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CORRIERE DELLA SERA

La 27 Ora
30 01 2015

Alessia Refolo è una ragazza molto bella di 24 anni di origine piemontese; impiegata bancaria, amante dello sport. Apparentemente sembra una delle tante giovani donne della sua età, con una vita tranquilla in cui ogni conquista è stata facilmente raggiunta. Non è stato propriamente così. A un anno e mezzo è stata colpita da un tumore nella zona addominale, un Neuroblastoma Pediatrico, patologia molto rara e difficile da curare. In seguito, la somministrazione di farmaci molto forti le hanno danneggiato in modo irreversibile il nervo ottico e la retina.

Nonostante la perdita della vista, Alessia si ritiene fortunata ed orgogliosa di se stessa; è giusto che sia così. Infatti, vive da sola, pratica molti sport. Non molto tempo fa si è imbattuta nell’arrampicata e, mettendoci passione e impegno, è diventata una campionessa paraolimpica.

Alessia, ci vuoi parlare della tua partecipazione ai campionati del mondo di arrampicata lo scorso settembre in Spagna?
«Il 2014 è stato il mio primo anno da agonista nell’arrampicata su roccia e dopo aver vinto le tre gare di Coppa Italia sono entrata a far parte della nazionale italiana paraclimber con la quale sono partita per i Campionati Mondiali in Spagna. Questa esperienza mi ha dato la possibilità di confrontarmi con atlete straniere molto forti ed è speciale il rapporto di complicità che si è creato con i compagni di viaggio che, pur avendo disabilità diverse dalla mia, si sono dimostrati altruisti e pronti a dare consigli. Faccio ancora adesso fatica a credere di aver vinto l’oro in questa gara, la più importante. Per me è stato come un regalo dopo un anno di allenamenti costanti e intensi».

Quali sono le tue specialità nell’arrampicata?
«Pratico tutte le 3 discipline dell’arrampicata – boulder, lead e speed – in modo da essere un’atleta più completa possibile. Nella prima ci si muove soprattutto in orizzontale dato che l’altezza massima della parete è circa di 4 metri, si tratta principalmente di blocchi brevi ma faticosi da eseguire ed è importante cercare di atterrare sul materasso in modo corretto, per evitare di farsi male. Nella lead le pareti sono alte diversi metri e le vie sono più o meno dure in base al grado di difficoltà che viene deciso dal tracciatore e in gara vince chi arriva più in alto. Infine la speed è la velocità, quindi si tratta di una via sempre uguale strutturata in modo semplice. Viene studiata e imparata a memoria in modo da farla più rapidamente possibile in gara dato che in questo caso conta il tempo. Nella lead e nella speed si scala in coppia poiché è necessario che una persona faccia sicurezza dal basso mentre l’altra scala e vengono utilizzati strumenti tecnici oltre all’imbrago e alla corda».

Quanto e come ti alleni?
«Mi arrampico da settembre 2013 e nutro una forte passione per questo sport che mi ha portata ad intraprendere la strada dell’agonismo. Svolgo tre allenamenti intensi a settimana sia in parete che in sala pesi: in primis al CUS di Torino ma anche alla palestra K3 di Ivrea e all’Algim diIivrea. Mi piace scalare autonomamente scegliendo da sola il percorso utilizzando il tatto ma ci sono sempre delle vie tracciate da seguire con le prese di diverso colore in base alla difficoltà. Quando mi arrampico il mio allenatore diventa anche la mia guida;: mi comunica i comandi per raggiungere gli appigli tramite un auricolare bluetooth. Il mio codice di comandi si basa sulle ore dell’orologio ed è come se io mi trovassi al centro di un grande orologio. È molto importante il rapporto di fiducia tra l’atleta e la guida. È necessario capirsi rapidamente perché non bisogna perdere tempo dato che le varie posizioni del corpo in parete sono scomode».

