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CORRIERE DELLA SERA

La 27 Ora
26 03 2015

La terza edizione di arcVision Prize – Women and Architecture, il premio di architettura al femminile ideato e organizzato da Italcementi, quest’anno ha premiato una svizzera quarantenne bruna e minuta, che sostiene: «Riprendiamoci lo spazio, rispettiamo i confini naturali».

È Angela Deuber, che ha vinto su 22 partecipanti provenienti da 17 Paesi diversi e scelta da una giuria, manco a dirlo, fatta di sole donne (nella foto alcune di queste).

Tra queste, Shaikha Al Maskari (membro del Consiglio Direttivo dell’Arab International Women’s Forum-AIWF), Vera Baboun (Sindaco di Betlemme), Odile Decq e Louisa Hutton (Sauerbruch Hutton).

Nell’anno dell’Esposizione universale a Milano questo riconoscimento (che ha voluto la collaborazione di WE-Women for Expo) diventa importante, specie nell’aspetto sottolineato dal consigliere delegato di Italcementi, Carlo Pesenti: «Ancora troppe donne architetto lasciano la professione. Vogliamo sostenerle».

E veniamo allora alle cifre, precisamente quelle fornite nelle ultime ore dal Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio): sono circa 62 mila le donne architetto, ben il 41% dei 152 mila architetti italiani, ma negli ultimi 6 anni il loro guadagno mensile, dopo 5 anni dal conseguimento del titolo di secondo livello, è inferiore a quello dei colleghi maschi, che nel 2013 hanno guadagnato 1.300 euro contro 1.070 delle donne.

Non solo. Dal 1998 ad oggi si è registrato un aumento quasi del 10 per cento delle professioniste. Inoltre, negli ultimi 15 anni le donne architetto iscritte all’albo sono cresciute del 141%, vale a dire ben 36 mila iscritti in più.

A seguito degli impegni familiari il 45% delle donne ha dovuto ridurre le ore di lavoro e il 32% ha dovuto ripensare la distribuzione degli impegni lavorativi.

E si arriva alla cosa più grave: più dell’80% delle donne ritiene che queste interruzioni abbiano ritardato o ostacolato la propria carriera professionale, anche in misura molto grave nel 46% dei casi. Tradotto in altri termini: manca la soddisfazione personale.
Ecco perché, raggiunta al telefono appena dopo l’annuncio della premiazione, Deuber ha commentato la sua vittoria con queste parole: «Mi auguro che questa vittoria serva a tutte le colleghe».

Roberta Scorranese

La 27ora
25 03 2015

Federico Barakat è stato ucciso a otto anni dal padre nelle stanze dei Servizi sociali di San Donato Milanese durante un incontro protetto, colpito prima con una pistola e poi con 24 coltellate senza che nessuno fosse presente e in grado di proteggerlo malgrado fosse in affidamento ai servizi sociali e malgrado gli incontri fossero vigilati.

Era il 25 febbraio del 2009 e Federico era in quelle stanze perché un provvedimento del tribunale dei minori aveva deciso che il piccolo dovesse incontrare il padre malgrado fosse stata la madre, Antonella Penati, a rivolgersi al tribunale dei minori per la richiesta di decadenza della podestà paterna dopo che il suo ex era ricomparso dal nulla con la pretesa di avere con sé il bambino anche con la minaccia. Ma «per la tutela dello sviluppo del minore e del suo bisogno di crescita» – come si legge in una delle sentenze che sono seguite alla denuncia nei confronti degli operatori dei servizi – il tribunale dei minori non prese in considerazioni le istanze della donna, e anzi «nel tentativo di garantire un recupero ed un sereno svolgimento del rapporto tra genitore e figlio», decise di affidare l’esercizio della potestà su Federico ai servizi sociali di San Donato Milanese, mettendo così sullo stesso piano un padre inesistente e minaccioso, e una madre accudente che cercava di proteggere se stessa e il figlio. Un padre, suicida subito dopo aver colpito il figlio, che fin dalla sua ricomparsa perseguitava Penati e che lei stessa ha in seguito più volte denunciato come pericoloso per violenze fisiche: segnalazioni che non furono mai ascoltate da chi aveva in affidamento il piccolo, che invece ha sempre considerato Penati come una madre inadeguata, troppo ansiosa, quasi un’isterica.

Oggi Federico non c’è più ma Antonella Penati rischia tutt’ora, pur avendo perso il figlio proprio perché nessuno ascoltò la sua parola, di passare ancora come una visionaria. Ce lo confermano le sentenze che si sono susseguite in questi anni, in seguito alla denuncia che Penati fece per ricercare le responsabilità di quello Stato che pur prendendosi in carico il figlio, non è stato in grado di difenderlo.

Le tre sentenze che sono state emesse dopo che Penati ha chiesto che venisse verificata la responsabilità dello staff che aveva sotto tutela Federico, sono il frutto di tre gradi di giudizio in cui i tre operatori sono stati assolti in primo grado e in Cassazione, mentre la Corte d’appello aveva condannato la psicologa responsabile dello staff, dottoressa Elisabetta Termini. Ma la sentenza del 27 gennaio con cui la Cassazione rigetta la sentenza della corte d’appello di Milano, assolve tutti gli operatori (leggi il post che sulla 27ora ha scritto Cristina Obber), condanna Penati a pagare le spese processuali e rigetta il ricorso fatto dalla procuratrice generale, Laura Bertolè Viale, per la carenza di motivazione della assoluzione degli altri due (assistente sociale Nadia Chiappa ed educatore Stefano Panzeri), va oltre.

