l'Espresso
09 04 2015
Essere donna in Turchia è sempre più spesso sinonimo di lacrime e sangue. Letteralmente. Come racconta all'Espresso Arzu Bostac che, dopo essere stata mutilata degli arti dal marito, oggi lancia un appello ai medici internazionali perché l'aiutino a recuperare almeno l'uso delle braccia che le consentirebbe di riavere i sei figli.
La incontro nel minuscolo appartamento dei genitori a Sincan, una cittadina-dormitorio delle classi meno abbienti a 40 chilometri dalla capitale Ankara. Lei è lì, sul letto accanto alla finestra, il bel volto mediterraneo avvolto da un foulard legato sulla nuca, un cuscino a coprire l'assenza di gambe. Le braccia sono rivolte verso l'alto. Sembrano ossa rosicchiate dai cani. Una “Boxing Helena” in versione islamica. Ridotta a volto e busto dall'”amore” di un uomo. Ha 28 anni e 6 figli.
Il padre, un muratore a ore, la osserva da una sedia posta ai piedi del letto. È lui che a 14 anni l'ha data in sposa a Ahmed Boztas, un giovane di 24 anni, che l'aveva notata per strada e aveva deciso di sposarla. Lei lo aveva visto appena e la prima impressione – così racconta – è stata subito negativa. «Non avevamo altra scelta», spiega il padre oggi, guardando la moglie, una robusta donna di 58 anni che non ha mai messo piede in una scuola: «Non avrei potuto mantenerla, avevamo otto figli e a 14 anni abbiamo fatto sposare le 4 femmine. La famiglia di lui aveva più soldi di noi anche se lui non ha mai lavorato in vita sua. Certo non avremmo mai immaginato cosa sarebbe successo a Arzu».
Le vessazioni sono cominciate subito. «Mi è stato chiaro dal primo giorno che ero considerata una serva da tutta la famiglia, madre inclusa. Non ho mai visto un gesto d'amore da parte di nessuno», racconta Arzu tra le lacrime. Avrebbe voluto divorziare dopo pochi mesi ma come accade da queste parti sempre più spesso il divorzio si ottiene soltanto nel sangue. «Mi diceva che se avessi divorziato avrebbe ucciso mio padre e mia madre. Sapevo che ne sarebbe stato capace».
«E infatti un giorno che provai a chiedergli ancora una volta di concedermi il divorzio mi avvolse un telo intorno agli occhi e mi trascinò nel bosco che circondava la fattoria isolata dove mi aveva costretta a vivere. L'intento era quello di farmi a pezzi. Stava per infilarmi un coltello in gola quando i miei tre figli maschi di 8, 7 e 6 anni – che ci avevano seguito senza farsi notare - mi si gettarono contro supplicandolo di non uccidermi».
«La seconda volta che tentò di ammazzarmi fu con un coltello da cucina durante una lite tra me e sua madre. In quel caso fu suo fratello che intervenne all'ultimo minuto e gli tolse il coltello di mano».
Qualche anno fa la coppia si spostò alla periferia di Ankara dalla campagna per occupare una delle abitazioni popolari fatte costruire in ghetti selezionati dal governo di Recep Tayyip Erdogan. Nel giro di pochi mesi Ahmed violentò una donna handicappata che rimase in cinta. «Feci io da mediatrice con la famiglia di lei chiedendo loro di non denunciarlo ma di attendere un nostro eventuale divorzio che gli avrebbe permesso di sposare la loro figlia». Per la prima volta lui acconsentì alla separazione facendo promettere ad Arzu che avrebbe potuto tenere i loro figli se non fosse tornata a casa dalla sua famiglia.
Accettò. E rimase con lui durante le pratiche di divorzio.
Un giorno, cinque mesi fa, dopo che i quattro figli più grandi erano andati a scuola, le chiese di portare i bambini più piccoli da una vicina, così da essere loro due liberi per recarsi dall'avvocato. «Dopo averlo fatto mi sono messa a rifare il letto quando all'improvviso l'ho sentito arrivare dietro di me». Aveva un fucile a pallettoni in mano. Freddamente mi disse: «Non ti ucciderò ma divorzierai da me solo da storpia».
«Poi mi chiese di stendermi sul letto con gambe e braccia divaricate. Mi rifiutai e mi sparò ad entrambe le gambe. Crollai a terra con le braccia in grembo. A quel punto nel sangue alzai gli occhi e gli chiesi di lasciarmi almeno le braccia per potermi prendere cura dei nostri figli. Per tutta risposta lui con un piede mi allontanò le braccia dal mio ventre, prese la mira e sparò ad entrambe. Poco dopo sparò una volta ancora alle gambe e a una delle due braccia».
In totale sette colpi di fucile a pallettoni.
«Non ho mai perso conoscenza durante quegli eventi. Pensavo ai miei figli e alle mie figlie. Ero in un bagno di sangue. Quando un vicino accorse gli chiesi un bicchiere d'acqua. Lui gli ordinò di non darmelo perché altrimenti sarei morta. Ma io volevo morire»
«Quando sono arrivata in ospedale mi hanno dato per spacciata. E invece ho contiinuato a vivere. Al mio risveglio avevo un tubo in bocca e non avevo più le gambe. Provavo a parlare con gli occhi». Passò 65 giorni in ospedale.
I suoi figli sono finiti in un orfanotrofio pubblico da dove la chiamano una volta alla settimana assistiti da uno psichiatra. Lei è immobile in un letto. Lui in prigione per lo stupro della donna disabile, in attesa del nuovo processo.
La famiglia di lui non ha mai chiesto scusa. Anzi, pretende l'affidamento dei figli.
L'unica speranza di Arzu adesso è quella di recuperare l'uso delle braccia. Magari anche soltanto di un braccio. Ma non è facile. Avrebbe bisogno di ulteriori interventi che non essendo salvavita non sono offerti dai servizi sanitari turchi. Per questo si appella ai medici internazionali per trovare un aiuto.
Se recuperasse l'uso di un braccio potrebbe ottenere un paio di protesi per le gambe, ricominciare a muoversi e riavere i suoi figli. Altrimenti non le resterà che aspettare la morte a letto.
