L’Espresso
14 09 2015
Donne, detenute e abbandonate: la discriminazione corre dietro le sbarre
Negli istituti di pena italiani la popolazione femminile è nettamente minoritaria rispetto a quella maschile. Il numero esiguo delle recluse, però, diventa spesso causa di svantaggi ed emarginazione. Perché organizzare attività ricreative, culturali o lavorative e garantire i diritti che l'ordinamento penitenziario sancisce solo per loro non conviene
Quando si è in minoranza, è ovvio, non si è mai in una posizione di forza. Quando la minoranza è composta di donne, poi, le cose possono andare anche peggio. Così, paradossalmente, il fatto (di per sé positivo) che nelle carceri italiane la popolazione femminile sia nettamente minoritaria si trasforma nell'ennesimo motivo di discriminazione. Su un totale di 52.389 detenuti nei nostri istituti penitenziari (dato aggiornato al 31 agosto scorso), le donne sono 2.131. Il quattro per cento circa dell'intera popolazione carceraria, una percentuale che le costringe a subire una serie di limitazioni nel corso della loro vita dietro le sbarre.
Del problema si sono resi conto anche gli esperti che, per conto del Ministero della Giustizia, stanno elaborando una serie di proposte in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario. A luglio, infatti, il ministro Andrea Orlando ha inaugurato gli Stati generali dell'esecuzione penale, una piattaforma di studio suddivisa in 18 tavoli, ciascuno dei quali incaricato di approfondire un tema specifico tra le numerose problematiche che ruotano intorno al mondo delle carceri. E delle donne detenute si occupa il tavolo tre, coordinato da Tamar Pitch, docente di Filosofia del diritto presso l'Università di Perugia.
Il lavoro del gruppo si è rivelato non facile già dall'inizio, perché la suddivisione per temi ha ridotto il suo ambito di azione: in altre parole, la questione femminile è trasversale e, per forza di cose, s'interseca con altri aspetti, come la salute, l'affettività, il disagio psichico, il lavoro, la formazione e così via. Il team della professoressa Pitch, quindi, rischia spesso di sconfinare nella competenza degli altri tavoli e di doversi limitare a prendere in considerazione la sola tutela della maternità in carcere. Tralasciando problemi altrettanto importanti, tra cui, appunto, la possibilità che le donne siano svantaggiate.
“Il numero delle detenute, esiguo rispetto a quelli degli uomini, non può diventare un alibi per la concessione di privilegi, ma non deve nemmeno trasformarsi in un motivo per negare le loro specificità o per precludere l'accesso a diritti sacrosanti”, spiega Laura Cesaris, docente di Diritto dell'Esecuzione penale a Pavia e membro del tavolo tre. Innanzitutto, il principio della territorialità della pena, garantito per legge, viene spesso violato: su 198 istituti penitenziari sparsi per le venti regioni italiane, le donne sono dislocate soltanto in una cinquantina, visto che non tutti sono dotati di sezioni femminili. Il che significa una maggiore probabilità di spostamenti e di allontanamento dal luogo in cui la detenuta viveva o in cui restano i suoi familiari.
Ma non solo. Le discriminazioni esistono anche per quanto riguarda il cosiddetto trattamento penitenziario, ossia quell'insieme di iniziative e di strumenti che l'ordinamento predispone, affinché l'espiazione della pena corrisponda ai principi costituzionali e tenda alla rieducazione del condannato, oltre che al suo reinserimento in società. Il lavoro, per esempio. Oppure le attività culturali, sportive o scolastiche. Ecco, anche da queste le donne finiscono talvolta per essere escluse per mancanza di organizzazione. O meglio, perché l'organizzazione non conviene: troppo poche le detenute, troppe, in proporzione, le risorse da spendere per attività a loro dedicate.
Capita così che in alcuni penitenziari gli uomini abbiano l'opportunità di coltivare la terra e imparare a fare gli agricoltori, mentre le donne no; capita che quelle che vengono chiamate 'aree verdi', cioè spazi all'aperto in cui i detenuti possono incontrare i familiari senza la presenza delle guardie, siano spesso accessibili solo a papà e mariti. Capita persino che le palestre per fare sport siano prevalentemente occupate dalle sezioni maschili. Ma soprattutto succede che i servizi sanitari e la prevenzione di malattie gravi, già carenti a livello generale, siano ancora più inefficienti per la popolazione carceraria femminile perché non adeguati alle necessità fisiologiche delle donne.
“Le segnalazioni di discriminazioni ci sono state. Abbiamo fatto ispezioni e abbiamo in programma di farne in altri istituti dove si sospetta avvengano delle violazioni”, continua Cesaris. Che ricorda, poi, come al 31 agosto 2015 nelle carceri italiane vivano ancora 38 bambini. Anche l'aspetto della genitorialità, infatti, resta un problema: “Per evitare che questi bambini siano costretti a essere reclusi insieme alle madri, a causa della mancanza di un domicilio sicuro dove sistemarli, si dovrebbero incrementare gli istituti a custodia attenuata e le case-famiglia protette”. Per rendersi conto della situazione, però, basta sapere che al momento, nel nostro Paese, esistono solamente tre istituti a custodia attenuata e una casa-famiglia.
Entro il 15 ottobre prossimo, comunque, gli Stati generali dovranno concludere il loro lavoro, ma già il il 15 settembre presenteranno un primo resoconto: “In quel documento noi del tavolo sulle donne e il carcere esporremo le nostre perplessità e inizieremo a fare proposte - prosegue Cesaris -. Bisogna considerare, tuttavia, che nemmeno il nostro compito è agevole perché le donne subiscono una discriminazione nella discriminazione: persino nel monitoraggio a fini statistici effettuato dal Ministero finiscono per essere un po' dimenticate”. Vale a dire che i dati diffusi dall'amministrazione penitenziaria spesso sono globali e questo rende impossibile distinguere tra uomini e donne.
Cosa che succede, per esempio, nella conta degli atti di autolesionismo o dei suicidi: “Estrapolare il dato femminile per il 2014 non è stato semplice - ammette la professoressa -. Alla fine comunque siamo riusciti a registrare un decesso, 57 tentati suicidi e 362 atti di autolesionismo”.
Numeri abbastanza impressionanti, se confrontati con il totale delle detenute in Italia. Forse sono sintomo di un disagio ancora più accentuato di quanto non lo sia quello degli uomini. E allora, quali soluzioni? “Noi non possiamo intervenire nel concreto, non abbiamo poteri di azione o di sanzione e non possiamo certo compiere verifiche in ogni singolo istituto - conclude Cesaris -. Quello che si dovrebbe fare, da parte dell'amministrazione penitenziaria e del Ministero, è incrementare le risorse, le strutture e gli strumenti, in modo che siano sufficienti a rispondere ai bisogni di tutti. E poi, in particolare per le donne, si dovrebbero trovare delle vere alternative alla pena del carcere”.
l'Espresso
10 09 2015
I rifugiati viaggiano leggeri, perché il loro cammino è tanto pericoloso quanto difficile. Spesso vengono trattenuti, sono provati dalla fatica e dalla fame. Gli scafisti ne approfittano quotidianamente, promettendo loro la salvezza a pagamento, solo per spremerli come sardine in barche strette. I più non hanno alternativa: devono separarsi anche dai miseri averi che hanno portato nel loro viaggio.
Anche i pochi a cui è permesso di portare valigie extra a bordo spesso finiscono per gettarle in mare appena l'imbarcazione comincia ad imbarcare acqua.
Pochi arrivano a destinazione con qualcosa di più di quello che è strettamente necessario a sopravvivere. L'International Rescue Committee ha chiesto a una madre, un bambino, un ragazzo, un farmacista, un artista e una famiglia di raccontare cosa hanno nei loro bagagli e di mostrare cosa si sono portati dalle loro case. Questi oggetti raccontano storie del loro passato e delle loro speranze per il futuro.
“Ti sentirai umano. Non sei solo un numero”.
Una madre
nome: Aboessa*
età: 20 anni
provenienza: Damasco, Siria
Quando il conflitto è scoppiato a Yarmouk, campo non ufficiale per palestinesi a sud della capitale siriana, Aboessa è riuscita a scappare con suo marito e Doua, la loro figlia di 10 mesi. Dopo aver attraversato il confine con la Turchia, i tre hanno passato una settimana in un centro di accoglienza prima di salire su un gommone per intraprendere il viaggio verso le coste sicure dell'Europa.
