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CORRIERE DELLA SERA

Corriere della Sera
12 02 2015

Una neonata che ha avuto gravi crisi respiratorie dopo la nascita in una clinica privata di Catania, la casa di cura Giibino, è stata trasferita d’urgenza in ambulanza nel reparto di rianimazione pediatrica dell’ospedale di Ragusa, perché nel capoluogo etneo non c’erano posti disponibili, ma è morta prima del ricovero. Sull’episodio la Procura di Ragusa ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali responsabilità mediche e sulla disponibilità di strutture cliniche non adeguate a Catania o nelle province più vicine.

Procura acquisisce cartella clinica
Il ricovero d’urgenza della bambina paradossalmente non è stato possibile per l’indisponibilità di posti al Garibaldi, al Santo Bambino e al Cannizzaro. Indaga la polizia. La piccola era nata appena la scorsa notte, parto senza problemi, ma da subito aveva difficoltà respiratorie. Il 118 ha bussato ai tre ospedali con terapia intensiva pediatrica ma senza risultati, per la neonata non c’era posto fatta eccezione che per Ragusa. Dopo la denuncia dei familiari della piccola la Procura ha sequestrato la cartella clinica. Il personale medico del 118 è stato sentito dalla polizia, il pm Minicucci deciderà se disporre l’autopsia.

L’assessore Borsellino: «Ispezione, e non risparmierò nessuno»
Furiosa l’assessore regionale alla Salute Lucia Borsellino che ha annunciato una ispezione: «E’ vergognoso che non si riesca a trovare un posto di Terapia intensiva pediatrica e d’urgenza per una neonata. Verificherò come sono andate le cose senza guardare in faccia nessuno».

Corriere della Sera
12 02 2015

La notte del 31 gennaio l’artista Combo è stato picchiato in strada da quattro uomini, a Parigi, che gli avevano chiesto di cancellare dal muro la sua opera: l’autoritratto in djellaba (l’abito tradizionale musulmano) e la parola «Coexist» scritta con la mezzaluna islamica, la stella di David ebraica e la croce cristiana. Da allora le scritte «Coexist» si moltiplicano sui muri di Parigi. Combo, figlio di un libanese cristiano e di una marocchina musulmana, ha raccontato l’aggressione sulla sua pagina Facebook. «Sono finito a terra sotto i loro colpi. Sono riuscito a difendermi e a incassare come potevo. Quando si sono stancati mi hanno lasciato per terra insanguinato, promettendomi lo stesso trattamento se avessi continuato ad affiggere le mie opere, e consigliandomi di tagliarmi la barba. Mi importa poca da dove vengono, il colore della loro pelle, la religione o le idee politiche. In questo contesto non rappresentano che stupidità e ignoranza».

Gli slogan contro l’estremismo
Nei giorni successivi agli attentati di Parigi si è registrato un aumento di episodi di violenza contro gli ebrei e i musulmani. L’artista francese milita per la coesistenza delle religioni, e non disdegna di prendersi gioco dell’estremismo. È capace di creare slogan come «Più hummus meno Hamas» (il tipico piatto mediterraneo a base di ceci contro il partito islamico che controlla Gaza), di scrivere sui muri «L’abito non fa il monaco e la barba non fa l’imam» accanto alla sua immagine barbuta, e di chiedersi se il suo aspetto sia più quello di uno jihadista o di un hipster. Dopo l’aggressione Combo, ferito a un occhio e a un braccio, ha ricevuto molti attestati di solidarietà ed è stato invitato da Jack Lang, ex ministro della Cultura e presidente dell’Istituto del mondo arabo, ad attaccare la scritta «Coexist» sulla sede dell’Istituto. Centinaia di persone si sono radunate nel piazzale, hanno preso il manifesto e sono andate ad affiggerlo sui muri di Parigi.

Corriere della Sera
11 02 2015

L’Alabama, nel cuore della «Bible Belt», la fascia cristiano-conservatrice degli Usa, è il 37esimo stato dell’Unione dove le coppie gay possono legalmente sposarsi. La Corte Suprema ha respinto la richiesta del procuratore generale dell’Alabama di sospendere le licenze in attesa che la stessa Corte si pronunci sull’incostituzionalità del divieto di nozze gay.(Ap)

Le persone e la dignità
09 02 2015

Sono 210.060 i morti nel conflitto civile in Siria a partire dal 2011, secondo un bilancio stilato dall’ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus). Tra questi i civili sono circa 100.000, di cui 10.664 minorenni, inclusi bambini e adolescenti. I feriti gravi sono 1,5 milioni.

Tra i combattenti uccisi, oltre ai soldati e miliziani lealisti e ai ribelli e jihadisti siriani, vi sono almeno 28.131 stranieri, provenienti da altri Paesi arabi ma anche occidentali. Tra questi la maggioranza – 24.989 precisa l’Ondus – sono membri dell’Isis, del Fronte al Nusra, vale a dire la branca siriana di Al Qaida, e di altri gruppi jihadisti. Altri 3.142, invece, sono miliziani di organizzazioni armate sciite che combattono al fianco delle truppe del regime del presidente Bashar al Assad, tra i quali 649 dell’Hezbollah libanese.