Oltre al successo sportivo, nella vita quotidiana hai raggiunto un altro risultato, forse molto più importante, quello di andare a vivere da sola.
«Vivo da sola da qualche mese e questa mia indipendenza l’ho ottenuta impegnandomi negli studi e riuscendo a vincere un bando di concorso presso la banca Monte dei Paschi di Siena, dove lavoro attualmente. Penso in generale che appena si ottiene una stabilità economica, sia giusto allontanarsi dai genitori, e questo vale anche per me. Anzi, forse a maggior ragione quando si ha un problema, si tende a ricevere molto aiuto in particolare dalla famiglia e questo mi ha fatto sentire una forte voglia di essere autonoma in tutto chiedendo meno aiuto possibile agli altri. Questa scelta importante mi dà molte soddisfazioni: ho imparato a cucinare pietanze semplici, faccio le pulizie e le lavatrici, usando l’acchiappacolore, che mi tranquillizza. Tengo molto al mio aspetto fisico, mi piace vestire in modo elegante e da sempre memorizzo bene l’abbigliamento che acquisto facendomi dire i vari colori così che i miei abbinamenti risultino sempre ben fatti».

Anna Gioria

La 27 Ora
29 01 2015 

Oltre un milione di messaggi che prendono di mira donne, le offendono e denigrano, quasi sempre con insulti di natura sessuale. Sono quelli (1.102.494 per la precisione) registrati in otto mesi, tra gennaio e agosto dell’anno scorso, da Vox Osservatorio sui diritti, che per la prima volta analizzato il social network Twitter per costruire una mappa dell’odio e dell’intolleranza in Italia. E indagare quali sono i presupposti culturali della violenza di genere. Ne emerge che la misoginia, l’odio contro le donne, è la forma di intolleranza più diffusa, in tutta Italia, ma con con picchi in Lombardia, Friuli, Campania, tra il sud dell’Abruzzo e il nord dell Puglia e il Salento (qui sopra e in basso in versione ingrandibile, la mappa geolocalizzata della misoginia). Molti, oltre centodiecimila, anche i messaggi contro gay e lesbiche: la regione più omofoba su Twitter è la Lombardia, seguita da Friuli e Campania (sotto, la mappa geolocalizzata dell’omofobia).

I ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, della Sapienza di Roma e dell’Università di Bari le hanno costruite dopo aver raccolto oltre due milioni di tweet che prendevano di mira donne, gay, immigrati, disabili ed ebrei, scorporando quelli geolocalizzati (circa 43 mila, il 2,3% del totale, in linea con analisi analoghe effettuate dalla Humboldt University negli Stati Uniti) e usandoli per stabilire tra l’altro dove si concentravano statisticamente i messaggi misogini e omofobi (i risultati sono poi stati nomralizzati sulla base del campionamento di tweet localizzati).

Gli insulti che ricorrono più spesso passano (quasi) sempre per la dimensione sessuale e corporea: corpi sessualizzati, deformati, mutilati, mortificati. È il presupposto a livello psicologico della stessa mentalità che porta alla violenza materiale, ai corpi picchiati o violentati. Quando si offende una donna, anche all’epoca del web 2.0, si rinfaccia la «colpa» di sempre, quella di essere sessualmente troppo disponibile.

L’omofobia esplicita, invece, si rivolge quasi esclusivamente ai gay maschi, per ridurli a un mero atto sessuale, considerato di per sé denigratorio, privandoli della loro umanità e accostandoli a ciò che suscita più disgusto.

«Il tweet misogino od omofobo replica la logica del bullo in versione 2.0 — spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra, professore di Psicologia alla Sapienza di Roma e uno dei consulenti scientifici della ricerca di Vox —: il debole incapace di affrontare la propria debolezza si trasforma in prepotente e fa il forte con chi percepisce come ancora più debole». Il comune denominatore dell’intolleranza è spesso il machismo: «Gli insulti sono mirati sulle donne e “usano” il corpo come luogo di umiliazione e dileggio perché sono un modo sbagliato di reagire a mutamenti sociali che mettono in discussione le supposte certezze del maschio vecchia maniera — aggiunge Lingiardi — Sono saltate le opposizioni tradizionali maschio/femmina, forte/ debole, attivo/passivo. Si è attaccano gli altri perché si è incapaci di fare fronte a queste trasformazione. O come diceva Cesare Pavese: “si odiano gli altri perché si odia se stessi“».