Rendendo pubbliche le motivazioni della sentenza emessa dalla commissione presieduta dal giudice Pietro Antonio Sirena in Cassazione, ieri in una sala del comune di Milano, durante la conferenza stampa, la mamma di Federico ha detto che si tratta di un vero e proprio «occultamento della verità» nei riguardi dell’omicidio di suo figlio, affermando che sebbene «le testimonianze, la ricostruzione, la dinamica che ha portato all’omicidio, siano tutte lì scritte nero su bianco, alla fine nessuna responsabilità viene attribuita allo Stato e tutto viene ricondotto a una tragica e imprevedibile fatalità», quando è chiaro – anche dalle carte – che l’accaduto poteva essere evitato solo se fossero state prese in considerazione le sue numerose segnalazioni. «La psicologa – dice Penati – mi minacciò che, se non avessi ritirato la denuncia nei confronti del padre di Federico, mi avrebbe accusata di alienare il bambino dal padre e che quindi avrebbe potuto farmi portare via mio figlio. Fatto sta che Federico è stato ucciso quando io non c’ero, perché lui sapeva che lo avrei difeso a costo della mia vita». Un ricatto che suona familiare a molte donne italiane che recandosi al tribunale dei minori o ai servizi sociali per chiedere aiuto e per allontanare e proteggere i propri figli da un partner violento, alla fine si ritrovano costrette a una mediazione – che in caso di violenza domestica è vietata – e messe sullo stesso piano del partner maltrattante, considerato comunque un buon padre anche se violento, e rivittimizzate per l’assoluta impreparazione degli operatori pagati dalle tasse degli italiani, che non riescono a discernere una violenza nei rapporti intimi da una conflittualità di coppia. Donne che, come per Antonella Penati, nell’ignoranza più assoluta di tutta la letteratura internazionale sul tema ma anche delle leggi del nostro Stato sulla violenza domestica, vengono etichettate come «madri malevole», inadeguate e pazze visionarie che descrivono falsi abusi per togliere il papà ai propri figli, e che rischiano la sottrazione dei loro bambini, solo perché si sono «permesse» di denunciare la pericolosità di un partner violento da allontanare, e che invece spesso viene «imposto» al minore in incontri più o meno protetti.

Il caso Barakat è però emblematico su tutti, in quanto quello che emerge in maniera evidente è la volontà: esattamente la volontà di non rintracciare la responsabilità e la negligenza dei servizi sociali e dello Stato, che è in linea con il mantenimento dello status quo italiano in cui sebbene vengano recepiti convenzioni internazionali come la Cedaw e la Convenzione di Istanbul sulla discriminazione e la violenza sulle donne e sui minori che l’accompagnano, e sebbene le istituzioni insistano nello spingere le donne a denunciare partner violenti promettendo protezione, quello che ancora decide sulla vita delle persone è la mentalità arcaica che la parola di una donna valga meno di quella di un uomo, che un uomo violento può essere comunque un buon padre, che una madre che denuncia un partner violento è una che si inventa le cose, in definitiva che la violenza sulle donne è una cosa normale e quindi non degna di nota effettiva. E questo anche di fronte a fatti eclatanti come quello di Federico Barakat.

Ma per non riconoscere queste responsabilità ci vuole anche una certa maestria: nella sentenza di primo grado del caso Barakat, s’insiste sul fatto che la potestà era rimasta ai genitori e che fosse stato dato al servizio solo l’esercizio della potestà. In quella di Cassazione si va avanti e si legge che il provvedimento del tribunale dei minori «non derivava dalla necessità di tutelare l’incolumità fisica del bambino ma dall’esigenza di garantire un adeguato sviluppo del minore in presenza di genitori inadeguati, e che entro tale confini doveva essere interpretato l’ambito di controllo demandato dall’ente pubblico», e quindi che «le finalità protettive erano – unicamente – al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale». Si contravviene così a ogni logica che vuol prendersi cura dell’aspetto «morale-educativo» di una persona tralasciando quello di base, e cioè la sua esistenza fisica, e soprattutto si contraddice platealmente la Convenzione europea contro la violenza sulle donne e la violenza domestica – redatta a Istanbul e ratificata dall’Italia in maniera vincolante nel 2013 – in cui si legge testualmente che «le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, adottando le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini» (Articolo 31 – Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza). Un passo che, sebbene non fosse «legge»ai tempi dell’omicido Barakat, dovrebbe essere comunque conosciuto e tenuto in considerazione oggi da chi ha deciso e scritto le motivazioni della sentenza di Cassazione, in quanto chiarisce come in un contesto di ipotetico pericolo, il diritto di visita di un genitore non può sovrastare il diritto all’incolumità fisica dei bambini, sempre e comunque.