La guerra civile ha anche reso profughi quasi la metà dei cittadini siriani: oltre 3 milioni hanno trovato rifugio nei Paesi confinanti, mentre circa 6 milioni sono sfollati interni. L’Ondus ha riferito di decine di civili uccisi anche negli ultimi giorni in nuovi raid del regime sui sobborghi di Damasco nelle mani di forze ribelli, che precedentemente avevano colpito il centro della capitale con una pioggia di razzi provocando almeno cinque morti.

La 27 Ora
05 02 2015

Martedì 27 gennaio la Corte di Cassazione di Roma ha assolto i tre imputati per la morte di Federico Barakat, il bambino di 8 anni ucciso dal padre il 25 febbraio 2009 durante quello che avrebbe dovuto essere un incontro protetto dai servizi sociali nei locali dell’Asl del comune di San Donato Milanese. I tre imputati erano Elisabetta Termini, responsabile del servizio minori di San Donato Milanese, Stefano Panzeri, l’educatore che seguiva Federico e che avrebbe dovuto essere presente all’incontro protetto, Nadia Chiappa, l’assistente sociale che seguiva il padre di Federico.

Dario Fo ha scritto un suo commento che qui sotto riportiamo. Noi abbiamo incontrato la mamma di Federico

Federico Barakat, figlio di Antonella Penati, è il primo bambino in Italia ucciso in ambito protetto, cioè in un luogo dove persone sicure scelte dallo stato si impegnano a fare in modo che un minore non riceva offesa fisica o morale.

Federico è morto il 25 febbraio 2009 in seguito ad un’aggressione armata ad opera del padre, durante un colloquio, che era stato garantito sotto protezione, all’interno della ASL di San Donato Milanese. Prima di quel giorno, per anni Antonella e Federico hanno subito minacce e soprusi da quell’uomo disturbato, violento e ossessivo. Le aggressioni si sono perpetrate con agghiacciante regolarità ma Tribunali, Carabinieri e assistenti sociali hanno deciso di considerare la parte da tutelare (e proteggere) quella paterna, consentendogli di incontrare il piccolo, sottovalutando clamorosamente la pericolosità denunciata da madre e figlio. Alle suppliche di Antonella – che era ben consapevole di quel crescendo di disagio paterno allarmante – le assistenti sociali hanno addirittura risposto con la minaccia di allontanare il bambino anche da lei, se non avesse consentito al padre di incontrare il figlio in un contesto protetto.

Paradossalmente, quel contesto ritenuto sicuro e controllato è lo stesso in cui quell’uomo è potuto entrare armato di coltello e pistola, lo stesso in cui è stato lasciato solo con il figlio, lo stesso in cui ha potuto ucciderlo prima di togliersi la vita.

Sappiamo i nomi e cognomi delle persone che non hanno protetto Federico quel giorno dagli spari sulla nuca e dalle otto coltellate ma questa vicenda atroce porta alla luce delle responsabilità ben più estese. Denuncia soprattutto una follia istituzionale radicalizzata, figlia della mancanza di cultura e di preparazione di chi deve proteggere i minori, ovvero tutti noi.

Siamo un popolo di disinformati, di uomini e donne distratti, che voltano la faccia davanti alle denunce di una madre che vuole proteggere un figlio. Siamo un popolo che ancora oggi ignora questa storia orribile – che non vuole ammettere di aver lasciato solo Federico in quella stanza – e di giudici che preferiscono nel giudizio lasciar correre e iscrivere il dramma in una casualità senza colpevoli.

Ma è ora di accettare la verità che ci indica tutti come colpevoli davanti a queste tragedie, perché non ci siamo lasciati coinvolgere, non ci siamo interessati di quanto accaduto e la comunità ha preferito ignorare. E’ il grave tarlo di un popolo fatto di persone che mettono sempre avanti se stesse e non riescono a vedere gli altri. Se la società non riesce ad assumersi la responsabilità di un fatto tanto grave vuol dire che non vuole nemmeno prenderne atto, vuole ignorarlo, vuole continuare a lasciare che si uccidano i suoi figli, anziché proteggerli.

Ma la responsabilità maggiore viene dall’alto: judicem significa colui che giudica persone o cose e ha la competenza e l’autorità di emettere giudizi. Ma dov’è la giusta sentenza?

In quella stanza Federico è stato lasciato solo da tutti noi, senza tutori, senza custodi, senza protettori.

Quanto avvenuto presso l’ASL di San Donato Milanese non è da archiviare come fatale distrazione. Si tratta di un atroce insulto, di una tremenda superficialità collettiva. Una mancanza di responsabilità a tutti i livelli che si manifesta con il rifiuto di proteggere i deboli e di far rispettare le leggi. Non possiamo accettare che nel nostro paese un luogo di tutela e protezione di un minore sia lo stesso dove un padre – più volte segnalato come violento – possa uccidere un figlio, indisturbato. Chi non protegge deve essere punito. Perché nessuno può fare parte di una società che non si prende cura dei propri figli.

Il 27 gennaio 2015, le persone negligenti, superficiali e prive di senso civico che dovevano tutelare Federico, sono state assolte dalla Corte di Cassazione. Giustizia è fatta: la signora bendata che siede solenne all’ingresso del tribunale da tempo è stata rovesciata a terra e ognuno finge di non essersene accorto.