La polizia turca, che pattuglia le coste, li ha fermati e ha sequestrato il motore della barca per costringerli a tornare indietro. Ma i rifugiati sono andati avanti, spingendo la barca con i remi attraverso le forti correnti marine.
Un cappello per la bambina
Un assortimento di medicinali, una bottiglia di acqua sterilizzata, un barattolo di cibo per bambini
Una piccola fornitura di pannolini
Un cappello e un paio di calzini per la bambina
Un assortimento di antidolorifici, crema protettiva, dentifricio
Documenti personali (incluso il libretto dei vaccini della bambina)
Un portafoglio (con carta di identità e soldi)
Carica batterie del cellulare
Una passata gialla
“Tutto è per proteggere mia figlia dalle malattie. Quando siamo arrivati in Grecia un uomo gentile mi ha dato due scodelle di cibo. Un altro uomo, quando ha visto mia figlia, ci ha dato biscotti e acqua”.
Un bambino
nome: Omran*
età: 6 anni
provenienza: Damasco, Siria
ll piccolo Omran, con la sua maglietta sportiva blu, è in viaggio verso la Germania con la sua famiglia di cinque persone per ricongiungersi ai parenti. I suoi genitori, consapevoli di dover viaggiare attraverso foreste e boschi per evitare i controlli, si sono assicurati di mettere in valigia bende per graffi e morsi di insetti.
Un paio di pantaloni, una maglietta
Una siringa per emergenze
Marshmallows e panna (il suo snack preferito)
Sapone, spazzolino e dentifricio
Garze
Un ragazzo
nome: Iqbal*
età: 17 anni
provenienza: Kunduz, Afghanistan
Iqbal ha trascinato il suo corpo fuori dalla barca con solo uno zaino sulle spalle. Ha viaggiato per centinaia di miglia e schivato pallottole per scappare dalla provincia in guerra di Kunduz, nel nord dell'Afghanistan, fuggendo ad est verso l'Iran, e poi andando a piedi in Turchia. Ora è a Lesbo. E' incerto su dove andare. È rimasto in contatto con un amico che ha già fatto il viaggio fino alla Germania. Poi c'è suo fratello, che studia in Florida.
Un paio di pantaloni, una maglietta, un paio di scarpe e un paio di calzini
Shampoo e gel per capelli, spazzolino e dentifricio, crema sbiancante per il viso
Pettine e tagliaunghie
Garze
100 dollari Usa
130 lire turche
Smartphone e un telefonino di back-up
Carte sim per Afghanistan, Iran e Turchia
“Voglio che la mia pelle sia bianca e i miei capelli lisci. Non voglio che sappiano che sono un rifugiato. Penso che qualcuno mi possa segnalare e chiamare la polizia perché sono un illegale”.
Un farmacista
nome: Anonimo
età: 34 anni
proveniente: Siria
Quando in Siria è scoppiata la guerra, il padre del farmacista ha raccontato i suoi ricordi della Germania, dove aveva vissuto per otto anni mentre faceva pratica medica. Il farmacista voleva una vita simile, di pace e speranza. Per questo è scappato con la sua famiglia in Turchia, dove ha incontrato uno scafista che ha organizzato il suo viaggio in Europa.
Con una borsa a strappo attorno al petto, il farmacista è salito su una imbarcazione troppo piena, con altre 53 persone, tra cui alcuni bambini. Miracolosamente, il gruppo è riuscito a fare la traversata in sicurezza fino alle spiagge della Grecia, dove ha trovato la guardia costiera che ha sparato per fermare la barca.
Soldi (incartati per proteggerli dall'acqua)
Un vecchio telefono (bagnato e inutilizzabile) e un nuovo smartphone
Carica batterie per telefono e cuffie (più una batteria extra)
Chiavetta usb da 16GB (contenente le foto di famiglia)
“Non abbiamo realizzato che c'era la polizia. Gli amici ci avevano detto di non fermarci perché altrimenti ci avrebbero riportati in Turchia. Non sapevamo il greco, non potevamo capire cosa stessero dicendo. Abbiamo stretto i bambini. Ho pensato: “Fatemi raggiungere la spiaggia e farò tutto ciò che direte”.
La loro barca è stata colpita e tutti gli occupanti sono finiti in mare. Il farmacista si è tenuto a galla per 45 minuti prima di essere soccorso.
Leggi la storia completa del farmacista e del suo viaggio da Aleppo alla Germania.
“Dovevo lasciare i miei genitori e mia sorella in Turchia. Ho pensato, se muoio in questa barca, alla fine morirò con le foto della mia famiglia accanto a me”.
Un artista
nome: Nour*
età: 20 anni
provenienza: Siria
Nour ha una passione per la musica e l'arte. Per sette anni ha suonato la chitarra e dipinto in Siria. Appena il suono delle bombe e degli spari ha cominciato a risuonare all'orizzonte, Nour ha preso le cose più vicine al suo cuore prima di partire per la Turchia. Oggetti che oggi gli evocano ricordi agrodolci di casa.
Piccola borsa di documenti personali
Un rosario (regalo dei suoi amici, Nour non consente che tocchi il suolo)
Un orologio (regalato dalla sua ragazza; si è rotto durante il viaggio)
Bandiera siriana, un portafortuna palestinese, braccialetti d'oro e d'argento (regali di amici)
Plettri per chitarra (uno regalato da un amico)
Cellulare e sim card siriana
Documenti
Una maglietta
“Ho lasciato la Siria con due borse, ma lo scafista mi ha detto che potevo portarne solo una. Nell'altra borsa c'erano tutti i miei vestiti. Questo è tutto quello che mi è rimasto”.
Una famiglia
provenienza: Aleppo, Siria
Questa famiglia ha perso tutto. Quando hanno lasciato la Siria, ogni membro ha portato una o due borse. Durante il viaggio verso la Turchia e poi la Grecia, la loro barca ha iniziato ad affondare. C'erano sette donne, quattro uomini e venti bambini. Sono riusciti a salvare solo una borsa.
Una maglietta, un paio di jeans
Un paio di scarpe
Oggetti per l'igiene personale
Un pannolino, due piccoli cartoni di latte e qualche biscotto
Documenti personali e soldi
Salviette sanitarie
Un pettine
“Spero che moriamo tutti. Questa vita non vale la pena di essere più vissuta. Tutti ci hanno chiuso le porte in faccia, non c'è futuro”.
nome: Hassan*
età: 25 anni
provenienza: Siria
“Questo è tutto ciò che ho. Ci hanno detto che potevamo portare solo due cose, una maglietta in più e un paio di pantaloni”.
A Lesbo l' International Rescue Commitee è attivo nel campo di Kara Tepe e in altre località dell'isola dove offre acqua pulita, assistenza sanitaria, pulizia, protezione e informazione ai rifugiati.
*I cognomi sono stati omessi per proteggere la privacy degli intervistati
Lo IRC aiuta le persone le cui vite e i cui mezzi di sostentamento sono compromessi da conflitti e disastri. Con il suo lavoro in circa 40 paesi e in 25 città americane, la IRC cerca di ristabilisce la sicurezza, la dignità e la speranza di milioni di famiglie bisognose e le aiuta a riprendere il controllo del loro futuro.
Titolo originale: What's in My Bag? What refugees bring when they run for their lives
Traduzione dall'inglese di Beatrice Pratellesi
Juliette Delay - Immagini di Tyler Jump
l'Espresso
04 09 2015
E poi c'è la non notizia. La non notizia è la storia edificante. La non notizia è la buona novella, quella che tutto sommato non sposta niente perché il mondo in cui vogliamo vivere - fingendo invece di rifuggirlo, di volerlo diverso, di odiarlo - è un mondo fatto di sfiducia, di farabutti da temere, di lucchetti da chiudere e non di porte da aprire e di braccia da tendere. Camminiamo a spalle strette temendo di essere depredati, derubati, persino scacciati dal nostro stesso Paese.
Morto Gheddafi e seppellito l’infame accordo siglato con Silvio Berlusconi ad agosto del 2008, un accordo dal nome rassicurante, “Trattato di amicizia e cooperazione”, è divenuta di nuovo pressante la necessità di preservare, addirittura “difendere” le nostre coste e i nostri mari (nostri? come se una terra o un mare possano avere padroni) da chi fugge l’inferno e per anni ne ha trovato un altro, nei lager che l’Italia aveva commissionato alla Libia, dietro compenso (circa 5 miliardi di dollari in 20 anni, spacciati per risarcimento all’ex colonia). Luoghi in cui si infrangevano sogni, luoghi di tortura. In cui i detenuti non erano trattati da esseri umani, prova che la memoria dell’uomo è fin troppo labile e che l’unica vera leva che tutto muove è l’opportunismo. Eppure la visione di Berlusconi è stata di fatto l’ultimo scampolo di decisionismo in materia di immigrazione. Da quel momento il vuoto.