Federica Bianchi
L’Espresso
31 03 2015
E' stata uccisa in pieno giorno, pestata da una folla di uomini inferociti, il corpo schiacciato da una pietra pesante. Si è detto di lei che era debole di mente, una poveraccia capitata per caso davanti a un santuario, ingiustamente accusata di aver bruciato il Corano, vittima di un assassinio brutale.
Per la morte della 27enne Farkhunda, avvenuta a Kabul il 19 marzo, sono scese in piazza oltre tremila persone. Molte erano donne, il volto dipinto di rosso a ricordare la sua faccia sfigurata dalle botte. Altre donne hanno portato la sua bara al funerale. A qualche giorno di distanza, una nuova verità emerge: quella di una giovane donna istruita, una studiosa della legge islamica indignata dalle pratiche superstiziose che si svolgevano davanti a uno storico santuario della sua città, uccisa perché distrurbava gli affari dei mercanti del tempio.
E' il New York Times a tirare le somme delle indagini avviate a Kabul all'indomani della sua morte e in seguito all'indignazione popolare per l'accaduto: Farkhunda durante una cena di famiglia aveva annunciato la sua decisione di denunciare pubblicamente la vendita di amuleti porfortuna e preghiere da parte dei mullah come atto di superstizione e contrario all'Islam.
A quanto pare, il suo atto di donna devota e istruita le è costato caro: un uomo ha cominciato a gridare che aveva bruciato il Corano, una folla inferocita le si è radunata intorno, gli uomini hanno cominciato a picchiarla e infine hanno dato fuoco al suo corpo.
Ora, molti la considerano un'eroina, una martire del vero Islam. L'uomo che l'ha falsamente accusata di aver bruciato il Corano è in prigione, e almeno un'altra ventina tra coloro che hanno partecipato al linciaggio sono in carcere.
Il New York Times riferisce ancora che aveva osato dare ai venditori di amuleti del 'mendicante da due rupie' e aveva invitato i fedeli ad andare a pregare in un'altra moschea. Vendicata la sua memoria, resta la paura delle donne di Kabul. Che sanno bene come sia facile morire per strada, solo per aver osato parlare. E aver denunciato, come spesso accade, un 'business' nato dall'ignoranza.
l'Espresso
26 03 2015
La reporter americana Shannon Jensen ha fotografato le calzature con cui i profughi sudanesi si sono messi in cammino per scappare dal terrore. Ora le sue immagini sono l’emblema della nuova campagna di Medici senza frontiere. Per raccontare un'emergenza planetaria che coinvolge 51 milioni di persone
Cosa resta a un uomo, a una donna, a un bambino che ha perso tutto? Il suo corpo, i suoi abiti. E, se è fortunato, le sue scarpe. Di questi uomini, donne, bambini rimasti senza nulla al mondo ce ne sono 51 milioni: li chiamiamo profughi, rifugiati, migranti, richiedenti asilo.
Ma sono questo: persone che scappano a causa di un conflitto o di violenze endemiche e finiscono per non avere più una casa né un lavoro, né un orizzonte su cui aprire gli occhi. Dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, segnala l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, le persone in fuga non sono mai state così tante.
#Milionidipassi, le scarpe dei profughi sudanesi nel reportage 'The Long Walk'
Dalla Repubblica Centroafricana alla Siria, dall’Eritrea alla Somalia, vivono in campi profughi o in sistemazioni di fortuna in contesti urbani dalle condizioni igienico sanitarie e di sicurezza bassissime. Alcuni di loro cercano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa e solo allora diventano visibili. Per dare una nuova direzione al nostro sguardo e far conoscere le dimensioni e la complessità di questa catastrofe, Médecins Sans Frontières/Medici Senza Frontiere lancia la campagna #Milionidipassi ( www.milionidipassi.it ).
Le immagini che vedete sopra, scattate dall’americana Shannon Jensen nei campi profughi della zona del Nilo Blu nel 2012 e riunite nel progetto A Long Walk, ne sono il cuore. Nel giugno di quell’anno, pochi mesi dopo la secessione del Sud Sudan dal Sudan, circa 200mila persone si misero in marcia, a piedi, verso il confine nord del nuovo Stato. Stretti tra le milizie governative e i ribelli, vivevano nella paura. Arrivare nei campi profughi fu approdare alla salvezza ma anche lasciarsi indietro tutto.
'Lasciando il Nilo Blu', gli scatti dal Sud Sudan di Shannon Jensen
Dopo tanti giorni di cammino a piedi, alcuni di loro non sapevano più nulla di madri, fratelli, figli. Avevano visto bambini piccoli morire di sete e vicini di casa arsi vivi nei roghi causati dai bombardamenti aerei. «Mentre cercavo un modo per rappresentare ciò che raccontavano», spiega Shannon Jensen, «ho guardato in basso e ho visto le scarpe: quell’inventario incredibile di calzature rovinate, sformate, tenute insieme alla meno peggio. Più piccole o più grandi dei piedi di chi le portava, recuperate chissà dove. Da sole, la testimonianza di un’odissea. I dettagli dicevano anche altro: che ognuno di quegli uomini, donne, bambini era un individuo unico e degno, confuso in una folla».
Spingere a uno sguardo più partecipe che recuperi il filo di quella dignità, ma anche fare pressione sui governi è lo scopo di #Milionidipassi, che per tutto il 2015 attraverso spot televisivi, eventi ad hoc (quello di lancio coinvolge attori come Valerio Mastandrea e Laura Morante) e iniziative sui social network utilizzerà la metafora dei passi per “farsi sentire”. Il presidente di Medici Senza Frontiere Italia, Loris De Filippi, spiega quanto sia importante: «Siamo presenti con migliaia di medici, psicologi, logisti (tra cui oltre 240 italiani) nei luoghi teatro di crisi umanitarie. Non solo in Sud Sudan, dove gestiamo 18 progetti, ma in Repubblica Centroafricana, dove abbiamo avuto problemi di sicurezza, in altre aree dell’Africa e nei campi per i profughi siriani (ormai 3.900.000 persone) sparsi tra Libano, Giordania, Turchia».
Sud Sudan, i ritratti di Shannon Jensen
La sfida è immane, puntualizza De Filippi: «Cresce il numero dei conflitti e i civili ne sono sempre più coinvolti. In molti luoghi chi va per aiutare rischia di diventare bersaglio. E dobbiamo agire sempre più spesso qui, sulla nostra sponda del Mediterraneo, in Italia e in Grecia, dove sbarcano i migranti». Pensare che la sorveglianza dei mari o i controlli nei Paesi di partenza come Libia ed Egitto sia l’unica soluzione, per chi lavora sul campo è limitarsi a una risposta insufficiente e precaria. Alzare il livello delle coscienze, spingere i governi ad affrontare il fenomeno, è un compito difficile. Ma è l’unico veramente necessario.