Elena Tebano

Corriere della Sera
29 01 2015

La Corte Suprema ha ordinato all’Oklahoma di rinviare le prossime tre esecuzioni previste fino a quando non sarà presa una decisione sul controverso farmaco usato per il procedimento, che potrebbe violare il divieto, imposto dalla Costituzione americana, di punizioni “troppo” crudeli. La sentenza arriva dopo il ricorso di tre condannati a morte che si erano rivolti alla Corte per far fermare le esecuzioni, previste da qui a marzo. In attesa della decisione dei giudici, lo stato dell’Oklahoma(che continua a sostenere che il farmaco utilizzato è giusto) voleva comunque procedere con le esecuzioni usando un altro farmaco, ma la Corte Suprema ha respinto la richiesta. Questo significa che Richard Glossip, John Grant e Benjamin Cole, ritenuti colpevoli di assassinio, non andranno nel braccio della morte. Glossip, accusato di aver ordinato l’assassinio del suo capo nel 1997, doveva morire giovedì prossimo. L’esecuzione di Grant era prevista per il 19 febbraio e quella di Cole, accusato di avere ucciso la sua bambina di nove anni, per il 5 marzo.

Sedativo sotto processo
«Si ordina che le esecuzioni, dove è previsto l’uso del midazolam, siano bloccate in attesa della disposizione finale sul caso», si legge nella decisione della Corte Suprema. Lo scorso venerdì i giudici hanno accettato la richiesta dei tre detenuti e deciso di verificare se il sedativo midazolam possa essere utilizzato nelle esecuzioni a seguito dei timori che non produca un profondo stato comatoso e di incoscienza come è accaduto nelle esecuzioni avvenute in Arizona, Ohio e Oklahoma. Il caso sarà discusso ad aprile e una decisione è attesa per giugno. Il midazolam è sotto accusa dall’aprile 2014, dopo l’esecuzione di Clayton Lockett: in quel caso il condannato, dato per incosciente, aveva cominciato ad agitarsi e urlare perché la vena dove dove essere iniettato il mix di farmaci letali era scoppiata, poi è morto d’infarto. La Casa Bianca in quell’occasione aveva commentato: «Nel caso di Lockett non sono stati rispettati gli standard di umanità necessari».

Ultima esecuzione
La sentenza della Corte Suprema giunge otto giorni dopo che i giudici si erano rifiutati di bloccare l’esecuzione di Charles Warner, accusato di avere violentato e ucciso una bambina di 11 anni. dove viene usato lo stesso tipo di farmaco. Oltre al midazolam viene utilizzato un medicinale per paralizzare il detenuto e un terzo per bloccarne il cuore.

Amina Sboui, piccole blogger crescono

Corriere della Sera
28 01 2015

di Stefania Ulivi

C’era una volta Amina, la blogger tunisina diciassettenne che il primo marzo di due anni fa colpì al cuore con la sua foto a seno nudo con su scritto «Il mio corpo mi appartiene». Minacciata dai fondamentalisti islamici, segregata in casa dalla famiglia, arrestata e incarcerata per aver scritto “Femen” su un muro. Quella che sta girando l’Italia in questi giorni per promuovere il libro che porta proprio quel titolo (pubblicato in Italia da Giunti), è una giovana donna, Amina Sboui, 20 anni compiuti da poco, che è riuscita a sottrarsi al destino impegnativo ma anche rassicurante di bandiera. «La prima Femen tunisina» è scesa dal piedistallo di eroina globale, lasciato il suo paese per la Francia, anche grazie a una borsa di Amnesty che le ha permesso di proseguire gli studi a Parigi, Amina si sta costruendo una vita da persona, non da personaggio, e sembra pronta ad accettarne i rischi.

Il libro lo ha scritto insieme a una giornalista di France 2, Caroline Glorion. Dentro si mescolano il racconto della scoperta dell’uso politico del corpo delle donne intrapreso dalle Femen e la scelta di passare all’azione, con i ricordi di infanzia e adolescenza, momenti altrettanto determinanti per la sua affermazione come femminista, racconta. Parla di figure centrali, il padre, la madre, la nonna. Dalle pagine emerge l’insofferenza per le regole imposte da fuori, per la pretesa dell’istituzione – famiglia, governo, religione – di prevalere su bisogni e diritti dell’individuo. L’insofferenza verso la diseguaglianza uomo-donna accettata come ordine naturale. Amina usa registri diversi, nel racconto del carcere spuntano tocchi di humor nero come fossero anticorpi contro la mitizzazione. Non fa mai la vittima, Amina, si capisce che quel ruolo le starebbe stretto. Trovandosela di fronte, si ha l’impressione che quel libro le somigli molto. Ha parlato tanto in questi giorni, incontri, interviste, presentazioni.