(DARIO FO)

Ho incontrato la madre, Antonella Penati, da 6 anni impegnata con tutte le sue forze nella ricerca di giustizia per il suo bambino. Era stata proprio lei, come spiega nell’intervista, a rivolgersi fiduciosa alle istituzioni per cercare di proteggere se stessa e il bimbo dalle continue violenze e minacce dell’uomo

Che cosa è successo in Cassazione?
Il dibattimento dinanzi alla Suprema Corte è stato lungo, il mio legale, l’avvocato Federico Sinicato, ha detto che era evidente che il Procuratore Generale aveva esaminato il caso con cura. A fine dibattimento, verso le 12 circa di martedì, era concreto ipotizzare il rinvio a giudizio di tutti e tre gli imputati. Poi alle 21 la sentenza ha capovolto la situazione, confermando le assoluzioni e addirittura annullando l’unica sentenza di colpevolezza. L’avvocato era sconvolto, non sapeva come dirmelo.

Le motivazioni?
Le motivazioni le conosceremo tra un mese. L’avvocato Sinicato ha grande esperienza di Cassazione ma in questo caso non riesce ad interpretare una scelta così diametralmente diversa da quella ipotizzata dal Procuratore Generale che nella sua requisitoria aveva chiesto l’annullamento della sentenza assolutoria per la dott.ssa Chiappa e il sig. Panzeri, dando così ragione al nostro ricorso. Contro le due assoluzioni aveva fatto ricorso anche la Procura della Repubblica; la pg Bertolè Viale aveva chiesto la condanna per Chiappa e Panzeri al massimo della pena con un minimo di 3 anni e mezzo di carcere. Aveva specificato che non aveva presentato ricorso per la condanna a 4 mesi di Elisabetta Termini soltanto per economia processuale, ritenendo tuttavia la pena troppo esigua. Aveva aggiunto che tutti e tre gli imputati avrebbero dovuto rispondere alla loro coscienza non avendo avuto il minimo ravvedimento in fase testimoniale. Per quanto riguarda la posizione della dottoressa Termini il Procuratore Generale aveva invece chiesto un nuovo giudizio affinché il giudice di merito esplicitasse quali condotte avrebbero potuto evitare l’uccisione di Federico, ribadendo la corresponsabilità di tutti e tre i soggetti che avrebbero dovuto tutelarlo.

Come mai lei non aveva fatto ricorso contro la condanna di 4 mesi alla Termini?
Perché anche se mi sembrava ridicola dal punto di vista quantitativo era simbolicamente importante che venisse riconosciuta la sua responsabilità sulla morte di Federico. Raramente gli assistenti sociali vengono condannati, e questa sentenza poteva rappresentare un precedente importante per evitare che le istituzioni risultino sempre intoccabili, qualsiasi cosa facciano.

Che cosa farà ora?
In questo momento navigo nel buio. E’ una situazione surreale, non riesco a credere che abbiano messo una pietra sopra la vita e la morte di Federico. Loro avevano la responsabilità di tutelarlo e proteggerlo e non l’hanno fatto. E’ come se un insegnante portasse un bambino allo zoo, si disinteressasse se entra nella gabbia di un leone e di fronte al bambino sbranato dicesse Ma io non c’entro, è colpa del leone. Loro avevano preteso la tutela legale su Federico, loro mi avevano e soprattutto gli avevano imposto gli incontri con il padre. E hanno permesso che il padre lo uccidesse. E in sei anni non ho ricevuto nemmeno un Mi dispiace.

Federico avrebbe dovuto incontrare il padre solo sotto sorveglianza del Panzeri?
Sì, solamente sotto sorveglianza. Invece il Panzeri lasciò Federico con il padre, non so per quanto tempo. Il Panzeri disse di essersi allontanato solo un attimo, ma l’autopsia dice che Federico si è difeso da solo, e per uno spazio di tempo rilevante; si evince dall’autopsia: i tagli alle mani sono i tagli di chi si difende frontalmente cercando di impugnare le lame del coltello; le prime coltellate che Federico ha ricevuto non avevano colpito organi vitali, così come il colpo di postola. Ha ricevuto anche coltellate alle braccia, alle gambe, alla schiena. Poi quelle fatali, in prossimità del cuore, di nuovo frontalmente. Io vorrei sapere quanto è durato l’attimo in cui il Panzeri era lontano, visto che a soccorrere Federico morente allontanando il padre sono state due persone che arrivavano dalla parte opposta della struttura.

Come può entrare qualcuno armato di coltello e pistola in una struttura per incontri protetti?
Non so rispondere a questa domanda. Dovrebbe farla al comune di San Donato.

