi le cose si fanno complicate. A lei non piacciono di lui alcune cose, a lui non piacciono di lei alcune cose, finisce che quella convivenza, iniziata male, finisce altrettanto male. Lei che sperava di poter nel frattempo trovare un lavoro in realtà non trova nulla. Lui che pensava a lei come una regina del focolare si sente poco amato. Quando lei dice che vuole fare non so quale corso a spese del compagno lui all’inizio la supporta ma poi si rende conto che potrebbe perderla. Lui possessivo, lei in fuga. Quando la resa diventa evidente quella ragazza torna a vivere con la sua famiglia. Capisce che non c’è contesto familiare che possa garantirle autonomia senza ricatti e senza pretese. Capisce che quello che tutti vogliono da lei non è quel che vuole dare. Lei mente con se stessa, gli altri mentono con lei. Nessuno in grado di dire esattamente quel che si desidera. Nessuno è in grado di stabilire un rapporto senza fare perno sulle dipendenze, sul potere che da esse deriva, sul controllo di chi ha poca autonomia.
In questa storia non c’è di mezzo un figlio perché altrimenti sarebbero altri guai, ma giusto un avvicendarsi di tentativi alla ricerca di una indipendenza che nessuno ti regala mai. Imparare questo è una grande lezione. Non c’è il principe azzurro che ti salva. Un uomo non è il tuo genitore e se le istituzioni non investono in una diversa definizione dei ruoli di genere avremo sempre donne frustrate che si rifugeranno nell’idea classica di famiglia perché non hanno alternative e uomini che approfitteranno della inferiorità, per quanto in certi casi solo economica, delle donne.
E’ un uso reciproco, calibrato secondo i piani di un welfare stantìo, che risponde al progetto di istituzioni familiste, catto/fasciste, che pensano che altro le donne o gli uomini non sappiano e non debbano fare. Perché non è vero che nella società esistono mille opportunità che le persone e le donne in questo caso possono sfruttare. Le donne sono povere, lo sono tanto quanto gli uomini e spesso lo sono anche di più. La povertà, l’assenza di reddito e casa, è uno dei motivi per cui alcune donne muoiono. Quando non hanno soldi per lasciare la casa di un uomo violento. Quando non hanno diritto di cittadinanza in una nazione che se straniera ti riceve solo a patto che tu pulisca i culi dei vecchi. Quando non hanno una prospettiva futura e tutto quel che viene loro detto, in un’incessante propaganda che colpisce in egual modo donne e uomini, è che la tua felicità è la famiglia, e che solo così una donna può realizzarsi. Solo così un uomo può realizzarsi.
Quando è successo che uomini e donne hanno potuto avere spazio per investire nella propria autonomia? Ecco: la maggior parte delle situazioni violente nascono da una motivazione culturale, il possesso, anche il sessismo, che resta implicito nelle relazioni che non possono emanciparsi da questo. La maggior parte delle situazioni violente nascono perché io, tu, lei, lui, non abbiamo mai, forse, avuto scelta. E se non hai una scelta percorri sentieri già tracciati, interpreti ruoli imposti e non fai che assumere la posa di tuo nonno, di tua nonna, del vicino, della parente prossima, della figura che guardi tutti i giorni in quella pubblicità e pensi che a te andrà bene. Così non è quasi mai. Chissà perché.
Ingenere
02 07 2014
Genderis è un progetto di contrasto alla tratta di esseri umani. Più specificamente è un progetto finanziato dalla Commissione europea per sviluppare una metodologia di genere da applicare nelle azioni di prevenzione e contrasto. Non si è trattato di inventare cose nuove, ma di sistemattizare le competenze e l’esperienza di soggetti che lavorano sul campo nel contrasto alla tratta a partire da un posizionamento di genere.
Il risultato, dopo un anno di scambi, condivisione e ricerca, è un manuale utile sia alle operatrici e gli operatori che lavorano con le vittime che a chi fa ricerca, a chi vuole capire meglio e chi deve programmare e mettere in atto politiche di contrasto a tutti i livelli (locale, nazionale, europeo). Il progetto è realizzato dalla Fondazione G. Brodolini in partenariato con Differenza Donna, Surt (Barcellona) e CPE (Bucarest). Sul sito del progetto è inoltre possibile scaricare altri materiali: un rapporto sull’approccio di genere nelle politiche di prevenzione chi lo applica, perché e con quali risultati, sempre sul sito è scaricabile una raccolta di buone pratiche di contrasto alla tratta per lo sfruttamento sessuale.