Un punto che nel ricorso che la signora Penati farà alla Corte dei diritti umani di Strasburgo – come annunciato ieri in conferenza stampa da lei e dal suo legale, l’avvocato Federico Sinicato – avrà di sicuro il suo peso dato che si tratta di una norma europea vincolante alla luce della quale non si può non leggere il fatto accaduto, e al quale si potranno aggiungere diversi punti: a cominciare dal non riconoscimento di una situazione di violenza nei rapporti intimi, la rivittimizzazione della signora Penati fatta in maniera grave e reiterata dai responsabili dello staff, il non riconoscimento della violenza assistita da parte di Federico nella dinamica familiare, la mancata valutazione dei fattori di rischio della signora e del figlio, il mancato ascolto della donna e del minore.

A rimarcare questa mancanza di preparazione delle responsabili del caso sono le diverse testimonianze rese agli atti ed è proprio quella rilasciata da un’altra psicologa in equipe nel centro che fa pensare, in quanto riguardo alla psicologa e all’assistente sociale che seguivano Federico, riferisce come le sue colleghe parlassero solo di «conflittualità e delle minacce che il Barakat faceva alla madre» e di «ambivalenza della madre», dividendo così la pericolosità del Barakat in due sfere non connesse e responsabilizzando la donna della violenza subita, sempre sulla scorta della fantasia che un uomo violento verso una partner non è pericoloso verso terzi e che è la donna che se la cerca. Ed è lo stesso Don Alfredo, prete che sosteneva Penati, a riferire che malgrado la donna avesse chiesto aiuto «alle dottoresse Termini e Chiappa, queste oltre a risponderle che erano sue fissazioni, l’avevano spesso vessata e trattata con superficialità, (…) dicendole che era stata lei a scegliersi quell’uomo» (testimonianze agli atti).

Sebbene quindi fosse chiaro che il signor Barakat era un uomo violento per le denunce di Penati e sebbene il dottor Parrini del Policlinico di San Donato avesse informato il centro della «pericolosità del Barakat» (testimonianza agli atti), non solo le responsabili non presero provvedimenti all’epoca, ma vengono ancora oggi sostenute e avallate in questa inadempienza dalla Cassazione che non considera questo fatto come grave e dirimente, non facendo riferimento all’ampia letteratura anche giuridica in proposito.

In tutte e tre le sentenze non si legge mai la parola violenza malgrado sia una storia che trasuda violenza e che culmina con l’atto finale di uccisione di un figlio da parte di un padre che si è voluto vendicare su una donna che non riconosceva il suo potere e la proprietà del maschio: in completa sintonia con la logica del femminicidio. Nelle sentenze si parla invece di «conflittualità di coppia», dando la responsabilità a entrambi i genitori, tanto che nella sentenza di Cassazione si accenna anche a una mediazione tra i due ipotizzata dal centro: cosa che in caso di violenza in relazioni intime è vietata e che invece non viene contestata in nessun modo come comportamento negligente nella sentenza. Come anche, e questo forse più grave, che sia stata accolta l’istanza della psicologa sul fatto di non poter revocare gli incontri tra padre e figlio che invece – in presenza di situazioni anche ipoteticamente pericolose (non per l’incolumità fisica ma per l’equilibrio psicologico del minore) – possono essere revocati in qualsiasi momento anche solo con una refertazione medica sul bambino che non vuole vedere il padre per fondati motivi. Così succedeva per Federico che aveva paura di vedere il padre, come testimoniato dal Dottor Mazzonis, che seguiva il piccolo, e che aveva chiesto al centro che «gli incontri tra Federico e il padre fossero rallentati in virtù della forte insofferenza e del timore che il minore provava nei suoi confronti» (testimonianza agli atti).

Fatti che in quest’ultima sentenza non vengono messi in evidenza ma in cui anzi viene ribadito come non ci fossero, per gli operatori che vigilavano su Federico, «comportamenti indicativi del malessere derivante dalla relazione con il padre, tali da far scattare in capo la garante il dovere di segnalazione al tribunale dei minori».

Il problema di fondo è che queste sentenze sul caso Barakat sposano in pieno la linea di condotta dei servizi sociali che non viene mai messa in discussione con strumenti adatti, mentre invece è stata proprio la miopia, la superficialità e la mancanza di preparazione dello staff del centro che aveva in affidamento il piccolo a determinare una cattiva attenzione. Una superficialità ribadita dal legale di Penati, l’avvocato Sinicato, che proprio ieri ha messo in rilievo come nel centro di San Donato Milanese, malgrado sia potuto entrare un uomo con una pistola e un coltello che ha ucciso il figlio, ancora non si sia provveduto a installare un semplice metal detector.