Lei ha dichiarato in un’intervista di aver lottato dal primo giorno contro tutti.
Sì, perché dal primo giorno ho trovato un muro nelle istituzioni: volevano archiviare il caso per morte del reo, dato che il padre di Federico si era ucciso poco dopo aver ucciso il bimbo. Le indagini inizialmente sono comunque state fatte a rilento e in modo confuso. Dopo tre anni circa mi sono rivolta a Sinicato e non riuscivamo a riavere il fascicolo dei Servizi sociali perché secretato dal Sindaco di San Donato; per riaverlo abbiamo dovuto chiedere l’intervento del giudice e ci è arrivato dopo sette mesi. Sinicato con un esposto alla Procura Generale ha perfino chiesto la revoca dell’in-carico alla PM Roveda che, tuttavia, ha subito chiesto l’archiviazione. Ci simao op-posti e il Giudice Luerti ha chiesto di mandare tutti a processo con imputazioni molto pesanti. Avendo chiesto il rito abbreviato al dibattimento non si ascoltano né imputati né parti lese, né testimoni. Al dibattimento era presente anche la pg Roveda che doveva motivare la sua richiesta di archiviazione. accanto a lei c’era una persona che alla fine del dibattimento è stata coinvolta dal giudice Tutinelli invitandola ad esprimere una sua riflessione. Ho scoperto così che si trattava del giudice Pietro Forno il quale ha sostan-zialmente detto di ritenere buono l’operato della pg Roveda e che i servizi sociali a suo dire dovevano essere assolti. Poi disse una cosa terribile, che non posso dimenticare, perché ero dietro di lui; disse che Federico sarebbe stato ucciso comunque, che ero io la responsabile della morte di Federico perché non ero fuggita all’estero. Quel giorno il giudice Tutinelli li ha assolti tutti. Li ha assolti tutti nonostante abbia messo agli atti il fallimento dei servizi sociali. Alla prima udienza del processo di secondo grado vi è stato subito un rinvio perché i fascicoli processuali sono spariti. I fascicoli vengono ritrovati pochi giorni dopo ma intanto il rinvio è di tre mesi. Bisogna viverle queste cose per capire cosa significano. Con la pg Bertò Viale ho avuto per la prima volta la sensazione che qualcuno si stesse occupando di Federico, di fargli giustizia. Perché io ci credevo nella giustizia, ci credevo nelle istituzioni, mi sono affidata io a loro con fiducia.

Quando e perché si è rivolta ai servizi sociali?
Furono i Carabinieri a consigliarmi. Mi ero rivolta a loro perchè subivo stal-king, minacce e aggressioni dal padre di Federico, che pretendeva di vedere il bambino. Io non volevo, era violento, faceva uso di droghe, soffrirà di un disturbo bipolare della personalità (diagnosticatogli a San Donato). I Carabinieri mi consigliarono di richiedere l’affidamento esclusivo visto la pericolosità del padre e per questo mi sono rivolta al Tribunale che ha accolto la mia richiesta ma che per prassi doveva trovare l’avvallo dei servizi sociali territoriali per la verifica del nucleo. Qui ho incontrato la dott.ssa Termini che da subito si è dimostrata contraria alle mie istanze. Mi diceva che il bambino aveva diritto di vedere il padre comunque, io mi rifiutavo di portarlo agli incontri perché ero troppo spaventata e lo era anche Federico che assisteva e subiva le minacce del padre. Lei sminuiva o ignorava i miei racconti, nonostante tutta una serie di indicatori di rischio per stalking, minacce anche al bambino, denunce per aggressioni a mia madre e a me, che mi sono difesa perché ho alle spalle 27anni di arti marziali. Parlava di Pas, diceva Lei discrimina la figura genitoriale. Mi ha revocato il controllo sulle visite descrivendomi come una madre iper-protettiva e ansiosa. Certo che ero ansiosa, sfido chiunque a non essere in ansia in quella situazione. Anche Federico era in ansia, se ne era accorto anche il suo allenatore negli ultimi tempi. Si svegliava spesso con degli incubi, una notte aveva sognato anche che il padre l’aveva ucciso, chissà cosa gli aveva detto durante i colloqui. Non ci voleva andare agli incontri. Un giorno mi aveva detto: Mamma amore, quando ho nove anni vado io a parlare coi giudici.

Com’era la sua vita prima di incontrare la dott.ssa Termini e i suoi collaboratori?
Avevo un bel lavoro, una casa, un bambino sereno, che andava bene a scuola, che giocava a calcio. Andavamo insieme al cinema, al teatro dei piccoli, gli raccontavo ogni sera una storia che avevo inventato io arricchendola mese dopo mese di nuovi personaggi. Nonostante le difficoltà riuscivo a gestire lo stalking. Avevo una rete che ci proteggeva, dal comandante dei carabinieri, alle maestre, ai vicini, a mia madre. Da quando la Termini è entrata nelle nostre vite mi sono ritrovata sotto scacco. Un giorno mi disse che se avessi continuato ad insistere con le segnalazioni di pericolosità il bimbo sarebbe finito in una casa famiglia. Ho dovuto accettare le visite protette. Il padre di Federico si scontrava molto con il primo educatore che vigilava agli incontri, litigavano in continuazione finché non ci fu la sostituzione con Panzeri. Il padre di Federico si vantava con me di aver ottenuto la sostituzione dell’educatore. Era in loro potere interrompere le visite e non l’hanno fatto. Nonostante un perito forense del tribunale di Milano, Paolo Bianchi, che aveva respinto la richiesta del padre di Federico di maggiore libertà nelle visite, raccomandava di non diminuire il grado di protezione degli incontri e di non allargarli in quanto la personalità del padre esponeva il bambino a potenziali effetti devastanti. Mi hanno massacrato, mi hanno ucciso Federico. Il diritto costituzionale dice che tu genitore hai il dovere di tutelare e proteggere tuo figlio e se non sei capace lo stato lo fa per te. Lo Stato ha detto che non ero capace e Federico è morto. Lo Stato pretende da te la responsabilità ma non se la assume.