Abbatto i muri
25 06 2014
Ancora penso alla faccenda delle bambole appese a un muro, con il consenso di alcune femministe del luogo, nella Milano da bere, dove si sfila con gli abiti firmati, dove si realizza una riproposizione netta di stereotipi sessisti in quella che vorrebbe essere una campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
Perché mi fa così tanto male, chiedo a me stessa? Perché non riesco più a tollerare questo abuso, uso, questa speculazione selvaggia di quel che riguarda le vittime di violenza? Perché imploro che non si faccia business sul mio dolore, sul mio sangue, sulla vita e morte di tante donne? Perché ho la netta sensazione che queste “femministe” e altra gente sparsa, che oggi fa i braccialetti antiviolenza e domani grazie al brand #femminicidio ti vende un paio di mutande, non abbiano capito niente a proposito della violenza sulle donne?
E’ come se mentre il mio ex mi massacrava di legnate a un certo punto la trasmissione avesse dichiarato lo stop per i consigli per gli acquisti e subito spuntava una presentatrice con un grande sorriso e in mano un reggiseno, poi un abito grandioso, poi un accessorio di bijiotteria. E prima del colpo finale che mi lasciò quasi stecchita è come se qualcuno avesse detto, sempre con sorrisi e accompagnamento di jingle pubblicitario, “tu non osare morire struccata… usa la tua soluzione cosmetica di fiducia, c’è la marca XY per te che ti fa bella anche se sei un cadavere“.
Avete presente il film The Truman Show? Così mi sento. Così le donne che subiscono violenza oggi vengono considerate. Accessori di scena, comparse buone a giustificare un aumento di audience, pretesti per ottenere visibilità, per vendere, fare marketing, fare pinkwashing. A vantaggio di gente che in fondo vuole solo che io esibisca il pianto, il livido, il dolore, che metta sul tavolo la mia carne fatta a pezzi. La stessa gente che mi pare faccia il tifo affinché a me accada qualcosa perché così avrà un buon soggetto da fotografare, piazzare sulle prime pagine dei quotidiani, fare partecipare ad una trasmissione televisiva, esibire come mascotte istituzionale, tirare in ballo per pompare l’autostima di patriarchi usati come testimonial antiviolenza.
E’ la mia pelle. E’ la mia vita. E’ la mia elaborazione personale che sta andando a monte, perché me la stanno rubando, ed è una cosa che non posso permettere avvenga, mi capite? Capite quello che sto dicendo? Non me ne frega niente del fatto che c’è più gente che parla di violenza sulle donne se di questa violenza non hanno capito niente. Mi importa ricavare empatia, essere umano dopo essere umano, condividendo la mia complessità, senza essere costretta a stare schiacciata tra semplificazioni, boiate senza fine, marketing istituzionale e retoriche a sostegno di una ideologia vittimaria che non mi appartiene.
Non me ne frega niente neppure di dare un senso alla vita di fanatiche che sono violente di per se’ contro quelle donne che non la pensano come loro. Io sono mia e lo sono sempre. Lo sono quando vivo e anche quando rischio di crepare. E’ mio quello che accade al mio corpo. Mia l’elaborazione. Mia la narrazione. Mia la definizione della violenza che ho subito. Mia la soluzione che decido di praticare. Mio tutto quello che serve a raccontare me.
Definire mediaticamente il fenomeno secondo umori catto/fascio/nazional/popolari, e anche forcaioli e giustizialisti, impone a me di abbracciare questa o quella corrente di pensiero, autocensurarmi per non rischiare di offendere la morale comune, ma il mio dolore non è in comune, siete voi che lo avete reso tale e avete preteso, così, di spegnere le singole voci in nome di una non meglio precisata unità di intenti e narrazioni che finisce dritta a rappresentarci tutte quante su quel muro idiota, con quelle bambole oscene e una di quelle, pensateci bene, potrei essere io.
E’ tutto sbagliato. Io non so come altro dirlo ma continuerò a dirlo. E’ tutto sbagliato. E’ sbagliato l’autoritarismo di chi vuole giudicare la mia narrazione, sbagliato che sulla lotta contro la violenza sulle donne si sia ritagliato lo spazio per una cazzo di religione, come se non ne avessimo già abbastanza, e sbagliato che si dica che del mio corpo, la mia vita, il mio sangue, possa parlare chiunque meno me. Ed ecco, allora, cosa vi ritrovate: gli annunci propagandistici di un governo fatto da patriarchi e matriarche, securitarismi messi in atto in mio nome, il marketing che prende la mia storia, esige di cancellarne le specificità, le particolarità, affinché anch’io possa essere definita secondo un pensiero unico, su quel muro unico, con quella sembianza unica.
Posso dire un’ultima cosa? Col cazzo che io lascio che si parli di me come una bambola appesa al muro. E non ci sono vie di mezzo. Non ce ne sono.