Un’impreparazione che non coinvolge solo il centro di San Donato Milanese ma moltissimi servizi sparsi per tutta Italia in cui le donne che cercano un aiuto, ancora troppo spesso, trovano l’inizio di un incubo. Il vero nodo della questione, ovvero il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni di una violenza nelle relazioni intime in atto da parte dell’uomo, fa perpetuare lo stereotipo dell’uomo che anche se violento è un buon padre, e della donna troppo emotiva e ansiosa, e quindi meno credibile dell’uomo. Per questo più volte ieri si è parlato della necessità di una Commissione d’inchiesta bicamerale che valuti il comportamento reale delle istituzioni nell’affrontare oggi sul territorio italiano il contrasto alla violenza contro donne e minori, la reale applicazione delle leggi e delle convenzioni internazionali, il destino di quei bambini che si ritrovano in una situazione di violenza domestica e che vengono costretti ad affidi coatti, messi in casa famiglia e dati in affidamento ai servizi sociali come Federico. Una Commissione che in realtà è stata già presentata in Senato con un disegno di legge proposto dalla vice presidente Valeria Fedeli, e sottoscritta trasversalmente da tutte le forze e dalla maggioranza delle senatrici, e che non viene ancora discusso ma che in realtà sarebbe il primo strumento per verificare mancanze, storture, ingiustizie e negligenze gravi, come nel caso di Antonella Penati.

Ma la storia giudiziaria che riguarda Federico Barakat appare torbida fin dall’inizio per la richiesta di archiviazione della denuncia che la madre fece subito dopo nei confronti dei tre operatori per mancata vigilanza sul bambino, richiesta che fu accolta e che solo in un secondo momento, sotto sollecitazione della parte offesa, fu respinta. Una richiesta d’archiviazione che oggi suona quasi un avvertimento.

Le persone e la dignità
23 03 2015

La situazione migliora ma c’è ancora molto da fare. Oggi, 22 marzo, è la Giornata Mondiale dell’Acqua e c’è un dato positivo: dal 1990 circa 2,3 miliardi di persone hanno ottenuto l’accesso a fonti migliorate di acqua potabile. Secondo l’Unicef “l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio di dimezzare a livello globale la percentuale di persone che non hanno accesso all’acqua è stato raggiunto 5 anni prima del 2015. Tuttavia nel mondo rimangono circa 750 milioni di persone che non hanno accesso ad acqua potabile. E sono circa 1.000 i bambini muoiono ogni giorno per malattie legate ad acqua non sicura, mancanza di servizi igienico-sanitari e scarsa igiene. I Paesi che versano nelle condizioni peggiori sono Repubblica Democratica del Congo, Mozambico e Papua Nuova Guinea dove la metà della popolazione non ha accesso a fonti migliorate di acqua potabile. Ma la situazione è delicata anche in Cina (112 milioni di persone) e in India (92 milioni).

“Le tappe per l’accesso all’acqua potabile, dal 1990, hanno rappresentato progressi importanti nonostante le incredibili difficoltà – ha spiegato Sanjay Wijesekera, Responsabile Unicef per i programmi all’Acqua e ai Servizi igienico sanitari -. Ma c’è ancora tanto da fare. L’acqua è la vera essenza della vita e circa 750 milioni di persone tra le più povere e ai margini ancora oggi vedono negato questo diritto umano di base”.
Una storia positiva ci viene raccontata dall’Avsi, l’associazione volontari servizio internazionale che opera che è impegnata in 136 progetti di cooperazione allo sviluppo in 30 Paesi del mondo. Hassan Hammoud ha 53 anni e quattro figli. E’ un agricoltore del villaggio di Khiam, situato al sud del Libano, in una delicata posizione di confine con il territorio israeliano. Hassan coltiva circa 14 ettari di ortaggi e cereali della piana di Marjayoun-Khiam, una piana fertile di circa 1.000 ettari che si estende dalla cerchia di villaggi cristiani e sciiti verso il confine con Israele. La regione, a causa della delicata posizione, è stata teatro della guerra tra Libano ed Israele del 2006, e proprio in risposta ai danni causati dalla guerra Avsi ha cominciato il proprio intervento di emergenza nella regione. A partire dal bisogno di accesso al bene più importante: l’acqua. Riabilitare i canali a cielo aperto che percorrevano la piana era la priorità per tutti gli agricoltori.

Grazie a un progetto iniziato nel 2007 e realizzato da AVSI insieme alla Regione Lombardia e alla Fao, 100 agricoltori, tra cui Hassan, hanno potuto beneficiare dell’acqua per le loro coltivazioni. E’ stato creato un sistema d’irrigazione moderno e al tempo stesso di facile gestione, in cui i canali a cielo aperto sono stati sostituiti da canali in pressione sotterranei, che hanno permesso di coprire, con una lunghezza totale di 16 km di tubature, tutta la zona coltivabile della Piana. Non solo, il sistema idrico prevede contatori a ogni tombino, canali di drenaggio primari e secondari, sistemi di irrigazione a goccia. Le conseguenze del progetto non hanno riguardato soltanto le condizioni di vita degli agricoltori, che sono tornati a coltivare e a guadagnare dal loro lavoro. Ma ha svolto un importante lavoro di riconciliazione, riducendo i conflitti legati alla spartizioni delle poche fonti d’acqua disponibili.

Dal progetto è nata anche una cooperativa, Dardara, dal nome della sorgente naturale che sgorga nella piana. Cristiani e sciiti coltivano insieme i terreni di Marjayoun.