Cristina Obber

Corriere della Sera
04 02 2015

Denuncia del Comitato trasparenza. Il Pirellone: «Ora bonus legati ai bandi»

di Simona Ravizza

In gioco ci sono oltre 2,5 miliardi di euro. Una montagna di soldi pubblici che gli ospedali spesso sprecano in appalti poco trasparenti. Il fatto è che gli acquisti di materiale e l’affidamento dei lavori avvengono senza passare dalle gare, imposte dalla legge sia per evitare accordi sottobanco sia per riuscire a strappare prezzi più bassi. In Lombardia il 47% dei contratti delle aziende ospedaliere - per oltre 1,2 miliardi di euro - viene stipulato senza una gara pubblica. I dati emergono dal dossier del Comitato per la trasparenza degli appalti, terminato il 16 gennaio 2015. Il periodo preso in considerazione è il 2013. «A conclusione dell’analisi - scrive il Comitato, istituito con la legge regionale numero 9 del 2011 dal titolo “Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto della criminalità” - si rileva l’ingente peso rappresentato dal ricorso a modalità di acquisizione di lavori, servizi e forniture di minore trasparenza rispetto alle gare pubbliche e che l’ordinamento giuridico prevede come straordinarie e/o particolari e comunque residuali».

Le strade battute dagli ospedali per aggirare le gare pubbliche sono molteplici. A seconda che siano interessati Asl, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) o ospedali, ci sono procedure negoziate senza pubblicazione del bando (dall’11 al 5%), affidamenti diretti (dal 12 al 20%), proroghe (dal 15 all’8%), rinnovi (dall’1 al 4%). Solo il 53% degli acquisti viene fatto tramite regolare gara pubblica. Nel grafico in pagina, la classifica delle aziende sanitarie più virtuose e le ultime in graduatoria. Per gli esperti il fenomeno, e in particolare le proroghe dei contratti scaduti, sono figli di una cattiva programmazione aziendale. I manager non riescono a organizzare in tempo le gare pubbliche. Così, per non interrompere le forniture sanitarie, si affidano alla ditta già al lavoro.

«L’impiego delle proroghe e dei rinnovi sono legittimi solo in casi eccezionali - ribadisce il Comitato -. Il mancato ricorso al mercato con i modi previsti dal Codice dei contratti pubblici è lesivo della concorrenza e della trasparenza, a meno che tale scelta non sia resa necessaria dall’assoluta urgenza di assicurare beni essenziali e irrinunciabili per situazioni contingenti non imputabili a chi deve fare l’appalto. (...) Bisogna intervenire per una efficiente programmazione, il rispetto dei termini delle varie scadenze contrattuali e il necessario ricorso all’evidenza pubblica». Il sistema ovviamente presta il fianco anche al malaffare e alla corruzione, con possibili trattamenti di favore all’imprenditore amico. L’assessorato alla Sanità è al corrente del fenomeno e ha deciso di correre ai ripari. Quest’anno il premio di risultato ai manager sarà legato anche alla riduzione dell’utilizzo delle proroghe rispetto al 2014. E il governatore Roberto Maroni da tempo spinge sull’accentramento delle gare nella Centrale acquisti (Arca) del Pirellone.

La27ora
03 02 2015

Una filosofa in Parlamento. Il libro di Michela Marzano Non seguire il mondo come va (Utet) è, prima di tutto, lo sguardo di chi entra per la prima volta nel Palazzo e si fa domande senza sconti. Docente a Parigi, autrice di diversi saggi di filosofia morale e politica, viene candidata nelle liste del Partito democratico alle elezioni del 2013 e, a marzo, approda alla Camera come deputato. Il primo impatto è uno choc: «Quello che penso non interessa a nessuno, in politica contano soprattutto conoscenze e appartenenze». Marzano «non appartiene e non conosce» e proprio per questo il suo punto di vista è prezioso, anche se la prova parlamentare costerà, e probabilmente costa ancora, non poche frustrazioni all’autrice. Il libro, scritto con la giornalista Giovanna Casadio, parte dall’osservazione politica e antropologica sulla vita alla Camera e poi si apre a una serie di interrogativi sul significato di alcune emozioni in politica: dalla rabbia alla compassione, dalla sfiducia alla speranza. Ed è qui che la deputata Marzano mette pienamente a disposizione quella competenza filosofica per la quale, in teoria, è stata candidata, ma che, nella routine parlamentare o di partito, quasi mai le viene richiesta: «Alla Camera e al Senato — annota — alla fine conta l’arroganza».

Non seguire il mondo come va non è però un testo disilluso o genericamente contro il Palazzo («la retorica anti sistema — scrive a un certo punto a proposito dello spirito dei tempi — è una delle piaghe contemporanee»). È, viceversa, un libro sulla fiducia (smarrita) nella politica, sui suoi peggiori sostituti — la rabbia, la sfiducia, il cinismo — e sulle parole che ci vorrebbero per riaccendere la partecipazione. Una di queste è speranza: «Renzi ha ragione, senza speranza non c’è politica», ed è per questo, sostiene Marzano, che il segretario del Pd ha prevalso nella sfida dei messaggi alle ultime europee sulla «rabbia» di Beppe Grillo. Le pagine sui Cinquestelle sono affilate: «Non era ancora mai accaduto che l’assenza di fiducia si trasformasse in paranoia. Con Grillo si assiste all’emergere di una propaganda in cui il vero e il falso sono l’uno accanto all’altro».