Meglio il vuoto, dirà qualcuno. Meglio il vuoto invece delle prigioni. Meglio morire in mare che essere torturati da aguzzini pagati bene, come era col governo libico. Ma io mi permetto di non voler scegliere. Non mi sembrano due opzioni possibili, così come forse l’esistenza di quell’orribile patto dal nome rassicurante, vorrei la ricordasse il ministro britannico dell’Interno, Theresa May, secondo cui le morti in mare di questi ultimi anni «sono state esasperate dal sistema europeo della libera circolazione». Non è così. Le morti in mare sono aumentate perché i migranti ora hanno il permesso di morire in mare e non vengono più torturati in prigioni di cui non vogliamo sapere nulla.
A parlare sono i numeri. Ad agosto del 2008 viene firmato a Bengasi il trattato tra Italia e Libia e nel 2010 il numero di clandestini che raggiungono le coste italiane diminuisce sensibilmente. Secondo i dati forniti da Frontex, dal 2008 al 2009 gli sbarchi sono diminuiti del 74 per cento. Quindi c’entrano poco gli accordi di Schengen e la libera circolazione e c’entra invece molto la caduta di Gheddafi e la fine dell’amicizia e della cooperazione.
E come le storie edificanti non incontrano i favori dei grandi media, anche quelle che ci sbattono in faccia la nostra meschinità hanno scarsa attenzione: la capacità aberrante di dimenticare la storia e di reiterare sofferenze, finisce per diventare, in fondo, non notizia.
E invece io questa notizia voglio raccontarla e mi piacerebbe che venisse ripetuta ogni qual volta degli stranieri, di chi viene da Paesi che non appartengono alla comunità europea, si narrano gesta infami. È una notizia triste e in fondo non fa notizia perché racconta una verità fin troppo ovvia che conviene ignorare: non esistono persone buone o persone cattive, non esistono categorie di persone che agiscono nel bene e altre che non lo fanno. Men che meno possiamo attribuire una qualche inclinazione alla violenza o una particolare predisposizione al crimine a seconda della razza o della nazionalità. Anatolij Karol, era ucraino ed è morto a 38 anni mentre in un supermercato di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, ha voluto sventare una rapina. Non è stato un caso, l’ha proprio voluto perché era con sua figlia di un anno e mezzo e aveva già finito di fare la spesa. Stava andando via quando si accorge che due uomini arrivati a bordo di una motocicletta avevano fatto irruzione. Anatolij ha messo in salvo sua figlia ed è tornato indietro. Ha immobilizzato un rapinatore ma l’altro gli ha sparato. Su di lui poi hanno infierito con diversi colpi alla nuca forse procurati non con un coltello ma addirittura con una penna, brandita con rabbia cieca.
Questo ha fatto notizia nei media tradizionali solo dopo che i social network ne avevano diffuso il racconto ma nessun commento importante da parte del governo. Anatolij era ucraino. Fosse stato italiano e il suo assassino uno straniero, oggi su questo caso avremmo avuto attenzione, raccolte di firme, cortei. Fino a che i quotidiani sbatteranno in prima pagina il mostro straniero, magari sospettato e non ancora condannato, non ci sarà spazio per altro e saremo destinati a vivere nella paura del diverso, piuttosto che crederci arricchiti da quanti con noi creano ormai una comunità e più di noi muoiono per difenderla.
Roberto Saviano
l'Espresso
03 09 2015
I morti di Casale Monferrato non sono soli. Non per la solidarietà che hanno riscosso i loro parenti in cerca di giustizia. Non sono soli nel senso letterale del termine. Fra i 21 mila tumori provocati da esposizione all’amianto e rilevati a partire dal 1993, c’è infatti anche chi ha trascorso tutta la propria vita professionale fra i banchi di scuola, dietro una cattedra. E respirando polveri di asbesto è deceduto come chi ha lavorato negli stabilimenti della Eternit.
Secondo il Registro nazionale mesoteliomi istituito presso l’Inail, che censisce le neoplasie dovute all’amianto (pleura, peritoneo, pericardio e tunica vaginale del testicolo) nel 2012 - ultimo anno analizzato - erano stati registrati 63 casi nel comparto istruzione: 41 uomini e 22 donne. A scorrere le categorie professionali, c’è da restare di sasso: 25 insegnanti, 6 bidelli, 5 tecnici di laboratorio e via di questo passo. Non è data sapere la loro sorte, ma considerando quanto sia fulminante la malattia dopo la diagnosi, è legittimo supporre che siano tutti deceduti.
Tutti accomunati dall’aver trascorso anni e anni in aule e costruzioni “imbottite” di eternit: spruzzato per coibentare le tubazioni o usato in pannelli da isolante termico e antincendio, come è avvenuto a lungo in tutti gli edifici pubblici. Nelle scuole era facile trovare cartoni e tessuti d’amianto nei laboratori tecnici e artigianali e prima che venisse commercializzato sotto forma di panetto premiscelato e pronto all’uso perfino il Das in polvere conteneva un’alta percentuale di crisotilo (il cosiddetto “amianto bianco”).
È questo il contesto in cui tutti si sono ammalati, hanno scoperto di essere affetti da mesotelioma (più o meno dopo 37 anni di latenza) e nel giro di mesi sono deceduti. In media a 64 anni. Esattamente quanti anni ne aveva Andrea Brero, ricercatore di Scienze politiche a Torino, morto per tumore alla pleura nel 2012. E docente a Palazzo Nuovo proprio come Gianni Mombello, ordinario di Storia della lingua francese, scomparso qualche anno prima con la stessa diagnosi: i loro casi hanno spinto il pm Raffaele Guariniello ad aprire un’inchiesta e sequestrare Palazzo Nuovo, proprio per i rischi connessi alla salute.
STIME AL RIBASSO
In realtà le vittime sono molte più di 63. Non solo perché i dati dell’ultimo rapporto del Renam - che sarà pubblicato nelle prossime settimane e che l’Espresso ha visionato in anteprima - si fermano al 2012. Ma anche perché il picco si è verificato proprio negli ultimi anni: fra il 2009 e il 2012 sono stati 19 i casi registrati, cinque in più del triennio precedente. Ed è solo quest’anno, secondo lo studio, che dovrebbe iniziare a stabilizzarsi l’incidenza.
Anche ipotizzando che il numero sia rimasto inalterato, la letteratura medica internazionale concorda sul fatto che per ogni tumore alla pleura c’è statisticamente almeno un tumore ai polmoni. Di conseguenza le vittime di amianto potrebbero essere oltre 150.
Le istituzioni non sembrano però muoversi granché, tanto che lo Stato italiano non sa neppure esattamente quante sono le scuole da bonificare. Una stima l’ha fatto stima l’Osservatorio nazionale amianto: oltre 2mila. «Le uniche somme a fondo perduto sono i 150 milioni stanziati da Letta, il governo Renzi nonostante le promesse non ha messo in campo alcun intervento significativo» rileva il presidente della onlus Ezio Bonanni. Senza contare che, essendo i tempi per avere i fondi erano stretti, solo un terzo sarebbero stati effettivamente utilizzati.
ANNO NUOVO, VITA NUOVA?
Insomma, quando le scuole riapriranno fra una decina di giorni, non si preannunciano grandi novità. Ma proprio sulla scorta dei dati del Renam, qualche professore inizia ad avere paura. Come accade all’istituto tecnico “Leonardo da Vinci” di Firenze, l’istituto con quasi 2mila studenti divenuto famoso per il vademecum imposto agli alunni del biennio a causa della massiccia presenza di amianto: non forare, graffiare, né urtare le pareti, non correre all’interno dell’edificio, non chiudere “in modo violento” porte e finestre.
Luciano Macrì a 63 anni lì dentro ci ha passato oltre metà della sua vita: 32 da professore di Scienze più altri sei da studente: «Il mese scorso con alcuni colleghi abbiamo chiesto all’Asl di essere messi sotto sorveglianza sanitaria per essere sottoposti a monitoraggi costanti. Non ci hanno ancora risposto. I controlli sull’aria hanno sempre dato risultati negativi ma la preoccupazione resta: qui ci sono casi di colleghi scomparsi prematuramente». Un timore comprensibile: la Toscana, con 17 tumori da amianto registrati fra i prof., è la regione più colpita. In compenso a Palazzo Vecchio, dove fino a un anno e mezzo fa era inquilino Matteo Renzi, qualcosa inizia a muoversi: il comune ha stanziato 12 milioni per demolire la “Dino Compagni”, altro edificio fatiscente e imbottito di amianto.