“Da quando abbiamo istituito la cooperativa, sono anche riuscito a migliorare competenze di agricoltore – racconta oggi Hassan, tra i primi membri della cooperativa Dardara, che ha partecipato ai training per un utilizzo più efficiente della risorsa -. Ora, il valore di questi terreni è almeno dieci volte maggiore rispetto al 2009 e noi ci sentiamo parte integrante di questo cambiamento”.

La 27 Ora
20 03 2015

Cara Madonna,

mi chiamo Simona Giannangeli, vivo all’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo e sono un’avvocata.

Nutro una profonda ammirazione per te e sono rimasta colpita dalle tue dichiarazioni in relazione allo stupro che hai subito.

Affermi che denunciare lo stupro compiuto da un uomo è inutile e umiliante per noi donne e che non vale la pena tornare a parlarne, dopo essere stata violata.

Io sono femminista e ho creato insieme ad altre donne un Centro Antiviolenza per le donne nella mia città.

Essere femminista per me significa prendere la parola e stare al mondo a partire da me, dalla mia identità di genere, dal mio corpo sessuato, significa esercitare potere su di me per dire il mondo che voglio abitare.

Voglio abitare un mondo libero dalla violenza maschile, voglio abitare un mondo dove non si continui ad insegnare a noi donne «come fare per non essere stuprate», voglio abitare un mondo dove siano gli uomini a vergognarsi profondamente di se stessi e non noi donne.

Io penso fermamente che denunciare uno stupro è per noi donne un atto di forza e di coraggio, è riaffermare il nostro diritto all’integrità fisica e psicologica, è riappropriazione di gesti di autorità per noi e fra di noi.

Denunciare uno stupro non è cosa facile su questo pianeta, dove complicità, connivenza, omertà, silenzi colpevoli agiscono tra uomini e anche tra tante donne.

È preferibile voltarsi dall’altra parte, non avere occhi per vedere, è meglio negare la vastità della violenza maschile contro di noi, per non doversi interrogare e scegliere di non restare in silenzio.

Io credo fermamente che la violenza maschile contro di noi interroghi ognuna di noi e che quando una di noi denuncia la violenza subita da un uomo rifiuta la vergogna, si riprende spazio e parola e svela così la infinita miseria degli uomini, non quella della donne.

Una donna che denuncia lo stupro subito da un uomo si mostra per giudicare, non per essere giudicata, si mostra per rivendicare giustizia.

Il gesto di denunciare lo stupro rivela forza e grandezza di una donna, ma è un gesto che ha bisogno del simultaneo gesto di tante altre donne che chiedono giustizia insieme a quella donna sorella.

E troppo spesso siamo sole.

Come forse lo sei stata tu, quando piena di energia e sogni sei arrivata nella grande città.

Credo che nella relazione salda tra noi donne inizi la lotta contro la violenza maschile, la lotta che ci vede non vittime, non deboli, non ripiegate su noi stesse, ma pienamente consapevoli che gli uomini non hanno alcun diritto di toccarci, se noi non lo vogliamo.

E, quando una di noi viene stuprata, abbiamo il dovere profondo che nasce dall’amore, dalla cura e dal rispetto che dobbiamo a noi stesse, di prendere la parola pubblicamente e di DIRE la violenza maschile subita.

È un’esperienza umana e politica straordinaria per me assistere a ciò che accade, alla forza immensa che sprigioniamo, quando ci uniamo e ci riconosciamo.

Mi capita quando entro in un’aula di tribunale portando una domanda di giustizia, mi capita con le mie amiche sorelle quando esercitiamo la parola con il nostro alfabeto.

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.

Ti abbraccio

E te lo scrivo anche in inglese

Dear Madonna,

Please allow me to introduce myself:
my name is Simona Giannangeli, I live in L’Aquila, the capital city of the Abruzzo region and my profession is a Lawyer.

I have always admired you and recently was moved by your statement that you were a victim of rape.

You stated that reporting a rape is a humiliating experience for a woman who has been violated by a man and that it’s not worthwhile speaking about.

I am a Feminist and founded a Women’s Refuge, with the support of other women, for the sake of women in my city.

In my opinion, to be a Feminist means to “take the floor” and play a role in the world, starting with one’s self, identity in general and one’s female sensuality. It means exerting my power to create the type of world I want to live in.

I want to live in a world free from male violence, a world that doesn’t teach women how to “avoid being raped.” I want to live in a world where men are the ones feeling ashamed and not women.

I strongly believe that it is a woman’s right to report a rape; that itself is an act of courage, the reaffirmation of our physical and psychological integrity and the chance to reclaim our authority.

To report a rape is not easy in a world where compliancy, connivance and the guilty conspiracy of silence reign among many men and women.

Some think it is often better to turn the other cheek and forget to have a pair of eyes that can see; it is easier to deny the magnitude of man’s violence against us women instead of questioning ourselves and choosing not to keep silent.

I firmly believe that male violence against women should make every one of us think and empower ourselves because when a woman reports a rape she takes charge and denies the perceived shame and reclaims her space and words in order to reveal guilty men’s actions.

A woman that reports a man’s rape makes her the judge and it means she will not allow herself to be judged since she asserts herself to claim justice.

Reporting a rape is the sole act of a woman’s strength, yet it is necessary that all women stand together to see justice done for that woman – who could even be their sister.