In tempi di politica post-ideologica, però, ogni successo può essere effimero: «La differenza tra speranza e strumentalizzazione della speranza — scrive — è nel rapporto che si stabilisce, o meno, con la realtà». E qui verso il Matteo Renzi «veloce e carismatico» si avanza qualche dubbio: «Senza progetto e senza visione la sinistra rischia di scomparire». Il problema, argomenta, nasce ben prima dell’attuale premier e non si risolverà con lui. Per l’autrice la possibile soluzione consiste nel guardare la realtà con «compassione» («sono allibita dalla mancanza di rispetto e di cuore di tanti dirigenti») e «battersi» per renderla migliore. Ed è per questo che, tra le tante citazioni, quella centrale è del saggista francese Jean Guéhenno: «Il vero tradimento è seguire il mondo come va e occupare lo spirito a giustificare questo».

Ci sono pagine in cui Michela Marzano abbandona la posizione dell’intervistata e racconta in prima persona episodi della sua esperienza in politica. Sono personali ribellioni «al mondo come va» come quando, a sorpresa, prende la parola in una tesa riunione del gruppo Pd oppure alla Camera in un’aula distratta: «Non so cosa ci faccio qui dentro, ma se c’è chi ascolta quello che dico, forse ne vale la pena».

 

Corriere.it
02 02 2015

Fosse italiana, Ruth Maccarthy tutto attaccato sarebbe ostetrica. Ma siccome non lo è, nonostante sia a Seregno, Brianza, da quando aveva cinque anni, ha buttato nel cestino la laurea, il tirocinio, il master, la specializzazione in parto podalico, l’iscrizione all’albo e più o meno l’intero curriculum di studio e sacrificio. «Tutte le notti passate a dormire nello spogliatoio dell’ospedale perché non avevo alloggio; i treni presi all’alba per arrivare a lezione puntuale alle otto, i soldi spesi... Quando ho capito che non avrei potuto partecipare ai concorsi pubblici è stata una tragedia».
Ma perché Ruth non è italiana, se ha appena compiuto trent’anni e dunque è qui da un quarto di secolo, abbondantemente oltre il decennio prescritto dalla legge per presentare domanda di cittadinanza? E soprattutto, perché va ancora in giro con un passaporto ghanese se ormai si è naturalizzata tutta la famiglia, padre, madre, tre fratelli e una sorella? «Al principio, perché la mia pratica s’era persa; poi, perché in Ghana hanno sbagliato il cognome sul certificato di nascita e l’hanno scritto Mac Carthy», staccato. Tutto da rifare.

Sembra uno scherzo, è la beffa ordinaria delle seconde generazioni di usi, costumi e accenti italianissimi («Io mangio gli spaghetti!» protesta Ruth), impantanati in una burocrazia fuori dalla storia. «Adesso ho richiamato il consolato ghanese, altri 300 euro per rifare il certificato laggiù, tradurlo, riportarlo all’ambasciata italiana di Accra per il timbro e recuperarlo». Il costo è alto perché per ottenere un documento in Africa, senza prendere un volo, bisogna ovviamente ricorrere a un’agenzia. «La mia famiglia ha calcolato che per tutte le pratiche di cittadinanza abbiamo speso oltre diecimila euro». Che non vanno tutti allo Stato italiano, per intendersi, ma si perdono in mille rivoli di marche da bollo, intermediari, autorizzazioni e nel caso di Ruth anche avvocati.
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«La prima domanda io e i miei l’abbiamo presentata nel 2007». Così tardi rispetto all’arrivo in Italia perché servono, appunto, tanti soldi. Raccolta delle buste paga, certificati penali di mamma e papà, iscrizioni alle scuole, una mole di carte per una prima risposta negativa nel 2008: alcuni documenti servivano in originale e non in fotocopia. Secondo round (in molte altre tappe). Alla fine del 2012 il primo estratto alla roulette della cittadinanza è uno dei fratelli. Nel 2013, con il solito criterio casuale, vengono via via convocati tutti i membri della famiglia per ricevere finalmente il passaporto italiano. E perché Ruth no? «Ho dovuto dare l’incarico a un legale che ha scoperto che la mia pratica s’era persa». Quindi, è stata ritrovata. Ma con il cognome Mac Carthy, sbagliato: si ritorna alla casella di partenza.

Nell’attesa kafkiana della carta giusta, Ruth ha scoperto di aver studiato per nulla: «Neanche i miei professori lo sapevano. L’ho capito quando, dopo la laurea, mi sono iscritta all’albo: le mie compagne di corso ci hanno messo mezz’ora, io nove mesi». Mentre le colleghe già lavoravano, l’aspirante ostetrica Maccarthy (che pure da studentessa aveva «esercitato» con successo in reparto) era esclusa dai concorsi pubblici che richiedono come primo criterio la cittadinanza. «E nelle cliniche private non mi prendeva nessuno». Nonostante una prestigiosa formazione agli Ospedali Riuniti di Bergamo e un punteggio di tesi alto. «Speravo, però, sempre di avere i documenti italiani a breve». E così continuava a studiare: specializzazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, tirocinio addirittura in Ghana.