Lara Crinò
Twitter @LaraCrino
l'Espresso
19 03 2015
Merito. Legalità. Responsabilità. Interesse pubblico. Sono le parole scelte dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso d'insediamento, per indicare a tutti i cittadini un cammino di speranza verso un'Italia migliore. Ma nell'Italia di oggi questa speranza continua ad essere umiliata. Perfino nei settori dove il riconoscimento del merito e della competenza dovrebbe essere assoluto, perché ne va della vita delle persone: quei reparti dei nostri ospedali dove si assistono i malati gravissimi.
Un caso esemplare di meritocrazia alla rovescia in un campo così cruciale della sanità pubblica riguarda il San Camillo - Forlanini di Roma, uno dei più importanti ospedali italiani. Che però, purtroppo, finisce di continuo nelle cronache per vicende di nepotismo, malasanità, disservizi o incidenti pericolosi, come la rottura dei tubi dell'ossigeno nella rianimazione, che si è verificata in gennaio per cause non ancora accertate (guasto, cattiva manutenzione o sabotaggio?) anche perché non funzionava neppure la video-sorveglianza.
Qui al San Camillo, nel 1999, un medico italiano di fama internazionale, il dottor Giuseppe Nardi, ha fondato una struttura di assoluta eccellenza: il “Centro Shock e Trauma”. I risultati sanitari sono oggettivi: già nel primo anno dopo l'arrivo di Nardi, il tasso di mortalità dell'intera rianimazione si è quasi dimezzato. Sotto la sua guida, il San Camillo è diventato il primo centro italiano per la cura degli eventi traumatici, preso a modello dagli ospedali di tutto il paese e anche da molti medici stranieri, che per una volta guardavano a Roma per l'attività di ricerca e sperimentazione di nuovi e più efficaci metodi di cura dei casi disperati.
Nardi infatti è molto conosciuto nella comunità medica internazionale anche come autore di decine di studi di altissimo livello pubblicati sulle riviste scientifiche più prestigiose del mondo, a cominciare da Lancet, per citare la più nota. In un paese civile, un ospedale pubblico dovrebbe tenersi stretto un super medico di questo livello. Invece, nel luglio 2014, la dirigenza del San Camillo ha improvvisamente rimosso il dottor Nardi. Il medico, che svolgeva da 15 anni le funzioni di primario, è stato degradato e ha perso la guida della struttura da lui creata. Il suo “Centro Shock e Trauma” è stato soppresso, l'organizzazione di medici e ricercatori costruita da Nardi è stata smembrata e distrutta.
La cosa più strana è che all'ex primario non è stato mosso alcun addebito. Nessuno ha messo in dubbio le sue capacità, competenze, risultati. Semplicemente, Nardi si è visto sbattere la porta in faccia. E per sostituirlo è iniziato un balletto di nomine e sostituzioni di primari, che ha lasciato sbalorditi i più autorevoli medici italiani, scatenando un moto d'indignazione negli ospedali, nelle università e tra centinaia di pazienti. Che hanno inondato di lettere di protesta la direzione del San Camillo e i vertici politici della Regione Lazio, da cui dipende la nomina degli amministratori degli ospedali pubblici.
Per chiarire l'accaduto, l'Espresso ha chiesto un'intervista al direttore generale dell'ospedale San Camillo, Antonio d'Urso, con domande e risposte scritte. Ora la pubblichiamo integralmente. Nelle domande abbiamo inserito le spiegazioni pratiche che possono rendere più comprensibili alcune risposte un po' burocratiche. Mentre nella parte finale abbiamo omesso il nome del primario nominato al posto di Nardi, perché si tratta di un condannato con sentenza definitiva che ha ormai pagato il suo conto con la giustizia. E che, dopo le prime polemiche, ha volontariamente rinunciato all'incarico.
Dottor D'Urso, la delibera di rimozione del dottor Nardi porta la sua firma di direttore generale del San Camillo: perché ha deciso di rimuovere uno specialista così stimato a livello internazionale?
«Il dottore Giuseppe Nardi è un medico dirigente, non è inquadrato presso questa Azienda Ospedaliera come primario titolare. Dal 2008 ha assicurato, con incarico provvisorio, la direzione della “Struttura Complessa Shock e Trauma” nell’attesa del relativo Avviso Pubblico che, però, non è mai stato bandito. Nel caso di specie, nel mese di luglio 2014, la direzione della struttura è stata affidata ad uno dei quattro Primari di Anestesia e Rianimazione già in servizio in questa Azienda Ospedaliera»
A noi risulta che il dottor Nardi era stato chiamato al San Camillo nel 1999 proprio per creare quel reparto. E che allora era già direttore di una struttura analoga, in gergo Uosd, nel Nord Italia. Fondato il nuovo reparto al San Camillo, lo ha quindi diretto per i primi 8 anni proprio come direttore di Uosd, ottenendo i risultati che lei non dovrebbe ignorare, almeno per quanto riguarda la riduzione dei tassi di mortalità, tanto che nel 2007 la sua struttura è stata promossa a “Unità Complessa”. Poi però la Regione ha bloccato i concorsi per diventare primario. E a quel punto il San Camillo ha soppresso anche il ruolo di direttore della Uosd, a quanto pare per un errore burocratico. Ha qualcosa da obiettare a questa ricostruzione?
«Conosco il curriculum del dottor Nardi per avermene parlato lui stesso. Aggiungo che nel 2008 gli è stato conferito l’incarico di elevata professionalità chiamato “governo clinico per lo shock ed il trauma”. E’, questo, un incarico professionale, classificato come di altissimo livello all’interno dell’Azienda ospedaliera San Camillo - Forlanini. So che le Direzioni dell’Azienda che si sono succedute nel tempo hanno richiesto alla Regione Lazio l’attivazione delle relative procedure per l’individuazione del Direttore, così come per altre strutture previste nell’Atto Aziendale. In alcuni casi le procedure sono state espletate. Non nel caso della Uoc “Shock e Trauma”»
L'Espresso ha raccolto informazioni anche attraverso i sindacati medici e ospedalieri: quello che lei chiama “incarico di alta professionalità” viene da loro definito “una medaglia di cartone”, a cui non corrisponde sostanzialmente nulla. Al San Camillo ci sarebbero un paio di centinaia di medici con questa carica. Uscendo dal burocratese: c'è un dottore straordinario che fonda un centro di eccellenza e lo dirige per 15 anni con il grado di generale, mentre ora si ritrova brigadiere con una medaglia di cartone. Davvero era inevitabile rimuovere e degradare un traumatologo del livello di Nardi?