Unfortunately we are often alone. Perhaps that’s how you felt when you reached the big city with your great energy and with your dreams.

In the strong relationship among women lies the struggle against male violence, a struggle where we’re not weak victims but completely aware that men have no right to touch us unless we wish it.

When one of us is raped we must widely convey that male violence will not be tolerated by us because we love and respect ourselves.

I feel that it is an emotional and political experience every time I witness the great strength that arises when we women take a stand together and recognize one another. This happens every time I enter a courtroom, whether I am requesting one’s freedom or when I experience the language spoken by my “sister– friends”.

I would really appreciate it if you could share your thoughts about this letter with me.

With my well wishes and a big hug,

Simona Giannangeli

Corriere della Sera
19 03 2015

Ennesima bufera contro Ryanair. La compagnia low-cost più famosa d’Europa avrebbe rifiutato di imbarcare un bambino di dieci anni che doveva essere ricoverato all’ospedale La Paz di Madrid per subire un doppio trapianto. Accompagnato dai suoi genitori il bambino - ha lamentato la compagnia – sarebbe arrivato in aeroporto troppo tardi.

I fatti
I genitori del ragazzo che vivono sull’isola Gran Canaria, avrebbero ricevuto lo scorso 7 marzo una telefonata dall’ospedale della capitale spagnola in cui li informavano che il doppio trapianto di fegato e rene poteva essere effettuato immediatamente. La famiglia si è precipitata all’aeroporto dell’isola e alle tre del pomeriggio era pronta ad acquistare il primo volo Ryanair RYR2012 per Madrid previsto per le 16.50. Tuttavia la Ryanair ha rifiutato di vendere il ticket perché secondo le regole della compagnia un biglietto nazionale può essere acquistato solo elettronicamente e almeno due ore prima della partenza. I genitori hanno tentato di spiegare la gravità della situazione, ma non c’è stato nulla da fare. Alla fine il bambino e i suoi genitori sono stati costretti ad acquistare il volo successivo della compagnia Air Europa che è partito circa un’ora e mezza dopo quello della Ryanair.

Accusa
Nonostante il sito web Aviacion Digital abbia accusato la compagnia low-cost di aver rifiutato l’imbarco per «evitare la responsabilità di gestire la possibile morte di una persona in volo» la Ryanair ha seccamente smentito l’insinuazione: «Abbiamo esaminato la questione e, purtroppo, non siamo stati in grado di accogliere questa famiglia sul nostro volo perché era troppo vicino al tempo di partenza - recita la nota - Abbiamo offerto piena assistenza alla famiglia per quanto riguarda le loro esigenze di volo». Sebbene l’incidente abbia causato «ore di angoscia» e fino all’ultimo i dottori hanno temuto che l’operazione non potesse essere portata a termine, alla fine il ragazzo è riuscito ad arrivare in tempo in ospedale ed è stato sottoposto all’intervento chirurgico. Come ricorda l’Independent di Londra la compagnia low-cost guidata da Michael O’Leary è abituata a gaffe e proteste. Il mese scorso è stata fortemente criticata per aver promosso una pubblicità che descriveva Palermo come una città rinata dopo essere stata «dominata per molti anni dalla mafia e dalla povertà».

Francesco Tortora

Alfano il divieto di trascrizione resta

Circolo Mario Mieli
12 03 2015

La decisione del Tar del Lazio non cambia la regola: resta che le nozze gay celebrate all’estero non si possono trascrivere. Se accade, come è successo a Roma, l’unica differenza introdotta dai giudici amministrativi è che l’annullamento spetta alla magistratura ordinaria.

È quanto sostiene il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, intervenuto a a Omnibus su La7: i matrimoni tra omosessuali «non si possono trascrivere, questo dice il Tar del Lazio. È vero che l’atto di cancellazione, secondo lo stesso Tar, non lo devono fare i prefetti ma i giudici, ma la sostanza rimane ed è la terza conferma dopo la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale».

«Ho solo fatto rispettare la legge»

«Altri giudici – ricorda Alfano – avevano dato ragione a noi». E se il Tar del Lazio «ha deciso in modo diverso sulla competenza», non ha introdotto novità «dal punto di vista giuridico». E «in ogni caso non è il vangelo ma un Tar, ci saranno altri gradi di giudizio e vedremo».

Io, conclude il ministro, «ho semplicemente fatto rispettare la legge: c’è nel nostro ordinamento il divieto che due persone dello stesso sesso si sposino, se lo fanno all’estero e pretendono poi di trascriverlo in Italia fanno un atto in violazione della legge».

La motivazione del Tar

E in effetti nella motivazione della sentenza del Tar si legge che le coppie omosessuali, in base alle norme in vigore, «non vantano in Italia né un diritto a contrarre matrimonio, né la pretesa alla trascrizione di unioni celebrate all’estero, anche se le unioni tra persone dello stesso sesso non possono essere considerate contrarie all’ordine pubblico».

Tutto ciò «fatto salvo un intervento legislativo al riguardo, che ponga la legislazione del nostro Paese in linea con quella di altri Stati, europei e non».