Della sua figura pubblica. «Chi mi detesta mi dipinge come se fossi una pazza, quelli che mi sostengono come un’eroina, non sono né l’una né l’altra. Sono una ragazza, Amina la femminista, non sono e non voglio essere Wonderwoman». Di quella privata «Vivo la mia vita quasi normalmente, continuo a lottare, studio. Me la cavo bene in filosofia e materie umanistiche, meno in quelle scientifiche». Della Tunisia. «Ci vado ogni tanto, la situazione è ancora pesante». Di femminismo. «Non esiste un femminismo occidentale, non credo a queste differenze: femminismo è credere nella parità e lottare per questo. Ci sono anche donne poco solidali che bloccano la strada del femminismo persino più degli uomini.

Per il futuro spero che ogni donna creda profondamente di essere uguale agli uomini». Sul suo corpo. «Ho utilizzato il mio corpo e continuo a utilizzarlo come voglio, questo fatto ha scioccato la società tunisina. Molti utilizzano la pornografia anche in pubblicità, quella foto portava un messaggio, non era un nuovo sexy, il senso era dire che si può essere diversi». Il Corano. «leggendo il Corano ho trovato un versetto che mi fatto capire che dovevo abbandonare quella religione. Parla del profeta, vi si legge “ti permettiamo di fare l’amore con le donne per cui hai pagato la dote, quelle fatte schiave, le cugine e qualsiasi donna tunisina”. Allora ero credente, mi sono chiesta: ma è la parola di Dio o di un uomo perverso? La risposta è stata allontanarmi dal Corano. Non c’è un solo versetto del Corano che parli bene delle donne ma non si può cancellare: la sola soluzione per fermare il terrorismo è riformulare il Corano. È necessario che l’Islam faccia i conti con il XXI secolo, non è possibile far convivere Corano e XXI secolo, si deve integrare con il presente». L’integralismo religioso.

«La maggior parte dei musulmani che incontro non sono schiavi del Corano o di Maometto. Io non sarei viva, mi avrebbero ucciso appena ho detto di non volere più essere musulmana. Sono laica ma non credo affatto che si debbano distruggere luoghi di culto, la religione è una questione privata, credo che ognuno possa vivere la sua religione come vuole, senza bisogno di andare a scuola con il velo o la stella di David». Le Femen. «Ho lasciato quel movimento per conflitti sulla loro linea: io non voglio entrare nelle moschee o nelle chiese a dire che fai così come non vorrei che mi si fermi per strada per chiedere perchè ho i tatuaggi. Gli auguro di riuscire nelle loro lotte, abbiamo obiettivi simili con strade diverse». Il massacro di «Charlie Hebdo». «Una vicenda tristissima, che mi dà la voglia di continuare, mi incoraggia ad andare avanti. Invito tutti a non avere paura, è quello che vogliono gli islamisti: diffondere paura nelle nostre società farci restare a casa e non agire».

Ma oltre a quello che dice, quello che colpisce di Amina è la forza di volontà. Non sembra rimpiangere il piedistallo, ha i piedi ben piantati per terra e ed è pronta a confrontarsi, discutere le piace e lo fa con passione. Ragazza di carattere e di cuore, ha due speranze: che il suo libro un giorno esca in Tunisia (la prossima tappa è la Turchia) e che prenda vita il suo progetto di un centro di sostegno alle detenute tunisine. In quanto a lei, come ogni ventenne, si costruisce la vita. Né puttane né madonne recitava uno dei antichi slogan femministe. Ecco, Amina Sboui, lo incarna benissimo.

 

Le persone e la dignità
27 01 2015

Cambiano i re ma non le cattive abitudini. Lunedì 26 gennaio in Arabia Saudita c’è stata la prima decapitazione di un uomo sotto il regno dell’appena nominato Re Salman (nella foto sulla destra mentre riceve le condoglianze per la morte del fratellastro) . L’esecuzione è avvenuta a Gedda. Moussa al-Zahrani era stato condannato per aver rapito e stuprato molte ragazze ma il caso aveva suscitato molte perplessità perché l’uomo si è dichiarato innocente fino alla fine e aveva accusato la polizia di essere stata corrotta per condizionare il processo. Suo fratello Hassan lo descrive come un padre innocente di tre figli. Altri parenti sono apparsi in televisione per spiegare le inconsistenze dell’accusa.