«Posso dire che comprendo le aspirazioni di quel professionista. E‘ però necessario che, in questo come in altri casi, le aspirazioni di valorizzazione dei diversi professionisti per un incarico di primario siano coerenti con quanto previsto dalle norme in questi casi: posto disponibile nella dotazione, avviso pubblico, eccetera»
A noi risulta che i sindacati interni, con l’accordo del dottor Nardi, avessero chiesto di ristabilire la situazione precedente: sarebbe bastato ripristinare la vecchia “Uosd” per salvare la struttura e permettere al suo fondatore di continuare a dirigerla. Perché non avete scelto questa soluzione?
«La positività dell’esperienza di questi anni della Struttura Complessa Shock e Trauma è stata quella di coniugare le cure intensive con i trattamenti anestesiologici di urgenza ed emergenza in un contesto orientato al miglioramento continuo. Ed è per questo che ho confermato la natura complessa alla Struttura Shock e Trauma, sia pure denominandola diversamente. Ritengo, infatti, che questa connotazione consenta di continuare ad assicurare a questo gruppo di professionisti l’autonomia organizzativa e professionale in ragione del compito assicurato, come peraltro avvenuto sin dalla sua istituzione. Non credo che le aspirazioni dei singoli professionisti possano invero costituire un pregiudizio per l’organizzazione, ma semmai sono un ingrediente positivo se estrinsecato all’interno della stessa organizzazione»
Insomma, lei ci spiega che sarebbe stato legalmente impossibile confermare Nardi. Leggendo la delibera con cui è stato rimosso, però, abbiamo scoperto che avete mantenuto nel loro incarico due radiologi che erano nella stessa situazione: anche loro erano direttori “facenti funzione” da anni. E nella vostra azienda ospedaliera c'erano altri radiologi primari di ruolo. Eppure, in quei due casi, la soluzione l'avete trovata: li avete confermati, come scrivete nella delibera, “perché hanno una expertice”, cioè perché sono bravi. E avete fatto bene. Infatti ci risulta che al San Camillo, in totale, ci siano almeno 18 “facenti funzione”. Ma allora torniamo a chiederle: perché avete rimosso solo Nardi? Lei è a conoscenza del numero e del livello scientifico delle sue ricerche e delle sue pubblicazioni internazionali?
«Conosco il dottor Giuseppe Nardi e ne apprezzo le competenze professionali»
Ed è a conoscenza del livello di mobilitazione del mondo medico e scientifico, non solo italiano, documentata da centinaia di email in nostro possesso, in difesa del “Centro Shock e Trauma” e a sostegno del dottor Nardi?
«Sull‘importanza della “Struttura Complessa Shock e Trauma” concordo, tant'è che è stata confermata nella proposta di Atto Aziendale. Sono convinto che il valore di questa articolazione dell’azienda è il frutto dell’opera di un gruppo di professionisti. So anche del sostegno al professionista manifestato dalla comunità scientifica. Osservo però che l’Avviso Pubblico per l’individuazione del Primario della Struttura Complessa Shock e Trauma fin dalla sua istituzione non è stato effettuato»
Insomma, lei ci dice che c'era un insuperabile problema burocratico che riguardava solo il ruolo di Nardi. Ma allora perché avete deciso di sopprimere anche il Centro da lui creato?
«Come ho evidenziato, la “Struttura Complessa Shock e Trauma” invero è stata confermata nella proposta di Atto Aziendale presentata alla Regione Lazio, sia pure con una diversa denominazione - “Struttura Complessa Anestesia e Rianimazione - Centro di rianimazione e Anestesia Urgenza-Emergenza” - che meglio descrive le attività di anestesia e rianimazione effettuate già adesso»
A noi suona strano anche quello che lei ora definisce un semplice cambio di nome: il “Centro Skock e Trauma” era diventato un marchio di prestigio, utilizzato per anni dalla Rai, ad esempio, per le campagne sulla sicurezza stradale, oltre che un simbolo di ricerca di qualità, conosciuto da tutti gli scienziati. Ma in realtà, oltre al nome, a noi risulta che sia cambiata la squadra, insieme al metodo di cura e al lavoro di ricerca. Ed è proprio quella squadra che ha salvato tante vite in questi anni: il Centro fondato da Nardi aveva ridotto di tre volte la mortalità specifica da trauma. Citiamo dati ufficiali, ricavati dalle vostre tabelle ospedaliere: prima dell'arrivo di Nardi, la mortalità nella rianimazione del San Camillo era del 42 per cento; solo 12 mesi dopo, era già scesa al 27 per cento. Eppure i professionisti erano gli stessi. Di fronte a questi dati, come può negare l'importanza del ruolo di Nardi? Chi organizza e dirige una struttura sanitaria che funziona, non conta niente?
«Osservo solo che la buona gestione di casi così complessi è frutto di un lavoro di professionisti (anestesisti, infermieri, etc.) che quotidianamente operano a letto del malato con passione e competenza, come accade negli altri Servizi di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini e negli altri Ospedali. Per questo li ringrazio»
Stando ai documenti diffusi dal San Camillo, al posto di Nardi è stato nominato il dottor XXX, che però dopo pochissimo ha rinunciato all'incarico, tanto che è già stato sostituito. Abbiamo cercato su Internet quali titoli avesse il dottor XXX, ma non abbiamo trovato alcuna ricerca o pubblicazione scientifica di rilievo internazionale. Abbiamo invece scoperto che un medico con lo stesso nome, cognome, età e residenza è stato condannato con sentenza definitiva come autore di tre gravissimi fatti di criminalità politica. Si tratta della stessa persona o è un caso di omonimia?