La 27 Ora
12 03 2015

Maryse incontrò Georges quando entrò come giornalista stagista al Journal du Dimanche, dove lui già collaborava come disegnatore. Era il maggio 1968, fu amore a prima vista. «Era l’opposto di tutti i ragazzi che avevo conosciuto fino a quel momento, e l’opposto di quel che i miei genitori avrebbero voluto per me. Sono cresciuta in una famiglia molto cattolica, molto severa. Georges era diverso. Lo trovavo molto seducente e mi faceva ridere, era come se mi aprisse le porte di un nuovo mondo, un nuovo universo». Lui, vedovo con due figlie, aveva 34 anni, lei 25. Si sposarono e non si lasciarono più.

Georges Wolinski è morto il 7 gennaio scorso nella strage di Charlie Hebdo. Maryse ha raccontato alla Bbc i momenti tremendi di quando ha capito che la sua vita non sarebbe mai stata più la stessa, e di come sta cercando di sopravvivere a questa prova. Georges aveva l’abitudine di lasciare in giro per casa dei post-it con piccoli disegni o più spesso parole d’amore per Maryse. Quei post-it sono adesso un modo per sentire che Georges è ancora con lei. «Come potete immaginare, dopo 47 anni che conosco Georges, adesso che se ne è andato, questi sono momenti molto difficili per me – dice Maryse -. Quel che ho fatto è stato mettere tutti questi post-it, uno dopo l’altro, in giro per il mio appartamento. L’ultimo che vedo prima di andare a letto dice Bonne nuit ma chèrie». Nei giorni in cui i due si vedevano poco, o uscivano per impegni diversi, Wolinski non mancava di scriverle qualche parola d’amore.

I post-it di Georges alla moglie sono uno schiaffo alle coppie incattivite dalla quotidianità. Le foto di casa Wolinski pubblicate dalla Bbc rivelano un uomo tenero, innamorato, delicato. Un’ottantenne con le premure di un adolescente. «Buona notte Maryse chèrie. Sono quarant’anni che ti amo e non è finita qui. G.». «Dormi bene, ti amo. Non vedo l’ora di essere nel Luberon con te. G.». «Chèrie, penso a te. Sono preoccupato per te. Ti amo. Georges». «Abbiamo bisogno di altrove, di amore e di vacanze. Ti amo. G.». Oppure, Georges condivide quel che ha fatto durante il giorno, e gioca ad aggiungere qualche parola in inglese come i ragazzini. «Ti amo. Ho mangiato del foie gras, della zuppa, un po’ di galette. Ho letto Adieu ma jolie. Penso a te. A domani chèrie. I kiss you, Maryse, darling. Georges». «21h40. Ti ho comprato i libri, ho dato i miei disegni a Cabu (anche lui morto nell’attentato terroristico, ndr). Véronique dorme già. Ho mangiato cinese. Penso a te e al tuo coraggio. Ti amo. Georges». «Chèrie, sono andato couscousser (a mangiare del cous cous, ndr) dal mio amico Nasser. Sono le 10, it’s time for sleep. I kiss you my love G.».

Qualche anno fa Maryse ha scritto un libro, «Camere separate», sul mistero delle tante coppie di amici che hanno finito per lasciarsi, mentre il loro amore continuava imperterrito. Ci sono voluti i terroristi islamici, i fratelli Kouachi, per rovinare una vita meravigliosa. Quei foglietti senza importanza appiccicati al muro o allo specchio, pieni di parole enormi e bellissime, aiutano oggi Maryse a non farsi travolgere dall’orrore. «La mattina del 7 gennaio c’era la riunione di redazione a Charlie Hebdo, Georges non c’andava sempre ma siccome era la prima dell’anno aveva deciso di partecipare. Mi disse vado da Charlie, e uscì. Anche io sono uscita e siccome avevo una riunione ho spento il telefonino. Quando l’ho riacceso ho visto molti messaggi di persone che mi chiedevano come sta Georges? Ero in taxi e ho detto all’autista che strano, un mucchio di gente mi chiede come sta mio marito, lui mi ha guardata nello specchietto e mi ha risposto non sa che cosa sta succedendo? Non ha sentito la notizia? C’è stato un attacco a Charlie Hebdo, il quartiere è bloccato». Poi Maryse ha ricevuto la chiamata del genero che le ha consigliato di andare a casa ad aspettare, perché non si riusciva a sapere nulla.

«Ero estremamente preoccupata – continua il racconto di Maryse alla Bbc -. Ho aspettato per un’ora. E avevo questa tipica sensazione che era successo qualcosa, che la mia vita era cambiata. Poi mio genero mi ha telefonato di nuovo e mi ha detto, così di botto, Georges è morto».

Stefano Montefiori

Usa, alta tensione a Ferguson

Corriere della Sera
12 03 2015

Alta tensione a Ferguson, in Missouri, dove due agenti sono stati feriti da alcuni colpi di arma da fuoco esplosi durante una manifestazione davanti al dipartimento di polizia. Immediatamente ricoverati in un ospedale della vicina St.Louis, le loro condizioni sarebbero «molto serie». Fonti della polizia hanno detto alla Cnn che i due non sono in pericolo di vita. Gli unici dettagli diffusi ufficialmente dalle autorità sono che uno degli agenti, di 32 anni, è stato colpito al viso e l’altro, 44 anni, a una spalla. Entrambe erano coscienti quando sono stati soccorsi e trasportati in ospedale con l’ambulanza.