Come il “Leonardo” riaprirà regolarmente anche la “Giovanni Falcone” di Roma, che da quasi cinque anni attende la rimozione dell’amianto bianco contenuto nei pannelli attorno ai vani delle caldaie: un’intercapedine di decine di metri lungo il perimetro esterno degli edifici che ospitano elementari e medie. E a pochi passi dal giardino in cui giocano i bambini. Le prime segnalazioni risalgono al 2010-2011 e un sopralluogo effettuato a fine 2014 ha anche rilevato la presenza di fibre di amianto. Ma la bonifica non è mai partita.
Il motivo? Trattandosi di una spesa per investimenti, non sono mai stati trovati i fondi necessari. Un capolavoro di burocrazia con tanto di estenuante carteggio - e annesso rimpallo di responsabilità - fra gli uffici del Campidoglio e del municipio. Adesso Roma Capitale ha stanziato 100 mila euro, che però dopo otto mesi non sono ancora arrivati: «Ci hanno detto che sono ancora fermi alla Ragioneria del Comune, che poi li deve trasferire al Municipio» afferma Raffaele Delle Cave, padre di un bambina che quest’anno andrà in seconda e coordinatore del comitato Amianto della scuola: «Se avessero accelerato i tempi, avrebbero potuto approfittare della chiusura estiva. Invece passerà un altro anno ancora senza lavori».
L’AMIANTO NON C’È. ANZI SÌ
Non riaprirà invece i battenti l’elementare “Antonio Gramsci” di Alpignano, vicino Torino, che resterà chiusa perché “realizzata con materiali e logiche di costruzione superati con presenza di pannelli in cemento/amianto”. Una vicenda accompagnata da polemiche e timori che adesso è finita in Procura a seguito di un esposto. Una storia emblematica, a suo modo. Fino a qualche mese fa, infatti, l’edificio (costruito nel 1971) rientrava negli standard di sicurezza. Poi a giugno la decisione improvvisa di chiuderla per sempre: “razionalizzazione e riorganizzazione funzionale dei plessi”, spiega la delibera di giunta. Insomma, un problema economico. Ma basta questo per chiudere una scuola?
Perfino la preside, nel corso di una riunione tecnica, arriva ad affermare esplicitamente che non si capiscono le reali motivazioni. Così inizia a farsi strada il timore che in realtà ci siano rischi connessi alla presenza di amianto. Un passaparola che trova conferma ufficialmente a metà luglio, nell’ordinanza con cui l’ufficio tecnico fa retromarcia e limita la chiusura a quest’anno scolastico. E da una richiesta di accesso agli atti salta fuori anche un monitoraggio del 2013 in cui - pur riconoscendo “danni limitati” alle fibre di amianto, “difficilmente liberabili” - una società di ingegneria suggeriva “un intervento di rimozione quanto prima”.
Rimozione che adesso dovrebbe arrivare con gli intervenuti di manutenzione. «I timori in ogni caso restano» osserva il presidente del comitato genitori, Giovanni Quaranta: «Se adesso è necessario addirittura chiudere la scuola, possibile che fino a ieri andasse tutto bene?».
Paolo Fantauzzi
l'Espresso
27 08 2015
Il tumore che ha portato alla morte di Marcy Borders, Lady Dust, la giovane donna della foto simbolo dell’11 settembre, potrebbe non essere un caso, ma solo l’ultimo episodio di una lunghissima catena.
In base alle stime diffuse dal WTC Health Care Program, il programma dell’ospedale Mount Sinai di New York dedicato specificamente ai superstiti delle Torri, sarebbero 2500 i casi di tumore certificato sviluppatisi tra i superstiti e i soccorritori dell’11 settembre.
La stima diffusa dal programma è la più prudente tra le molte che circolano e che arrivano persino a contare, almeno secondo un recente articolo del NYPost, 3700 casi certificati: 1100 tra i vigili del fuoco in servizio a Ground Zero sia l’11 settembre stesso, sia nelle settimane successive all'attentato, avrebbero sviluppato un tumore (tra di loro anche il capo del dipartimento newyorkese Tom Riley costretto a lasciare il lavoro da un rarissimo linfoma non-Hodgkin’s comparsogli nell’occhio destro); 2134 sarebbero casi sorti tra poliziotti e soccorritori e 467 quelli sorti tra residenti, lavoratori della zona e passanti.
Dati non ufficiali cui si affiancano però quelli diffusi dal dipartimento dei Vigili del Fuoco che ha un suo programma di assistenza e un suo database e che cita 863 pompieri malati e 109 morti, 44 dei quali per tumore.
La connessione tra le polveri sprigionate dall’attentato e dai crolli e lo sviluppo di malattie come cancro e leucemia è stata, seppur a malincuore, riconosciuta anche dal Governo Federale che, nel 2011, nel suo report sulle conseguenze sanitarie dell’attacco alle Torri cita: “Le indagini mediche e scientifiche dimostrano che il cancro, o almeno certi tipi di cancro, possono essere inseriti nell’elenco delle conseguenze sanitarie dell'attacco al World Trade Center”.
Il report del governo americano traccia anche un elenco delle principali sostanze sprigionate dall’esplosione degli aerei e dal crollo delle Torri: “Il fuoco- si legge nel report- è stato sprigionato dall’esplosione di 91.000 litri di carburante che ha causato la diffusione di circa 100.000 tonnellate di detriti organici, 490.000 litri di olio combustibile, 380.000 litri di gasolio per riscaldamento e carburante delle migliaia di auto parcheggiate nel sotterraneo del WTC. La colonna di fumo levatasi dalle Torri conteneva inoltre fuliggine, metalli, composti organici volatili, acido cloridrico, materiale da costruzione, cemento, vetro, amianto, silice cristallina, metalli, idrocarburi, furani, pesticidi e diossine che nelle ore successive si sono si depositati per decine di miglia attorno Lower Manhattan e a Brooklyn”.
Alla luce di questi dati, nel 2010 il congresso ha approvato lo Zadroga Act, dal nome di un poliziotto newyorkese morto di tumore, un provvedimento che mette a bilancio 4,2 miliardi di dollari per fornire cure e assistenza alle vittime sanitarie di Ground Zero.
Luciana Grosso
L’Espresso
03 08 2015
Ad Addis Abeba, al mattino presto, per le strade polverose si agitano dozzine di fantasmi con grandi cappelli di paglia e guanti di plastica. Sono le spazzine, tutte donne. Fanno il lavoro più improbabile del mondo: cercar di tenere pulita una metropoli sudicia in ogni suo angolo, inferno di fango e calcinacci, immenso cantiere di cemento. E anche lì, nei cantieri, ecco altre donne: infazzolettate per non respirare la sabbia, trasportano sacchi dal mattino alla sera. Di donne sono poi le migliaia di braccia che coltivano e recidono fiori nelle immense campagne a sud della capitale, dove crescono le rose che ogni giorno arrivano in aereo in Europa. E di donne sono le sagome chine al tramonto sui campi di teff, l’unico cereale che cresce a queste altitudini, la cui farina è materia prima per il cibo nazionale etiope, una spugnosa focaccia chiamata injera . E, ancora, donne sono le vittime del grande traffico di esseri umani e che finiscono semischiave nelle case dei ricchi sauditi, libanesi o kuwaitiani.
Donne come Toiba, ad esempio: 37 anni, l’abito blu cobalto, dopo sei anni in Arabia è tornata nelle campagne di Wuchale, nel nord dell’Etiopia. Nata come tante in un villaggio di montagna, a 12 anni è stata data in sposa a un uomo di 28 che lei non voleva. Scappata poco dopo in valle, si è lasciata convincere che la sua unica chance di vita fosse emigrare. Un broker le ha arrangiato il viaggio per 24 mila birr, più di mille euro: «Ma non preoccuparti, me li ridarai a poco a poco, in Arabia guadagnerai bene».