Al tempo stesso, Ruth ha sempre lavorato per mantenersi, receptionist in uno studio legale vicino al Duomo. Nell’idea di passare presto ad altra attività. Ma quando i tempi della burocrazia si sono fatti troppo lunghi, nemmeno la solida e tranquilla figlia del pastore pentecostale Maccarthy è riuscita a sopportarlo: «Basta, non farò più l’ostetrica, ho aspettato troppo, dall’anno scorso non ho rinnovato l’iscrizione all’albo, ho smesso di aggiornarmi». Non è, però, rimasta ferma: «Ho lasciato il centralino, ho aperto la partita Iva e vendo online vestiti africani disegnati da me, in un sito da 270 mila fan». Le stoffe vengono dal Ghana e dalla Nigeria, la sarta è italiana, le clienti internazionali. Intanto, cerca ancora, con il suo curriculum variegato. In casa parla dangbe, una lingua della minoranza, ma nella chiesa del papà esercita un inglese perfetto. E il carattere è tenace. «Qualcosa troverò».

27Ora
02 02 2015

«Il più grande desiderio è avere un secondo bambino. Non per me ma per dare un fratello a mia figlia Ilaria, gravemente ammalata di fibrosi cistica. E lo vorrei in salute, questo bambino. Le sembra una grande pretesa, la mia?».

No, non lo è. Rosita è sposata con Walter, portatore sano, come lei, della terribile malattia genetica trasmessa inconsapevolmente alla primogenita che ora ha otto anni e vive tra casa e ricoveri. L’unico modo per non rischiare di mettere al mondo una seconda creatura sofferente è la diagnosi preimpianto degli embrioni, vietata in Italia alle coppie fertili. Però Rosita e il marito non si sono arresi. Dopo una lunga battaglia giudiziaria condotta anche in Europa, con un ricorso alla Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo vinto nel 2012, hanno ottenuto a settembre 2013 dal Tribunale civile di Roma una sentenza che ordina alla Asl Rm A di eseguire l’esame. L’ospedale S. Anna cui i genitori si sono rivolti ha però risposto solo in parte alle richieste dei giudici.

Rosita ha la voce stanca mentre racconta le mortificazioni, il dolore e le rinunce di questi anni. Le parliamo in un giorno particolare. Ha appena saputo che Ilaria dovrà di nuovo essere ricoverata al Bambin Gesù per un problema ai polmoni, l’organo più martoriato dalla fibrosi cistica. È diventato una spugna che trattiene batteri insidiosi.

Cosa è successo da quando due anni fa il Tribunale ha dichiarato il vostro diritto alla procreazione medicalmente assistita e alla selezione degli embrioni con diagnosi preimpianto?
«A maggio dello scorso anno in effetti ho fatto un primo tentativo al S.Anna. È andata male. Su tre embrioni solo uno non aveva difetti ed è stato trasferito. La gravidanza però non è cominciata. A novembre abbiamo chiesto di provare con un secondo ciclo, come ci autorizza il Tribunale. Nessuno ci dà ascolto tranne il direttore del centro, il dottor Antonio Colicchia che cerca di aiutarci. Inventano scuse, ci illudono dicendoci che è tutto a posto. E noi continuiamo ad aspettare. Credo sia una questione di soldi. La diagnosi sull’embrione viene eseguita in un laboratorio privato a spese della Asl».

Aspetterete ancora?
«Ho 38 anni, un’età in cui la donna diventa mamma difficilmente. La fecondazione artificiale è l’unica speranza. Ho abortito già una volta dopo essere rimasta incinta in modo naturale e aver scoperto che il bambino aveva la fibrosi. Non me la sono sentita di far nascere un’altra creatura destinata a sofferenze e strazio. Ilaria ha una forma gravissima, la più aggressiva, devastante, si nutre di antibiotici. Ecco, se non mi fermo qui è per farla felice. Voglio regalarle gioia in ogni modo. Abbiamo avuto il permesso di ricoverarla due giorni più tardi per non farle saltare una festa mascherata».

Se non ci fosse Ilaria lei si sarebbe già arresa?
«Ne abbiamo passate troppe fra promesse e rinvii. Siamo allo stremo. Dopo il primo tentativo andato male hanno avuto perfino il coraggio di dirci che avremmo dovuto metterci in lista di attesa per il secondo trattamento, ricominciare da capo».

Dal tono lei sembra rassegnata. Ha perso mordente?
«Assolutamente no. Con Walter abbiamo deciso di non rinunciare, di non arrenderci alla burocrazia. Siamo vittime di una profonda ingiustizia. Non chiediamo un bambino con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Desideriamo semplicemente che non sia così malato. Perché devono impedirlo?».

Avete mai pensato di andare in una clinica privata?
«Mio marito ha uno stipendio di 1600 euro al mese e fa il turno di notte per accompagnare me e la bimba in ospedale. Io ho smesso di lavorare per stare con Ilaria. Non possiamo permetterci altri sacrifici economici e neppure di andare all’estero dove si pagano prezzi bassi. Ci stanno prendendo in giro. È una crudeltà».

La Asl romana attraversa una fase a dir poco caotica, come tutta la boccheggiante sanità laziale. Al posto del direttore generale Camillo Riccioni è arrivato un commissario straordinario, Ernesto Petti. Per Rosita e Walter nulla è cambiato. Ancora rinvii e finte rassicurazioni. Colicchia il 1 marzo lascerà il centro, depauperato di personale, risorse e attrezzature. Le coppie che si mettono in lista adesso per un trattamento aspettano due anni.