Le dimissioni del capo della polizia
L’episodio è accaduto poco dopo la mezzanotte ora locale, poche ore dopo le dimissioni del capo della polizia di Ferguson, Thomas Jackson, chiesta a gran voce dalla comunità afroamericana dopo l’uccisione l’estate scorsa del giovane nero Michael Brown, freddato da alcuni colpi di pistola di un poliziotto nonostante fosse disarmato. Ne seguirono giorni di violenze e un’ondata di rabbia e indignazione in tutta l’America. Proprio in seguito alle dimissioni di Jackson una folla di persone si era radunata davanti alla sede del dipartimento di polizia di Ferguson per una protesta pacifica. Fino a quando qualcuno non ha aperto il fuoco colpendo i due agenti rimasti feriti. Scene di panico e confusione tra le persone in strada, ma per fortuna la situazione è rimasta sotto controllo. Non è chiaro da dove siano partiti gli spari, anche se alcuni testimoni parlano di colpi provenienti da una abitazione vicina.

Il rapporto e le accuse di razzismo
Quella del capo della polizia Jackson è stata l’ultima testa a cadere dopo il rapporto del Dipartimento di giustizia americano che - dopo mesi di indagini - ha accusato il dipartimento di polizia di Ferguson e altre istituzioni municipali di comportamenti razzisti, con la comunità afroamericana sistematicamente discriminata.

Le persone e la dignità
10 03 2015

La storia di Atena Farghadani, un’artista iraniana di 28 anni, inizia il 23 agosto 2014. Le Guardie rivoluzionarie irrompono nella sua abitazione di Teheran, perquisiscono tutto, confiscano suoi oggetti personali e la portano via, bendata.

La tengono in isolamento per cinque giorni, nella sezione 2A della prigione di Evin. Poi la trasferiscono nella cella di Ghoncheh Ghavani, all’epoca in carcere per aver protestato contro l’esclusione del pubblico femminile in occasione della partita di pallavolo Iran – Italia.

Atena inizia uno sciopero della fame. Per punizione, le vengono inflitti altri 10 giorni d’isolamento.

Per un mese e mezzo, viene interrogata (a volte nove ore al giorno) sui suoi rapporti con le famiglie dei manifestanti uccisi nelle proteste del 2009 contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad e su una sua mostra, intitolata “Uccelli della Terra”, che era stata visitata da parenti di prigionieri politici e membri della comunità Baha’i.

Chiedono ad Atena anche cosa avesse voluto dire con una vignetta pubblicata sul suo profilo Facebook.

La vignetta mostra un gruppo di parlamentari con teste animali intenti a deporre una scheda nell’urna per approvare un progetto di legge per introdurre nel codice penale il reato di sterilizzazione volontaria, nell’ambito di una politica volta a limitare l’accesso alla contraccezione e ai servizi di pianificazione familiare.

Il 6 novembre Atena viene rilasciata su cauzione, non prima di essere stata incriminata per “riunione e collusione con individui controrivoluzionari e sette deviate”.

Dopo il rilascio, alla fine di dicembre, pubblica un videomessaggio in cui denuncia di aver subito maltrattamenti e perquisizioni degradanti per aver continuato a dipingere in cella, usando bicchieri di carta recuperati nei cestini dell’immondizia dei gabinetti del carcere (in cui erano state installate telecamere) e fiori raccolti nel cortile destinato alle attività fisiche.

Inizia il 2015. Il 10 gennaio, Atena viene nuovamente arrestata. In tribunale viene picchiata, le chiedono di quel video. La trasferiscono alla prigione Gharchak, situata a Varamin, 50 chilometri a sud della capitale.

Stavolta le accuse sono ancora più gravi: “diffusione di propaganda contro il sistema”, “offesa a rappresentanti del parlamento” e “offesa alla Guida suprema” attraverso mostre d’arte, disegni, vignette e altre attività pacifiche, tra cui gli incontri coi parenti dei prigionieri politici.

Il 9 febbraio, Atena inizia un nuovo sciopero della fame. Dopo tre settimane ha una crisi cardiaca e il 26 febbraio viene trasferita in ospedale. Inizialmente rifiuta di essere alimentata via flebo. Chiede di essere riportata a Evin.

Il 2 marzo la sua richiesta viene accettata e lo sciopero della fame termina.

Atena è una prigioniera di coscienza. Amnesty International continua a chiedere alle autorità iraniane il suo rilascio immediato.

Corriere della Sera
05 03 2015

L’ultimo desiderio era di vedere la grande mostra di Rembrandt in corso ad Amsterdam. Per questo i volontari dell’«Ambulanza dei desideri» hanno portato questa donna al RijksMuseum dove è stata scattata questa immagine.

La Stichting Ambulance Wens è infatti una fondazione olandese che si occupa di realizzare le ultime volontà dei malati terminali portandoli nei luoghi che più desiderano.

Sulle pagine Facebook e twitter dell’associazione vengono poi postate le immagine che testimoniano la realizzazione di queste volontà.

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