Così Toiba si è ritrovata in una casa di Gedda al servizio di una famiglia di 24 persone. E lei, unica domestica, a lavorare 21 ore al giorno: le altre tre poteva dormire. Giorni liberi? Uno al mese, che Toiba ovviamente passava a letto. Per sei anni, fino allo sfinimento e fino alla decisione di scappare, consegnandosi alla polizia saudita. «Mi hanno messo in una grande cella con altre 50 etiopi come me, era terribile. Alcune sembravano impazzite», racconta. Dopo due settimane è stata prelevata e imbarcata su un aereo per Addis Abeba. Con i soldi che aveva in tasca è riuscita ad arrivare a Wuchale. Lì ha conosciuto la famiglia di quello che sarebbe diventato suo marito: il secondo, quello che ha potuto scegliere. Oggi hanno tre figli, lui coltiva la terra, lei vende piccole cose in un negozio-baracca. Tutto sommato è felice, dice.
Etiopia, sogni e futuro delle donne.
Sempre a Wuchale abita Asrebeb, 16 anni di cui i primi 14 trascorsi in un villaggio: nemmeno sapeva cosa c’era oltre la montagna. Un mattino di due anni fa se n’è andata, a piedi e senza niente, in cerca di qualcosa di meglio di quella vita fatta di fame e di capre. Ha camminato per i sentieri otto ore poi ha preso l’autobus che l’ha portata ad Addis, dove ha trovato lavoro come domestica: dieci euro al mese più vitto e alloggio, nessun giorno libero, sempre a disposizione per pulire la casa, cucinare, accudire i ragazzini. La scorsa primavera è scappata anche lei. A Wuchale ha trovato una vedova con due figli che le ha offerto ospitalità e lo stesso salario che prendeva ad Addis, ma con orari più umani. E lei ha accettato: «La signora mi ha promesso che a settembre posso tornare a scuola», dice. «Spero che mantenga la parola».
Già, andare a scuola, fare le secondarie. È il grande sogno di tutte, qui, l’unico che può sottrarre agli altri destini possibili di chi nasce donna in Etiopia: il lavoro in campagna, l’emigrazione, l’urbanizzazione nella capitale che può portarti a fare la spazzina ma anche la prostituta su Cecenia Road, dove le adolescenti si offrono per due dollari.
A Wuchale ce n’è una, di scuola secondaria, e tra le ragazze che la frequentano una trentina sono lì grazie a una Ong italiana, il Cifa di Torino, che insieme a un’associazione locale sta provando a dare una speranza a qualcuna. Come Desta, 18 anni, nata nel villaggio di Teremchg, 12 ore di cammino da Wuchale: «La nostra vita era un campo di fagioli e una mezza dozzina di capre», racconta. «Il problema era l’acqua, perché al villaggio non ce n’era e per prenderla bisognava raggiungere il fiume, mezz’ora a piedi ad andare e un’altra mezz’ora a tornare. Quello era il mio compito a casa, oltre a pascolare le capre. Però per fortuna i miei hanno continuato a mandarmi a scuola e così quando ho finito l’ottavo anno sono stata selezionata per venire qui. Ora voglio diventare un medico e lavorare in ospedale. Ce n’è bisogno da queste parti, di medici», sorride.
Certo, di medici. Ma anche di ingegneri, come nel sogno di Workwha, 17 anni, nata nel villaggio di Abet: «Papà e mamma stanno ancora lì con mia sorella, hanno una mucca, due capre e un piccolo campo. Quando ho imparato a toccarmi l’orecchio sinistro passando la mano destra sopra la testa voleva dire che ero abbastanza grande per iniziare le elementari: da noi si fa così, se non si è registrati all’anagrafe. Però non c’erano scuole al mio villaggio: la più vicina era a due ore di cammino. Così, per otto anni, tutti i giorni mi sono alzata alle cinque per essere in aula in tempo, e a casa tornavo che era mezzo pomeriggio. Ma ero la più brava della classe, mi è sempre piaciuto studiare. Anche qui a Wuchale, ho tutti ottimi voti. Farò l’ingegnere civile, voglio aiutare il mio Paese a svilupparsi», dice.
Birtukan, 18 anni, viene invece da Yebar, un villaggio a circa un’ora di autobus più tre di cammino. Per lei, racconta, «i problemi sono iniziati sei anni fa, per via della carestia: quella stagione è piovuto pochissimo e la terra è rimasta secca; dopo un po’ hanno cominciato a morire le capre e siamo rimasti senza niente. Ricordo la fame che mi feriva la pancia, la sera; e la stessa fame al mattino, appena sveglia. Ma adesso che sono qui, a scuola, non ci voglio più pensare».
Tsehai Teshome è un’altra ragazza di Wuchale. Più grande, attorno ai 30 anni. Lei in questa cittadina etiope fa la poliziotta, ma con una missione particolare: proteggere le altre donne in una realtà in cui sono troppo spesso schiave. Ma non è sciocca, Tsehai, e ha capito che se si limitasse a fare il suo lavoro non servirebbe a niente: al massimo, a mandare alla sbarra qualche stupratore. E allora, a poco a poco, si è trasformata in qualcosa d’altro: una specie di consulente familiare, mediatrice coniugale, assistente sociale. A lei si rivolgono le adolescenti finite per fame in un bordello; a lei chiedono aiuto le mogli picchiate, così come quelle ripudiate e poi buttate per strada. E ancora, nel suo scalcinato ufficio arrivano le ragazze che, dopo essere rientrate dall’Arabia Saudita, al villaggio non hanno ritrovato più una casa, una famiglia, un posto dove stare. Non può fermare il mare con le mani, Tsehai, ma prova a fare qualcosa ogni giorno, con tutte le sue statistiche scritte a penna - stupri, botte, privazioni dei beni etc - e con le parole che dice alle donne e ai loro uomini. La sua missione, spiega, è cambiare le cose a poco a poco, smontare pezzettino per pezzettino una cultura del sopruso che ha migliaia di anni.
Sono Tsehai - e quelle come lei - la speranza dell’Etiopia. Un Paese che cresce veloce e caotico, con una capitale sterminata che vuole diventare l’ombelico del Continente: ad Addis c’è anche la nuova modernissima sede dell’Unione Africana e qui arrivano i leader d’Occidente quando vogliono parlare a tutta l’Africa (ultimo Renzi, a metà luglio). Ma dietro l’ambizione di questo Paese ci sono, appunto, Tsehai e le altre: ragazze che studiano, che lavorano, che lottano, che non vogliono emigrare ma rifondare daccapo una nazione di quasi cento milioni di abitanti, dove fin dai tempi di Erodoto tutto era sempre stato dominio solo dei maschi: e senza grandissimi risultati, per la verità.
l'Espresso
31 07 2015
Niente acqua per farsi una doccia, per lavare il cibo, per cuocersi un piatto di pasta, per dissetarsi. Scarichi del bagno che non funzionano o che buttano fuori liquami scuri e maleodoranti. Rubinetti asciutti da settimane, dai quali è impossibile far scorrere anche quel minimo di acqua che basterebbe a lavarsi le mani come basilare norma igienica o semplicemente a bagnarsi il viso, madido di sudore per l’afa infernale.
E poi, ancora: pareti a rischio crollo, intonaci consumati dall’umidità e dalla muffa, lampadari che si staccano, perdite di acqua che rischiano di andare a contatto con fili elettrici scoperti, corridoi allagati, archivi informatici inesistenti e sospette coperture in amianto.
Mentre si torna a parlare di allarme suicidi (cinque morti solo nell’ultimo mese) nelle nostre prigioni si sta consumando un’altra emergenza, non meno preoccupante: la carenza idrica che in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos molti penitenziari italiani e che sta provocando tensioni, rivolte ed emergenze sanitarie.
Segnalazioni ed esposti da parte dei sindacati di polizia penitenziaria e dalle associazioni a tutela dei detenuti sono già arrivati alle Procure e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da parte degli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Avellino, Cosenza, Cassino, Palermo. E situazioni analoghe sono state registrate a Milano, Lecce, Torino, Napoli.
Le strutture che ospitano i detenuti, infatti, spesso antichissime (alcune risalenti addirittura al Seicento) hanno tubature e condotte usurate dal tempo che non riescono a rifornire di acqua tutti i piani degli edifici e a far fronte a una popolazione carceraria così massiccia.
Dall’altro canto, il piano carceri indetto dal governo che prometteva di risolvere l’emergenza edilizia penitenziaria italiana sembra essersi arenato.
Lo stato di fatiscenza, insomma, è all’ordine del giorno. Come dimostrano le fotografie scattate dagli addetti ai lavori in numerose carceri della penisola e pubblicate da l’Espresso.
“E’ una situazione degradante e umiliante per tutti: detenuti e poliziotti. Che può avere conseguenze tragiche”, tuona il segretario generale del Sappe Donato Capece.