«Il dottor XXX è diventato primario più di dieci anni fa, in seguito ad avviso pubblico. In relazione all’episodio da lei citato, riferito a metà degli anni Settanta, ne sono a conoscenza avendomelo riferito lo stesso dottor XXX nel mese di maggio dello scorso anno».
Quell'«episodio» degli anni di piombo consiste in tre ferimenti di nemici politici, che hanno avuto conseguenze molto gravi per le vittime. Insieme al dottor XXX sono stati condannati altri suoi complici che pochi giorni prima, con le stesse modalità, avevano commesso addirittura un omicidio politico. Quella catena di delitti è stata punita con molti anni di ritardo, perché i colpevoli erano riusciti a imporre un clima di omertà. Molti di loro nel frattempo erano diventati medici affermati. Per nominare un primario lei ritiene necessario, utile o quantomeno opportuno controllare la fedina penale dei candidati? Il dottor XXX aveva comunicato alla vostra azienda ospedaliera i propri precedenti penali?
«Il dottor XXX ne aveva fatto doverosamente menzione a suo tempo, nella domanda di partecipazione al concorso. So anche che il professionista è stato completamente riabilitato»
La riabilitazione non è un'assoluzione, anzi può essere concessa solo a chi ha scontato la condanna definitiva: significa solo che, dopo un certo numero di anni, il colpevole ha potuto far cancellare quel precedente dal suo certificato penale. E' questo problema giudiziario la ragione che ha spinto il dottor XXX a non esporsi, rinunciando a occupare il posto che gli avevate assegnato dopo la rimozione di Nardi?
«In relazione alla modifica nella Direzione della Struttura Complessa, osservo che la stessa è stata proposta dai quattro Direttori di Anestesia e Rianimazione in servizio nell’Azienda Ospedaliera in considerazione delle linee di attività previste nel nuovo Atto Aziendale” : è l'atto deliberativo numero 729 del primo dicembre 2014»
Questo non spiega la rinuncia. Fatto sta che al posto di XXX, con quella tornata di delibere, è stato nominato il dottor YYY. Anche nel suo caso, non abbiamo trovato un curriculum scientifico o riconoscimenti di professionalità che siano neppure lontanamente paragonabili, a nostro avviso, a quelli del dottor Nardi. In compenso abbiamo scoperto almeno tre cliniche private per cui il dottor YYY risulta prestare lavoro. E' normale che un primario di un ospedale pubblico lavori contemporaneamente in diverse cliniche private?
«Il dottor YYY è diventato primario in questa azienda ospedaliera dal 1999 a seguito di Avviso Pubblico. Il suo curriculum è visionabile nel sito internet dell’azienda ospedaliera. In relazione all’attività libero professionale, il dottor YYY esercita in forma allargata presso alcune Case di Cura Private convenzionate con il San Camillo Forlanini, così come previsto dalla normativa nazionale sulla libera professione. Molti professionisti della nostra azienda ospedaliera, tra cui anche lo stesso dottor Giuseppe Nardi, effettuano attività libero-professionale con la stessa modalità»
Quest'ultima affermazione impone a l'Espresso due precisazioni. La prima è che Nardi non ha voluto in alcun modo commentare queste parole del direttore generale del San Camillo. Molti altri medici che lo conoscono e lo stimano, però, hanno spiegato che «Nardi è universalmente noto per dedicarsi da sempre a tempo pieno alla sanità pubblica: nella sua vita ha fatto pochissime visite private, in casi eccezionali e disperati». Il nuovo primario YYY, invece, risulta svolgere stabilmente la libera professione in diverse tre cliniche private, in una addirittura come direttore del dipartimento d'emergenza.
La seconda precisazione è che tutte le decisioni prese dai vertici amministrativi e dai primari interessati del San Camillo vanno considerate perfettamente legali, come ha spiegato proprio in questa intervista il direttore generale. Così come è assolutamente conforme alle norme e a tutte le regole burocratiche rimuovere dall'incarico un medico che ha salvato la vita di migliaia di pazienti. Dunque, protestare è inutile: nella sanità i risultati non contano, i meriti non vanno premiati. Benvenuti a Roma, Italia.
Lia Quilici
L’Espresso
17 03 2015
Stefano Cucchi non è morto di fame e di sete. Per questo, secondo i familiari assistiti dall'avvocato Fabio Anselmo, il reato su cui deve indagare la procura di Roma è omicidio preterintenzionale. Lo scrivono in una memoria depositata pochi giorni fa in cui chiedono al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare questa ipotesi di reato.
In pratica, sostiene la famiglia Cucchi, Stefano è morto per il pestaggio subito. Una tesi che le motivazione della sentenza di secondo grado della corte d'appello rafforzerebbe. «Questo verdetto offre concreti riscontri per affermare che nel caso di specie si tratta propriamente di omicidio preterintenzionale». In altre parole, qualcuno ha picchiato Cucchi subito dopo l'arresto: non voleva ucciderlo, ma quelle lesioni hanno poi provocato la sua morte.
Nel frattempo, parallelamente alla seconda inchiesta sulla morte del giovane geometra romano, la procura generale e i Cucchi hanno presentato il ricorso in Cassazione contro l'assoluzione degli imputati nel processo di secondo grado. I medici e le tre guardia penitenziarie prosciolte dalle accuse ora dovranno passare per la suprema Corte.
Il documento inviato al capo della procura capitolina, Giuseppe Pignatone, è invece un'analisi delle conclusioni a cui sono giunti i giudici di secondo grado. E sulla base di queste l'avvocato Anselmo darà battaglia. «La corte d'assise d'appello non ha mai negato che la morte di Stefano Cucchi è legata alle lesioni che ha subito e che sono attribuite agli agenti di polizia penitenziaria imputati. Per non riconoscere l'eccepita nullita bastava sostenere che la sua morte non ha alcun legame con le percosse subite», si legge nella memoria.
Per questo i giudici hanno trasmesso gli atti, così come richiesto da Anselmo durante il dibattimento, in procura. Lo hanno fatto con questa motivazione: «Al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte». Ma non c'è solo questo nelle motivazioni della Corte.
Un passaggio riguarda la relazione dei periti del giudice di primo grado in cui sostenevano che la morte fosse dovuta a «inanizione», privazione, cioè, di acqua e di cibo. «La tesi dei periti deve ritenersi senza fondamento», scrivono nella memoria, e citano le parole del collegio giudicante: «La tesi della sindrome da inanizione seguita dal primo giudice non può essere condivisa, poiché si basa su elementi di fatto che non hanno trovato riscontro nelle risultante del processo».