 

Corriere della Sera
02 02 2015

L’eguaglianza non è una parola astratta. Come non lo sono la libertà e la fratellanza. I cardini della nostra Rivoluzione. Da cittadina francese sento il dovere di metterle in pratica

di Giuseppina Manin

Sulla strada dell’utopia Ariane Mnouchkine è in marcia da oltre mezzo secolo. E se tanti nel frattempo si sono perduti, tornati indietro, preso vie laterali più comode, peggio per loro. A cambiare il mondo lei non rinuncia. Nemmeno ora che i riccioli sono candidi e il bel viso severo porta le rughe di molte battaglie per l’integrazione e l’accoglienza. Per i sans papier, gli esuli afghani e tibetani, i rifugiati politici di ogni parte del mondo.

Combattute da questa icona del teatro, la più grande regista della scena europea, insieme con la troupe multietnica del suo Théâtre du Soleil, spazio dell’immaginazione al potere, sorto in un’ex fabbrica di munizioni, la Cartoucherie, nel bosco di Vincennes, fuori Parigi. Dove, dal ’64, Ariane dipana con coraggio e passione il su filo di impegno e fantasia, tenerezza e fiducia.

«La Cartoucherie è la mia casa. Lì vivo con la mia “famiglia allargata”, una settantina di persone tra attori e tecnici, tutte unite dai medesimi ideali, tutte coinvolte nella creazione teatrale collettiva».

Una «comune» nel vero senso della parola. Dove tutti partecipano alle decisioni, tutti, lei compresa, ricevete lo stesso salario, 1.800 euro al mese.
«L’eguaglianza non è una parola astratta. Come non lo sono la libertà e la fratellanza. I cardini della nostra Rivoluzione. Da cittadina francese sento il dovere di metterle in pratica».

Bandiere di Illuminismo e tolleranza che a Percoto, in Friuli, le hanno fatto conquistare il prestigioso Premio Nonino. A consegnarglielo Peter Brook, altra leggenda del teatro, che come lei ha sempre condiviso quei valori.
«Anche Peter è un figlio del secolo dei Lumi. Ci conosciamo da tanti anni, il nostro è stato un percorso parallelo».

Non a caso lei ha firmato «1789», famoso spettacolo che paradossalmente ha debuttato non in Francia ma a Milano.
«È stato Paolo Grassi a invitarmi. Conosceva il nostro teatro e ne condivideva la filosofia e il linguaggio. Grassi è stato molto importante per noi. Ci ha sostenuto agli inizi, ci ha invitati successivamente anche con L’Age d’or. E quindi, da presidente della Rai, ha anche coprodotto il nostro film su Molière».

E di Strehler cosa ricorda?
«Alcuni suoi spettacoli. Soprattutto l’Arlecchino e I giganti della montagna. Un grande regista, ma l’amicizia è stata più con Grassi. Il legame con il Piccolo, proseguito fino a oggi, lo dobbiamo a lui».

Il suo teatro porta in scena i classici, da Eschilo a Shakespeare (ultimo titolo, «Macbeth»), intrecciandoli però con culture «altre», specie orientali. E così pure accade per i tanti testi originali, mirati all’attualità, scritti su misura da Hélène Cixous.
«Di volta in volta abbiamo affrontato il tema delle guerre, dall’Iraq alla Siria, dell’esilio dell’umanità e della cultura violate. I tibetani oppressi dai cinesi, gli afghani e i palestinesi in perenne conflitto civile…».

Il suo è davvero un teatro speciale. Anche nella forma?
«Il Soleil è aperto a tutti. Giovani e meno giovani, francesi e stranieri si ritrovano qui uniti da emozioni comuni. Dal legame misterioso e quasi erotico che il pubblico stabilisce con chi è in scena».

Ogni sera è lei ad accogliere come una padrona di casa il pubblico, invitandolo a spiare gli attori prima dello spettacolo, mentre si truccano e si vestono. E poi a mangiare tutti insieme il cibo cucinato dalla compagnia.
«Il teatro è questo. Non spettacolo ma rito, cerimonia collettiva da cui tutti, attori e spettatori, devono uscire più forti e più umani. Il teatro non è solo quel che dici, è quel che fai. Concreto come l’utopia. Che non è qualcosa impossibile da fare, ma qualcosa che ancora non è stata fatta. L’importante è provarci, camminare su quella strada».

Cosa direbbe a un giovane d’oggi?
«Di fuggire come la peste la cupezza appiccicosa che ci gettano addosso tutti i giorni, fatta di odio e di diffidenza verso gli altri. Di tornare a sognare, nonostante il cinismo e la volgarità imperanti. Di credere all’immaginazione, il nostro muscolo più importante. Ma anche alla puntualità e alla gentilezza. Così necessarie nel quotidiano. E soprattutto di credere nell’amicizia, la vera pozione magica della vita».

Senza alcun limite?
«I soli sono la coscienza, il rispetto dell’altro, la giustizia, la solidarietà».

Parole difficili da metter in pratica dopo la tragedia di Charlie Hebdo e le polemiche conseguenti.
«Quelle vignette possono anche non piacermi, ma sono prima di tutto una cittadina francese. E la Francia è uno stato laico, dove dal XVIII secolo sono in vigore la libertà di parola e di satira. Questa è la nostra legge. Per questo alla grande manifestazione dell’11 gennaio i miei attori e io abbiamo partecipato issando un’enorme Marianne di legno e pezza. Per ricordare a tutti i nostri valori cardine».

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