CARCERI A SECCO
Gli episodi più critici nelle ultime settimane si sono verificati in Campania. Con tanto di rivolte fra i detenuti, esasperati dal caldo e dalle precarie condizioni igieniche. Ad Avellino, in particolare, lo scorso 16 luglio i detenuti di quattro celle del reparto alta sicurezza hanno incendiato per protesta stracci imbevuti di olio e bottiglie di plastica. Un agente della penitenziaria è stato ricoverato in ospedale per un principio di intossicazione. E problemi si sono registrati anche ad Ariano Irpino dove – nonostante il penitenziario sia annoverato fra le “carceri d’oro” italiane – non esiste una mappa della rete idrica interna che renda possibile interventi immediati o il tamponamento delle numerosissime perdite. “Per questo motivo – fanno sapere dal Sappe – il provveditore regionale ha incaricato l’ufficio tecnico di redigere un progetto che preveda il rifacimento dell’intera rete idrica del carcere, che deve essere portato a termine nel più breve tempo possibile”. Segnalazioni che sono finite in un dettagliato esposto dritte alla Procura di Benevento, competente per territorio.
Tragica anche la situazione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che potrebbe ospitare al massimo 547 posti. Qui il problema idrico è strutturale e si ripresenta immancabilmente ogni estate, quando il caldo si fa più torrido: la fornitura avviene attraverso un pozzo semi-artesiano, quindi l’acqua viene resa potabile all’interno delle mura del carcere, che non ha l’allaccio alla rete idrica. E così anche semplicemente lavarsi le mani diventa un’impresa. Eppure esisterebbe un protocollo d’intesa siglato nel lontano 2004 tra l’amministrazione penitenziaria e la Regione Campania, rimasto, però, lettera morta: il Comune non ha soldi per finanziare i lavori. In questi giorni la questione è tornata alla ribalta e il garante per i detenuti della Campania, Adriana Tocco, ha visitato il carcere. Quello che è emerso è stato soprattutto un problema di impasse burocratica: l’allaccio alla rete idrica sarebbe stata autorizzata dal DAP che avrebbe stanziato i fondi per la spesa prevista (circa un milione di euro) ma questi fondi non possono essere trasferiti dal Ministero della Giustizia a un ente locale, trattandosi di lavori da svolgere al di fuori dell’area demaniale dell’amministrazione penitenziaria. Insomma, una situazione kafkiana dalla quale non si riesce a uscire.
Stesso copione alla casa circondariale di Cosenza, che accoglie 221 detenuti, dove la situazione nei giorni scorsi è diventata talmente intollerabile che il prefetto ha ordinato ai vigili del fuoco di fornire acqua d’emergenza, per uso igienico e sanitario, tramite le proprie autobotti. Le cisterne interne dell’edificio, infatti, dalla capienza di 50mila litri, si erano completamente prosciugate.
E così la carenza cronica di acqua porta ad un’unica soluzione: l’acquisto di bottigliette di acqua minerale, che viene usata sia per bere che per lavarsi o per cucinare gli alimenti. Con una conseguenza deleteria per le tasche dei detenuti. L’acqua in bottiglia, acquistata nello spaccio del carcere, ha infatti un costo leggermente più basso rispetto a quella normalmente in commercio, ma rappresenta pur sempre una spesa sensibile per chi è dietro le sbarre. Va detto, però, che qualche carcere virtuoso esiste: come quello di Arghillà, Reggio Calabria, dove i detenuti possono accedere all’acqua potabile da appositi distributori attraverso una scheda ricaricabile, che permette anche di caricare la corrente per poter cucinare all’interno delle celle.
SUD A PEZZI
A fotografare – nel senso letterale del termine – la situazione di abbandono e desolazione delle nostre prigioni ci ha pensato chi ogni giorno ne varca la soglia per svolgere il proprio lavoro: gli agenti della polizia penitenziaria.
E così vediamo come nel carcere potentino di Melfi i muri siano quasi completamente scrostati, dalle pareti si staccano pezzi di intonaco, le infiltrazioni di umidità sono ovunque e le docce non vanno. Anche a Trani, Puglia, la situazione non è rosea: qui i wc che si trovano nelle celle sono fuori uso, gli scarichi non funzionano, tanto che i detenuti devono utilizzare secchi di acqua.
Parla invece di “ambienti insalubri, saturi di umidità, invivibili in estate per mancanza di condizionamento e in inverno per inadeguato riscaldamento, condizioni igieniche impressionanti quando non completamente carenti”, di personale “che non rispetta i turni mensili” e che è costretto a convivere “con la presenza di cemento amianto” l’esposto del sindacato Si.p.pe. sull’Ucciardone di Palermo.
Calcinacci caduti, muffa, infiltrazioni di acqua piovana alle pareti, muri lesionati a rischio crollo e probabili coperture in amianto si trovano invece nella casa circondariale di Trapani, come ha testimoniato un recente sopralluogo guidato dal segretario regionale della Uilpa penitenziari.
Il sovraffollamento invece è all’ordine del giorno al Pagliarelli di Palermo, una struttura penitenziaria titanica che conta più di 1.400 detenuti di cui oltre 400 in regime di alta sicurezza.
Mentre sembrano essersi congelati da più di un anno i lavori per il nuovo padiglione del carcere di Agrigento, che doveva portare a 200 nuovi posti. “Qui ormai da tempo abbiamo superato il limite di guardia, e sapere che questa è la città del ministro dell’Interno Angelino Alfano rende tutto ancora più assurdo – tuona il coordinatore regionale della Uilpa penitenziari Sicilia Gioacchino Veneziano – i lavori sono fermi e manca ancora un dirigente in pianta stabile”. “I soldi che sono stati spesi – conclude Veneziano – si potevano almeno utilizzare per il mantenimento della vecchia struttura, evitando così di renderla oggi un autentico colabrodo”.
La situazione interna al carcere, in effetti, a guardare le fotografie, è disastrosa: le perdite vengono contenute con i secchi di plastica, la pioggia entra dalle finestre e viene arginata da sacchi neri per l’immondizia, le celle e i corridoi si allagano e l’acqua rischia di andare in contatto con i fili elettrici scoperti, i lampadari sembrano in procinto di staccarsi dal soffitto da un momento all’altro, i documenti negli archivi non hanno supporto informatico ma vengono ammassati in scatoloni di cartone, i metal detector sono difettosi e obsoleti.
Topi, celle fatiscenti, docce rotte e degrado dei reparti comuni anche Termini Imerese, il carcere speciale fortemente voluto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
ALLARME MALATTIE IN LIGURIA
Emergenza sanitaria, invece, in Liguria. Che vanta uno dei penitenziari più piccoli e antichi d’Italia: quello di Savona, un ex convento risalente al 1.400 dalla capienza di 38 posti (che però ne arriva a ospitare quasi settanta). Nel corso degli anni solo il primo piano è stato ristrutturato, ricavando docce e finestre. Il secondo piano, che si trova sottoterra, non ha né docce né finestre, ma solo le antiche “bocche di lupo” (poco più che fessure) che non permettono il ricambio di aria, neppure quando la temperatura si fa infernale.
Un carcere vetusto e continuamente in balìa di emergenze sanitarie si trova invece a Imperia, praticamente nel centro della città. “Trovandoci vicino al confine – spiega Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe Liguria – qui dentro vengono reclusi molti stranieri senza permesso di soggiorno e anche scafisti che arrivano in condizioni sanitarie preoccupanti. Abbiamo avuto episodi di Tbc, scabbia, e sospetti casi di Ebola che per fortuna poi si sono verificati falsi allarmi”. “E’ inutile che l’amministrazione penitenziaria pensi di risolvere il problema con qualche intervento di manutenzione qua e là per tamponare i danni – prosegue Lorenzo – queste carceri andrebbero abbattute e ricostruite, per adattarsi a quelle che sono le problematiche e le emergenze di oggi”.
PIANO CARCERI FANTASMA
E il piano carceri che prometteva di costruire penitenziari nuovi di zecca e di rimodernare quelli già presenti, appunto, che fine ha fatto? Nessuno più ne parla e i lavori sembrano essersi interrotti. Anche il sito www.pianocerceri.it che informava in tempo reale i cittadini sullo stato di avanzamento dell’edilizia penitenziaria non risulta più attivo, per il momento. L’ultimo aggiornamento risale al febbraio 2014, più di un anno fa. Prima di finire – nel giugno 2014 – sotto la lente della Corte dei Conti, che ha portato a un’inchiesta sugli appalti che ha bandito le gare per la costruzione dei nuovi padiglioni.