I giudici di secondo grado quindi ritengono contrastante la tesi degli esperti con quanto emerso nel dibattimento. Contestano, per esempio, la misurazione del peso di Stefano: « La valutazione del peso all'ingresso in carcere deve considerarsi frutto di superficialità nelle rilevazioni e peraltro osserva la Corte che la morte per inanizione non può essere la conseguenza di un digiuno protratto per soli sei giorni, perciò gli stessi periti hanno dovuto sostenere che la sindrome era insorta già da diverso tempo, quanto meno a partire dal 2009».
Affermazioni, scrivono nel memoriale, non supportate da dati concreti. E nemmeno gli organi del geometra presentavano le caratteristiche tipiche di chi muore per fame e per sete. Non solo, anche per quanto riguarda l'insorgenza dei primi sintomi mancavano riferimenti bibliografici, e si faceva riferimento alla sola «esperienza personale di uno dei componenti del collegio peritale».
La sentenza di secondo grado e l'atto di accusa della difesa di Cucchi, dunque, indeboliscono la tesi del decesso per fame e sete di Stefano. E rafforzano l'ipotesi delle lesioni alla base della morte. Una pista che i familiari chiedono di seguire ai pm che hanno in mano il nuovo fascicolo
L’Espresso
16 03 2015
SAN JOSE, California – Secondo il primo studio scientifico condotto su questo problema, ogni anno finiscono nelle acque degli oceani otto milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, equivalenti a quindici sacchi pieni per ogni metro di costa in tutto il mondo.
La ricerca, condotta da americani e australiani e pubblicata dall’American Association for the Advancement of Science in occasione del suo congresso annuale qui a San Jose, ha analizzato i dati relativi alla produzione di rifiuti plastici in 192 paesi, arrivando alla conclusione che nel 2010 sono finiti in mare tra i 4,8 milioni e i 12,7 milioni di tonnellate – con una media di otto milioni – di “plastica non debitamente smaltita”.
Il mare italiano è una pattumiera: 27 rifiuti per chilometro quadrato
Abbiamo visionato in esclusiva il rapporto “Marine Litter 2014”, stilato da Goletta Verde sui rifiuti galleggianti. E il risultato è desolante. Plastica, detergenti, prodotti sanitari, scarpe. Dal Tirreno, all'Adriatico, allo Ionio. Tra i casi limite il Gargano e la costa abruzzese
Negli oceani la plastica sta diventando un problema ecologico molto serio per la vita del sistema marino, oltre a essere un orribile materiale inquinante che finisce sulle spiagge e galleggia in mare aperto.
I grossi frammenti di plastica, per esempio i sacchi integri della spazzatura, rappresentano un grave pericolo per gli animali, dalle tartarughe ai delfini, che possono restarvi intrappolati o ingerirli con esiti letali. Ancora più insidioso è da questo punto di vista il processo di deterioramento dei frammenti di plastica in minuscole particelle che possono essere ingerite perfino da microscopici invertebrati.
Lo studio, pubblicato anche dalla rivista “Science”, riporta l’elenco delle venti nazioni colpevoli perché non effettuano uno smaltimento adeguato dei rifiuti di plastica. I primi 19 posti sono occupati da paesi a medio e basso reddito, mentre il ventesimo posto è degli Stati Uniti. I responsabili si trovano in Asia, e la sola Cina è responsabile del 28 per cento di tutti i rifiuti non debitamente smaltiti, seguita dall’Indonesia con il 10 per cento.
Le quantità di rifiuti di plastica che finiscono negli oceani stanno aumentando rapidamente, seguendo il ritmo della produzione globale di plastica: così dice Jenna Jambeck, dell’Università della Georgia e responsabile dello studio.
“Nel 2025 la produzione annua di plastica dovrebbe arrivare al doppio di quella del 2010, pari a trenta sacchi pieni per metro lineare di costa” ha detto. “La produzione complessiva nel 2025 sarà però superiore alle nostre stime del 2010 di circa venti volte e si parlerà quindi di 300 sacchi pieni di plastica per metro di costa”.
Per salvare gli oceani e i loro abitanti dai rifiuti di plastica che li soffocano sarebbe indispensabile un investimento enorme. “La soluzione ideale richiederebbe di abbinare sforzi locali a quelli globali”, ha detto la professoressa Jambeck.
Traduzione di Anna Bissanti
(c) 2015 The Financial Times Limited
L’Espresso
16 03 2015
«La quota da raggiungere per noi sarte era di 80 capi all’ora. Quando il salario minimo è stato alzato, hanno elevato l'asticella a 90. E se non ce la facevamo, ci urlavano, tanto. Ci dicevano che eravamo lente. Che dovevamo lavorare oltre l’orario. Non possiamo dire di no. Siamo come schiave, non lavoratrici. Anche se andiamo al bagno, ci fischiano per richiamarci al posto».
N.V. è una delle 270 lavoratrici intervistate nel 2014 da Human Rights Watch in Cambogia. I loro racconti snodano una trama di abusi costanti e quotidiani: dagli straordinari forzati ai contratti illegali, dai trasferimenti punitivi all'impossibilità di partecipare ad associazioni sindacali. Tutto dentro a fabbriche che riforniscono grandi marchi della moda globale come Adidas, Armani, Gap, H&M, Joe Fresh e Marks and Spencer.
I ricercatori dell'organizzazione per i diritti umani sono entrati in 73 aziende della capitale, Phnom Penh, e hanno incontrato operai, dirigenti, rappresentanti del governo. «Sebbene il diritto cambogiano imponga che il lavoro in orario straordinario sia volontario» denunciano nel rapporto finale della missione «i lavoratori di 48 fabbriche che forniscono prodotti a marchi internazionali hanno detto a Human Rights Watch che questo era stato loro imposto. In un quarto degli impianti la ritorsione da parte dei capi comprendeva licenziamenti, tagli sugli stipendi e trasferimenti a scopo punitivo». E poi ci sono i contratti brevissimi, le ritorsioni in caso di gravidanza, il blocco delle iscrizioni ai sindacati, le testimonianze di abusi.