Ps: Io i muri li abbatto. Non faccio da arredo alle pareti. Sulla parete metti cose da abbattere. Perciò chiedo: sono io quella da abbattere?
Il Fatto Quotidiano
24 06 2014
Da sabato, in via De Amicis, a Milano, c’è una rete metallica a ridosso di un muro. Vi sono appese bambole realizzate da artisti della moda, altre bambole sono state donate da associazioni che hanno aderito all’iniziativa The Wall of Dolls. La settimana della moda maschile ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica al problema della violenza contro le donne impiccando bambole ad una rete. Le foto di queste bambole sono già pubblicate sul web e molte sono accessoriate dall’inseparabile ‘femminile’ borsetta. Un accostamento che scatena per associazione di idee il ricordo della cerulea statua marchigiana: Violata.
Gli organizzatori, almeno una trentina di marchi, hanno invitato donne e uomini ad appendere altre bambole a quel muro. Lo slogan si presta ad equivoci: “We are not just dolls” ovvero “Non siamo, solo, bambole”. Non solo ma un pochino si!
Siamo un po’ bambole quando devono limitare la scelta della maternità e in nome di un credo religioso, ci negano l’accesso all’aborto medicalmente assistito, perché se abortiamo ci trasformiamo in bambole assassine. E siamo, un po’ anche, bambole di pezza quando subiamo stupri. Siamo, un po’, bambole quando la moda crea abiti che non potrebbero essere indossati da una donna con il peso nella norma e in buona salute. Siamo, un po’, bambole quando stigmatizzano le nostre scelte sessuali e vogliono imporre sul nostro desiderio leggi morali. Siamo, anche un po’, bambole quando la moda e la pubblicità utilizzano le parti del nostro corpo per commercializzare ogni tipo merce, e anche quando fotografano modelle nel bagagliaio di un’auto con le gambe penzoloni solo per fare pubblicità ad un bel paio di stivali. Perché? Siamo, anche un po’, bambole e se moriamo dobbiamo farlo con eleganza anche se stiamo esalando l’ultimo respiro. Ce lo impone la nostra ‘femminilità’, questa invenzione che ci condiziona dal momento del dono della prima bambola. Grazioso feticcio in cui rispecchiarci o essere educate fin da piccole al ruolo di cura. E come rivendicare che siamo fatte di carne, di ossa, spesso incommensurabilmente differenti una dall’altra? Come lo vogliono abbattere questo muro di segregazione psicologica che ci tiene in scacco, che ci mette all’angolo, che detta come e che cosa dobbiamo essere?
Con un muro di bambole griffate.
La cosa più irritante è che questa iniziativa risponda ad una strategia di marketing più che alla volontà di denunciare un fenomeno. La violenza contro le donne è diventata un brand. I creativi di alcune aziende della moda hanno realizzato, negli anni scorsi, manifesti pubblicitari con modelle dal volto tumefatto molto simili a quelli adoperati per commemorare il 25 novembre. Il marketing funziona così, deve colpire allo stomaco e prescindere cinicamente dal significato veicolato con la pubblicità di un prodotto. Così tutto si confonde e perde di senso.
Abbiamo denunciato il problema del femminicidio e della matrice culturale che lo alimenta, abbiamo svelato la tragicità delle violenze contro le donne e abbiamo chiesto risposte politiche. Abbiamo combattuto perché il linguaggio cambiasse. Niente da fare. La denuncia della violenza come problema culturale è stata scippata, ed è stata svuotata dai nostri contenuti e adattata ad accogliere nuovamente la cultura che produce sessismo. Il simbolico patriarcale è ancora abbastanza forte per contaminare e rimodellare a sua immagine e somiglianza le nostre parole e i nostri contenuti. La legge cosiddetta contro il femminicidio della scorsa estate ne è la prova. Eppoi La morte ci fa belle, attraenti, ci dona appeal, grazie alla morte abbiamo tutto il protagonismo che ci viene sottratto come genere (o ci sottraiamo da sole) nella vita. Questo strisciante senso del macabro, da sabato, è appeso a quel muro e degrada una denuncia sociale a rappresentazione che ricorda gli horror di serie B.
Spero che non si abbassi ancora il livello di intelligenza, di buon gusto e di senso critico. Spero che qualche azienda di giocattoli non porti mai sul mercato qualche Ken femminicida e qualche Barbie vittima di violenza domestica o che qualche azienda di cosmesi non venda mai lividi adesivi griffati. (E spero di non aver dato suggerimenti a nessuno).
E spero ancora, che nessun altro appenda bambole su quel muro. Non cascateci vi prego!