“Stiamo ancora aspettando anche che qualcuno nomini il commissario straordinario come aveva promesso il governo”, sottolinea ancora il segretario generale del Sappe Capece.
E a chiedersi dove siano finite le buone intenzioni del governo è anche l’ Osservatorio Antigone , che nel suo ultimo rapporto 2015 sulla condizione detentiva in Italia lo mette nero su bianco: “Ad oggi l’unica grande novità è data dal prossimo avvio dei lavori del carcere di Bolzano con il project financing. Un esperimento di parziale privatizzazione che va ovviamente attentamente monitorato”.
Per il resto “L’Italia risulta essere, dopo la Russia (298 mila dipendenti), il paese europeo con il più numeroso personale carcerario, pari a 45.772 unità nonostante molti Paesi abbiano più detenuti in termini assoluti rispetto all’Italia”. Personale che viene impiegato con mansione di sorveglianza dietro le mura carcerarie in condizioni lavorative disastrose e che condivide con i detenuti un amaro e beffardo destino: vivere da prigionieri in un inferno.
Arianna Giunti
L’Espresso
29 07 2015
hi sta peggio dei lavoratori atipici? Gli atipici in pensione. Stando ai calcoli dell'Inps percepiscono un assegno medio da 160 euro al mese. Loro sono quelli che, per almeno 20 anni di lavoro e stipendi striminziti, hanno versato i contributi alla gestione separata dell'ente previdenziale italiano, nella cassa dei parasubordinati perché erano inquadrati come co.co.co, contrattualizzati a progetto, parasubordinati o collaboratori esterni. Finalmente sono andati in pensione, ma avranno davvero poco tempo per rilassarsi, perché con un assegno da 160 euro dovranno darsi (ancora) da fare per arrivare a fine mese.
A rivelare gli importi in questione è Tito Boeri, presidente dell’Inps, che ha deciso di pubblicare sul sito www.inps.it il monitoraggio dei flussi di pensionamento relativo al 2014 e al primo semestre di quest'anno.
Come prevedibile, i parasubordinati sono la categoria più povera. Complessivamente il traguardo del buen retiro è stato raggiunto da 326mila ex lavoratori parasubordinati e nel 2014 la pensione è stata raggiunta da 26.294 di loro, altri 13.531 ci sono arrivati nei primi sei mesi di quest’anno. Tutte pensioni di vecchiaia, guadagnata cioè per raggiunti limiti di età, mentre nessuno ha ottenuto una pensione di anzianità, quella che si conquista sgobbando per 41 e mezzo per le donne e 42 anni e mezzo per gli uomini. L'età dei pensionati atipici è piuttosto alta, 68 anni, sono per lo più uomini (73 per cento) e la metà di loro proviene dal Nord Italia, mentre solo un decimo risiede al Sud o nelle isole.
I problemi dei futuri pensionati atipici sono due e hanno origini storiche. Innanzitutto l'aliquota versata dai precari nella loro cassa previdenziale è inferiore rispetto a quella pagata dai colleghi che un contratto vero e proprio ce l'hanno. Nel 1996, quando è nata la gestione separata, i primi co.co.co versavano all'Inps il 10 per cento del loro stipendio lordo, poi il 27 per cento ed entro il 2016 l'aliquota sarà alzata al 30 per cento. Comunque meno rispetto al 33 per cento versato dai lavoratori dipendenti.
Per i collaboratori il calcolo della pensione si fa esclusivamente con il metodo contributivo (cioè dividendo il totale dei contributi versati per un coefficiente di aspettativa di vita) e se nei primi anni di lavoro i soldi accantonati nel fondo Inps sono pochi si finirà per scontare questa carenza quando si andrà in pensione. Ecco perché Tito Boeri sarebbe favorevole all'introduzione di un contributo di solidarietà da parte dei pensionati di oggi a quelli di domani, che nel frattempo devono fare i conti con un secondo problema. Infatti quando l'atipico perde il lavoro smette anche di versare la quota previdenziale all'Inps e rischia così assegno pensionistico groviera, con un sacco di buchi contributivi.
La nostra previdenza è strutturata in modo che pochi abbiano tanto e, negli ultimi anni, la spesa per le pensioni sta ingessando sempre di più l'economia, penalizzando chi ancora non ha raggiunto l'età. Mentre sul fronte dell'invalidità, il divario Nord-Sud è abissale
In autunno Tito Boeri invierà ai lavoratori dipendenti la busta arancione con all'interno un calcolo di quando si potrà andare in pensione e a quanto ammonterà l'assegno. Dal 2016 sarà inviata anche ai parasubordinati. Ma farsi un'idea della pensione a dimensione di precario è già possibile usando il calcolatore online elaborato da Itinerari Previdenziali, comitato scientifico dell'economista Alberto Brambilla, in collaborazione con la società informatica Epheso e il Mefop, la società del ministero dell'Economia per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione.
Ad esempio, un collaboratore a progetto quarantunenne, con alle spalle 13 anni di contributi e un reddito che si aggira attorno ai 15 mila euro lordi all'anno, andrà in pensione a 69 anni e 3 mesi. Ponendo che la sua carriera sia già piuttosto assestata e dunque non preveda particolari aumenti di retribuzione (al punto che l'ultima busta paga si assesterà intorno ai 19.500 euro), nella peggiore delle ipotesi (cioè con una crescita del pil nazionale dello 0,5 per cento) percepirà un assegno di 13 mila euro.
Quanto varrà la pensione: cosa c'è nelle buste arancioni
Se invece l'economia andrà meglio e il prodotto interno lordo crescerà almeno dell'1,5 per cento, allora potrà ritirarsi con una pensione annua da 14.500 euro.
Dunque, nell'ipotesi più rosea, la pensione si aggirerà attorno ai due terzi dell'ultimo stipendio. Tutto questo ammettendo che riesca a lavorare in modo continuativo per i prossimi 28 anni. Traguardi difficili da raggiungere, come dimostrano le attuali pensioni degli atipici.
l'Espresso
24 07 2015
DOVE FINISCE LA LIBERTÀ di espressione e iniziano le minacce? Qual è il confine tra ciò che l’individuo può permettersi di dire e ciò che dovrebbe tacere?
Dopo la strage alla redazione di “Charlie Hebdo” tutti abbiamo preso posizione in favore della libertà di espressione e moltissimi quotidiani, riviste e siti internet hanno pubblicato le vignette di Cabu, di Tignous e di Wolinski per dimostrare che non esiste censura possibile, che il sangue non ferma la satira.
In quei mesi mi trovavo negli Stati Uniti dove accanto al grido di dolore «Je suis Charlie» c’è stato anche chi non ha ripubblicato le vignette di Cabu, Tignous e Wolinski in nome di un politicamente corretto che nel nuovo continente segue regole con le quali io spesso non mi trovo d’accordo, ma che vale la pena conoscere, perché le nostre prese di posizione siano sempre frutto di ragionamento e mai di pigrizia, di mera voglia di seguire l’onda. Regole che sono il frutto di una convivenza che deve essere pacifica tra culture diversissime in aree urbane dove spesso le differenze diventano l’unico segno distintivo, ciò che ricorda a ciascuna comunità le proprie origini. Dove la differenza viene vissuta come un plusvalore, come unico legame rimasto con il proprio sangue.
Questo l’Europa lo sta sperimentando ora. E lo sta sperimentando nella prima lunga fase pacifica della propria storia. Eppure la memoria di ciò che sono state le due grandi guerre del Novecento è nella carne, anche nella nostra, e quello che resta è ciò che il Nuovo Mondo non può avere: la necessità di voler scrivere, dire, urlare che tutti sono liberi di essere quel che sono nel rispetto delle origini di ciascuno, e allo stesso tempo la libertà di poter essere leggeri, di poter rendere tutto oggetto di satira.
Questa libertà è quanto di più prezioso possa esserci quando si sono sperimentati governi che hanno reso la satira illegale e hanno eliminato, fisicamente eliminato, chiunque provasse a mettere in discussione il potere con il sorriso. Ma questa libertà ha un solo limite, fondamentale, irrinunciabile, pena la dannazione e conseguenza il ritorno a un’epoca nera: la discriminazione. Le ferite dell’esperienze nazista e fascista ci hanno lasciato questa unica grande paura, quella di non voler mai più sentire o leggere offese a persone che sono di un’altra nazionalità, che hanno una diversa origine o che professano una diversa religione. E soprattutto, offese che poi come conseguenza prevedono l’allontanamento, la reclusione o addirittura lo sterminio. Si può prendere in giro chiunque, perché l’ironia serve a smussare gli spigoli, a notare eccessi, che nella convivenza vanno necessariamente ridimensionati, ma la linea di demarcazione la fanno le intenzioni.