Le multe e i controlli però sono ancora pochi. Fra il 2009 e il 2013 solo dieci impianti sono stati multati, su 1.200 registrati. E benché il numero di sanzioni sia balzato a 25 nel 2014 è ancora un numero irrisorio perché si possa davvero parlare di contrasto alle pressioni e alle violenze persistenti contro gli oltre 700mila operai dell'abbigliamento del Paese, che sono al 90 per cento donne.
Le cose potrebbero cambiare, dicono i ricercatori, solo se intervenissero sul serio le grandi griffe che qui vengono a produrre i loro vestiti. «I marchi d’abbigliamento dovrebbero incoraggiare migliori controlli e protezioni per gli operai, rivelando pubblicamente i propri fornitori», spiega Aruna Kashyap di Human Rights Watch: «E dovrebbero tener conto dei costi di lavoro, sanità e conformità alla sicurezza nei propri contratti, per assicurare che tali diritti siano rispettati nelle fabbriche».
Qualcosa si sta muovendo: «Tra le sei marche con cui Human Rights Watch è stata in contatto, Adidas, Gap e H&M hanno discusso con serietà i loro sforzi per affrontare i problemi riscontrati», scrive l'associazione: «Adidas e H&M hanno rivelato pubblicamente i nomi dei loro fornitori e aggiornano periodicamente le loro liste. La Marks and Spencer si è impegnata a farlo nel 2016. Mentre solamente Adidas ha creato un sistema per lavoratori in cerca di protezione in seguito a denunce».
Resta del tutto fuori Armani. Che non solo non ha mai pubblicato la lista dei suoi fornitori globali. Ma non ha mai nemmeno dato seguito alle domande dell'associazione sui diritti dei lavoratori che producono e cuciono i suoi vestiti. «Il gruppo Armani non ha mai risposto ad alcuna delle moltissime lettere e richieste che abbiamo inviato», spiegano gli autori: «E sì che una delle fabbriche che abbiamo visitato, in base alle nostra informazioni, produce regolarmente per loro». Perché questo silenzio?
l'Espresso
13 03 2015
Forse non il solo a domandarsi, senza retorica, cosa spinga le persone ad accettare alcuni stili di vita e rifiutarne altri. Se è la profonda diversità dalle proprie abitudini, la mancanza di comprensione, il timore che qualcosa nelle proprie vite possa cambiare se solo si provasse a comprendere quel che di profondamente diverso vediamo attorno a noi.
In Italia la cultura cattolica, pur se ci diciamo atei cresciuti al di fuori della comunità religiosa, è architrave del nostro quotidiano, soprattutto nel senso di colpa, atavico e inestinguibile. Qualsiasi sacrificio non servirà a lavarlo, lo porteremo con noi in ogni momento della nostra vita, qualunque sia la nostra professione. E poi la consapevolezza che in terra non ci potrà mai essere beatitudine, felicità, salvezza. La felicità in terra è vista con sospetto anche da chi la prova. La ricchezza in terra è vissuta con senso di colpa anche da chi guadagna lavorando sodo, sacrificando molto, sacrificando tutto. Che paradosso: si sacrifica tutto per ottenere qualcosa che ci fa sentire in colpa come se avessimo commesso il peggiore dei torti.
Non lontano da noi, nel mondo della riforma protestante, c’è un altro modo di concepire il lavoro, il guadagno e la vita, non migliore ma diverso. Il lavoro non è un castigo di Dio inflitto all’uomo, ma l’unico modo attraverso cui trovare salvezza. Non c’è nulla di sconveniente nel guadagnare, è la mancanza di guadagno, anzi, a essere stigmatizzata.
Ora, è naturale che ogni posizione venga strumentalizzata pro domo propria, quindi se ci risultano odiose le parole di Jordan Belfort in “The Wolf of Wall Street” sull’essere poveri, se ci risulta fastidiosa la sua ostentazione di denaro e ricchezza, non possiamo però tollerare chi rimpiange l’epoca del posto fisso, quello in cui dopo un concorso pubblico con o senza raccomandazione, più spesso con, si veniva assunti e si restava lì fino alla pensione.
E ora veniamo alle terze vie. A quelle vie che non riusciamo ancora a contemplare. Le terze vie crescono all’interno delle società stesse, maturano dai suoi fallimenti e diventano visibili solo quando ormai adulte. Le terze vie sono fatte di allontanamenti, di spostamenti, di persone che vanno via a fare qualsiasi tipo di lavoro, da quelli che implicano alto grado di specializzazione, a quelli che presuppongono tanta buona volontà e capacità di adattamento. Ma le terze vie sono anche il contatto con nuove etnie che arrivano in quella che siamo soliti considerare “casa nostra” senza aver ricevuto alcun invito. Questi arrivi mettono seriamente in crisi tutto ciò che siamo, quello in cui crediamo, spesso la stessa etica del lavoro che cattolica o protestante, informa di sé ogni parte della nostra vita.
E poi ci sono i Rom. Quelli che Matteo Salvini (un po’ ovunque) e Gianluca Buonanno da Corrado Formigli, hanno recentemente definito «rompiballe ai semafori» e «feccia della società”. Alle Invasioni Barbariche e a Piazza Pulita il pubblico ha applaudito. Il pubblico ha applaudito. Lo riscriverei altre cento volte perché davvero non potevo credere che a tali parole, così banalmente aggressive - l’aggressività di Salvini è semplice, basica, da ultras brillo, e non ha creato nemmeno una nuova grammatica d’odio come per esempio Marine Le Pen in Francia - il pubblico potesse applaudire. Una terza via che non è scelta, anche se molti la credono tale, con le leggende metropolitane dei rapimenti di bambini, dei denti d’oro, dei matrimoni opulenti, dei milioni che i rom tirano su a 5 centesimi alla volta. Ilaria Urbani, un’amica giornalista, ha scritto un interessante articolo su cosa viene scritto sulle carte di identità delle persone che vivono nel campo nomadi a Scampia: «Napoli, viale della Resistenza 185 Isolato NOMADI». Isolato nomadi, ovvero ghetto, ovvero persone che vivono in un ghetto. E questo messo nero su bianco sul documento di riconoscimento, perché a nessuno sfugga quella diversità. Mi domando chi avrà dato ai funzionari del comune tali direttive.
E poi mi viene in mente un brano di un genio del pensiero nichilista contemporaneo, Gianfranco Marziano. Si intitola “I zincari”. Il protagonista, dopo aver subito una serie di furti attribuiti alla comunità locale di zingari, invece di radicalizzarsi e prendersela con loro, come farebbe un Salvini qualunque, va alla ricerca del campo rom e quando lo trova chiede: «Scusate, siete voi i zincari? Ma mica me ne posso venire con voi?».
Roberto Saviano
l'Espresso
12 03 2015
Perquisizioni e arresti per qualche pianta di marijuana coltivata sul terrazzo di casa potrebbero diventare solo un ricordo lontano. Tanto chi fa uso dell’”erba” per problemi di salute che chi la fuma per piacere, come accade già in altri Paesi, in Italia potrebbe a breve non rischiare più di finire indagato e poi processato solo per qualche vaso di canapa indiana. Come non è reato consumare droga, ma solo spacciarla, potrebbe infatti non esserlo più coltivarla per uso esclusivamente personale. A mostrare un’apertura verso la depenalizzazione di chi coltiva canapa sono stati, il 10 marzo scorso, i giudici della Corte d’Appello di Brescia, che hanno sospeso il processo a un coltivatore appunto e inviato gli atti alla Corte Costituzionale.
Davanti ai magistrati lombardi è finito il caso di un commerciante bresciano, trovato con otto piante di canapa indiana in garage e 25 grammi di marijuana nel comodino. Nel processo di primo grado non è emersa alcuna prova su un’eventuale attività di spaccio da parte del coltivatore. “Quello che mi è stato sequestrato era solo per me, mai pensato di darla ad altri”, ha assicurato. Ma come accaduto a tanti altri, da Nord a Sud della penisola, visto che l’attuale legge considera un reato la semplice coltivazione di canapa, il commerciante è stato condannato lo scorso anno dal Tribunale di Brescia a otto mesi di reclusione e mille euro di multa.
A quel punto l’imputato ha impugnato la sentenza e i suoi difensori, gli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti, hanno riletto tutta la giurisprudenza degli ultimi venti anni in materia. Con il referendum del 1993 fare uso di droga non è più reato. Quanti vengono trovati in possesso di sostanze stupefacenti, per uso personale, vengono così soltanto segnalati alla Prefettura. Una semplice violazione amministrativa. Chi coltiva canapa indiana finisce invece sempre e comunque davanti a un giudice, con tanto di avallo, nel 2008, della Cassazione a sezioni unite.
Per la difesa dell’imputato tale situazione limita un diritto fondamentale della persona, il principio di uguaglianza. E dello stesso avviso è stata la Corte d’Appello di Brescia, che con un’ordinanza ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, ritenendo che sia ora di rivedere la norma. I giudici lombardi hanno specificato che i coltivatori per uso personale non vanno a intaccare il cuore della legge antidroga, che consiste nel “combattere il mercato della droga, che pone in pericolo la salute pubblica la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni”.
Se la Consulta appoggerà la tesi della Corte d’Appello di Brescia, coltivare canapa indiana non sarà dunque più reato. E l’ordinanza emessa il 10 marzo è stata intanto trasmessa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai presidenti delle Camere. Dopo l’abolizione della Fini-Giovanardi, che ha ripristinato la distinzione tra droghe leggere e pesanti, un altro possibile colpo al sistema messo in piedi in Italia per gestire il tema degli stupefacenti.
Clemente Pistilli
L’Espresso
10 03 2015
È la battaglia del ministro dell’Interno, che negli ultimi mesi si è scontrato frontalmente con i sindaci che hanno scelto di trascrivere negli elenchi dei loro comuni i matrimoni omosessuali, mettendo nero su bianco i nomi dei cittadini che si sono sposati all’estero e che in Italia non possono ancora neanche siglare un patto amministrativo, un’unione civile.
È la battaglia che Angelino Alfano ha fatto condurre ai prefetti, spinti da un’apposita e discussa circolare ministeriale del 7 ottobre 2014, e il Tar però dice che al momento è una battaglia persa. Ha ragione il comune di Roma, invece, che si era opposto al decreto con cui il prefetto della città, Giuseppe Pecoraro, aveva annullato le trascrizione nel registro comunale dello stato civile voluta - e celebrata - dal sindaco Ignazio Marino: "Avevo sempre affermato, pur non essendo un esperto di giurisprudenza, che sulla base delle normative nazionali e comunitarie fosse un dovere del sindaco trascrivere un documento di un'unione avvenuta all'estero di due cittadini della mia città» dice oggi il primo cittadino, «per me la sentenza non è assolutamente una sorpresa, non credo ci sia stato mai un momento in cui ho mostrato un minimo dubbio sulla mia certezza».
Per i giudici della prima sezione del Tar del Lazio, infatti, l'attuale disciplina nazionale non consente di celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso e, conseguentemente, matrimoni del genere non dovrebbero esser trascrivibili nei registri dello stato civile, è vero, però, l'annullamento di trascrizioni nel registro dello stato civile di matrimoni contratti da persone dello stesso sesso, celebrati all'estero, può essere disposto solo dall'Autorità giudiziaria ordinaria e non dalle disposizioni di un ministro e di un prefetto.
Tanto basta ad Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia, per dire che «il Tar del Lazio fa oggi finalmente giustizia: con una pronuncia storica ha stabilito che sono i tribunali a poter decidere sulla trascrizione dei matrimoni tra lo stesso sesso, e non i prefetti come invece vorrebbe il ministro dell'Interno, Angelino Alfano». «Il tribunale amministrativo» continua Mancuso, «dà ragione alle nostre posizioni, che continuiamo a ripetere da mesi: non è il governo titolare di questa materia, mentre sono invece i sindaci, per legge, responsabili degli uffici di stato civile e dell'anagrafe». «Ci attendiamo ora che Alfano la smetta, una buona volta, di perseguitare i sindaci d'Italia».
La vicenda, comunque, richiama ancora, soprattutto, l’assenza di una legge nazionale. Lo nota ancora Ignazio Marino: «Tutto questo» dice il sindaco di Roma, «deve ancora di più essere interpretato come uno stimolo al Parlamento». «Ma lì sono certo» aggiunge, «che il presidente del Consiglio Renzi, come ha detto in diverse occasioni, provvederà a sollecitare egli stesso un percorso legislativo, che sia accurato, che colmi il vuoto che in Europa esiste soltanto in Grecia e l'Italia».