È NOTIZIA DI QUESTI GIORNI il rinvio a giudizio di 25 persone con l’accusa di odio razziale; erano tutti animatori del sito internet neonazista Stormfront che negli scorsi anni più volte ha preso di mira extracomunitari e chi fosse a favore di politiche di accoglienza, la comunità ebraica e chi avesse origini ebraiche. Con me poi hanno trovato la summa di ciò che ritengono massimamente detestabile e le accuse quotidiane erano le solite: ebreo (usato come insulto) e sionista (perché parlo di pace, di due popoli e due stati). Mi odiano perché invoco lo Ius soli per i cittadini stranieri che nascono, studiano, vivono, lavorano e amano nel nostro paese.
IN TELEVISIONE raccontai la storia, bellissima e commovente, di Yvan Sagnet un giovane camerunense innamorato dell’Italia che studiava ingegneria al Politecnico di Torino e d’estate partecipava alla raccolta dei pomodori in Puglia. Yvan è un ragazzo istruito e grazie a lui molti extracomunitari sono riusciti a ribellarsi e denunciare le condizioni di vita nei campi, una moderna, ingiustificabile e vergognosa schiavitù. Dopo quell’intervento in tv sul sito Stormfront apparve questo commento «L’ebreo Saviano vuole candidare un nero come sindaco di Castelvolturno». Non c’è ironia in questa frase, non è satira, non prende in giro me, né Yvan. Ecco perché mi sono costituito parte civile in questo processo, perché sono convinto che ogni individuo sia libero di esprimere il proprio pensiero, ma esiste una linea, che si ferma davanti a cicatrici che si stanno rimarginando ora. Il nostro compito è di vegliare su quelle ferite, medicarle e fare in modo che mai più nessuno possa permettersi di infettarle dicendosi superiore. Non esistono razze superiori, solo individui stupidi, ignoranti e pericolosi.
Roberto Saviano
l'Espresso
23 07 2015
Se atterrasse a Punta Raisi, chissà a quale amaro calice Wolfgang Schäuble costringerebbe la Sicilia. Tuttavia non è necessario essere l'inflessibile ministro dell'Economia tedesco, super-falco nella trattativa con la Grecia, per rendersi conto che il debito accumulato dall'isola in decenni di finanze allegre, collusioni, clientelismi e favoritismi vari non è più sostenibile. Nei giorni scorsi lo ha messo nero su bianco anche la Corte dei conti con un allarme che - al di là delle frasi (e delle giustificazioni) di circostanza - non pare aver smosso granché le coscienze: ci sono "gravi e diffuse criticità gestionali", tutti i saldi di bilancio "presentano consistenti valori negativi", sono oggetto di un "generalizzato e significativo deterioramento" e i dati sono "in deciso peggioramento rispetto al 2013". E la situazione è talmente grave che ormai i valori negativi riguardano pure "quelle poste che avevano realizzato risultati positivi". Dunque "i conti pubblici regionali vanno al più presto sottoposti ad adeguati percorsi di risanamento concordati con il livello centrale" attraverso "un piano pluriennale di rientro".
Insomma, se non è default poco ci manca. E, a Palermo come ad Atene, è necessario ristrutturare il debito, pena il tracollo economico. Così, mentre la politica, sia nazionale che locale, si divide sul destino del governatore Rosario Crocetta, la Sicilia affonda sotto il peso di un disavanzo che a fine 2015 arriverà a 8 miliardi di euro: grosso modo quanto assorbe la spesa sanitaria, che in un solo anno ingoia la bellezza di 9 miliardi e mezzo e che non a caso - come hanno mostrato gli interessi e gli ostacoli che hanno spinto alle dimissioni l'assessore Lucia Borsellino - rappresenta il fulcro di appetititi di ogni tipo.
Eppure, malgrado il deficit aumenti senza sosta, all'opposizione c'è chi sembra gioirne. Come Toti Lombardo (Mpa), figlio dell'ex governatore Raffaele, che a 24 anni ha preso il posto di papà in Assemblea regionale e che ne approfitta per un parallelo non proprio felice: «Dal 2008 al 2012 il debito della Regione ha avuto un incremento medio annuo inferiore al 30 per cento. Dal 2012 al 2015 (con Crocetta, ndr) ha avuto un incremento medio di quasi il 50 per cento annuo», come se le performance del babbo, anziché comunque negative, fossero quelle del boom economico degli anni Sessanta. Tanto più che il confronto è in parte ingeneroso, perché se le casse sono a secco le responsabilità non sono tutte di Crocetta, al quale la Corte dei conti riconosce le "norme ispirate a rigorose politiche d’intervento" introdotte con l'ultima legge di stabilità.
Soltanto nel 2014, per risanare il debito pubblico, il governo ha tagliato infatti alla Regione Sicilia oltre un miliardo di trasferimenti, mentre l'Agenzia delle entrate ha trattenuto altri 600 milioni di tasse senza neppure darne una comunicazione formale. Da anni d'altronde fra Roma e Palermo si è innescato un braccio di ferro sulla ripartizione delle risorse, che dall'inizio dell'anno ha già portato a due pronunce della Corte costituzionale. Il punto però resta: la luce in fondo al tunnel appare sempre più lontana, se non irraggiungibile. Anche perché nessuno sembra all'altezza dello sforzo richiesto: per contenere la spesa nel 2011 una legge stabilì di redigere un piano di riordino della normativa regionale entro due anni. Ne sono trascorsi quattro e quella previsione è rimasta lettera morta.
Nel frattempo a pagare il conto ci pensano i cittadini siciliani, che hanno già visto schizzare le addizionali regionali su Irap e Irpef. Funzionerà? I magistrati contabili sono scettici. Forse non a torto, considerato che negli anni passati i soldi, che dovevano servire a pagare banche e fornitori delle aziende sanitarie, sono stati utilizzati come un bancomat per le emergenze varie: il trasporto pubblico, il collegamento con le isole minori, perfino la riorganizzazione della forestale.
La somiglianza con la Grecia arriva anche alla mancanza di liquidità con cui pagare stipendi e fornitori. Risultato: proprio come accaduto ad Atene, aumenta l'indebitamento con le banche e il ricorso ai prestiti, in un circolo vizioso sempre più micidiale. L'ultimo mutuo chiesto al ministero dell'Economia è di 1,8 miliardi, porterà l'esposizione verso via XX Settembre a quasi due miliardi e mezzo e costringerà a pagare rate da un centinaio di milioni fino al 2045. E a che cosa serviranno i soldi?
Prevalentemente a pagare l'arretrato delle Aziende sanitarie con gli istituti di credito, che ormai sfiora il miliardo.
La conseguenza è che fioccano gli espedienti per trovare il denaro necessario alla sopravvivenza. L'anno scorso i soldi per le spese correnti sono stati presi dal fondo per gli investimenti, quest'anno la Regione ci ha riprovato ma il governo si è opposto. Alla fine, quanto meno per consentire di chiudere il bilancio, due settimane fa Matteo Renzi si è rassegnato a staccare un assegno da 300 milioni. Non che il malumore di Palazzo Chigi sia del tutto infondato: solo per gli stipendi dei 20 mila dipendenti e le pensioni d'oro di ex lavoratori e "deputati" (come tengono a essere definiti i consiglieri dell'Assemblea regionale), la Sicilia spende un miliardo e mezzo l'anno. Esattamente quanto costano Camera e Senato.
Del resto i privilegi negli uffici non mancano. Mediamente alla Regione c'è 1 dirigente ogni 9 dipendenti, il rapporto più alto di tutta Italia, ma in alcuni dipartimenti la proporzione è ancora maggiore e sfiora l'incredibile. All’Urbanistica ad esempio ci sono 31 "capi" per appena 80 sottoposti, al Credito 25 superiori per 63 impiegati e alla Pesca 18 responsabili e 44 subordinati: in media, un dirigente ogni due dipendenti e mezzo.
E non è nemmeno tutto. Per svolgere l'Audit dei programmi europei la proporzione è ancora più bassa: 27 dipendenti e ben 15 dirigenti. Fino al caso dell'Ufficio speciale per la chiusura delle liquidazioni, dove un dirigente opera in assoluta solitudine senza alcun sottoposto. Proprio come un generale senza esercito.
Paolo Fantauzzi