Lo scorso settembre un osservatore indipendente dell’Onu aveva espresso le sue preoccupazioni sulle procedure giudiziarie in Arabia Saudita e lanciato un appello per una moratoria delle esecuzioni. Purtroppo dall’inizio dell’anno questa è già la tredicesima.
Il ministro dell’Interno, però, non ha dubbi: Moussa al-Zahrani ha rapito delle ragazze minorenni, le ha drogate e le ha stuprate.

In ossequio ad un’interpretazione rigida della Sharia la pena di morte nel Paese è prevista per vari reati, tra i quali: omicidio, stupro, rapina a mano armata, traffico di droga, stregoneria, adulterio, sodomia, omosessualità, rapina su autostrada, sabotaggio e apostasia. Tre i metodi di esecuzione: l’impiccagione, la lapidazione e la decapitazione, quest’ultimo è il sistema più applicato (nel 2005 tutte le esecuzioni sono avvenute per decapitazione) anche se vi sono talvolta impiccagioni e lapidazioni. Le donne possono scegliere di essere giustiziate con un colpo di pistola alla nuca per non essere costrette a scoprire il capo.

Alcune organizzazioni umanitarie hanno denunciato che in Arabia Saudita c’è una quasi totale assenza di garanzie processuali. Per esempio, agli imputati è stata spesso negata la presenza di un avvocato o di una rappresentanza legale in aula; solo nel 2002 è stata consentita dal governo saudita la visita dello Special Rapporteur ONU sull’indipendenza dei giudici.Secondo i dati diffusi da Amnesty International nel 2013 l’Arabia Saudita si è classificata terza, dopo la Cina e l’Iran, nella scala mondiale delle esecuzioni.

Il 21 aprile del 2004 l’Arabia Saudita ha votato contro la risoluzione per l’abolizione della pena capitale approvata dalla Commissione per i Diritti Umani dell’Onu.

27ora
27 01 2015

Suhair, detta Su-su, aveva 13 anni. Quella mattina d’estate del 2013 in cui, per volere della famiglia, è stata portata nella clinica di un medico per la “circoncisione femminile” (detta anche “infibulazione” o come la chiamano gli esperti “mutilazione genitale femminile”), lei aveva un bruttissimo presentimento.

Era già successo a una delle sue sorelle, Amina, di venire sottoposta alla pratica due anni prima – come peraltro è accaduto al 90% delle egiziane sotto i 50 anni (secondo le stime del governo). Chissà cosa le aveva raccontato Amina. Ma quel che è certo è che Suhair Al-Bataa sentiva che qualcosa sarebbe andato storto, come hanno raccontato le amiche ad una giornalista della Bbc. Anche la nonna (sottoposta lei stessa alla pratica all’età di 9 anni) ha confermato che Suhair non ci voleva andare. “Aveva pianto, aveva rifiutato”. Ma il padre la costrinse. Allora, prima di obbedire, Suhair raccomandò alla sorella maggiore di prendersi cura della più piccola e, al calzolaio cui aveva chiesto ripararle le scarpe, disse che forse quella sarebbe stata l’ultima volta.

Suhair aveva ragione. E’ morta nel villaggio agricolo di Mansoura, lo stesso in cui era nata, nel Delta del Nilo, un posto povero e isolato dal mondo. Non diventerà mai una giornalista: era il suo sogno, secondo la migliore amica Amira Arafat. L’autopsia dice che a ucciderla è stato “un calo repentino della pressione sanguigna in seguito ad un trauma”. A differenza delle altre tre ragazze sottoposte contemporaneamente alla circoncisione, lei non si è svegliata: dopo un’ora è stata portata in ospedale.

Non è stata la famiglia a sporgere denuncia, ma alcuni attivisti. E ieri, alla fine, il medico Raslan Fadl, che praticava una dozzina di infibulazioni al giorno e che è anche l’imam della moschea di Mansoura, è stato condannato a due anni di carcere più una multa. E’ la prima volta che succede in Egitto. “Una vittoria monumentale” la definisce l’associazione “Equality Now”.


Anche il padre di Suhair è stato condannato: a tre mesi di carcere con la condizionale. E’ stata la famiglia a volere l’infibulazione per Suhair, il padre nel suo caso, ma anche le donne hanno un ruolo. La sua morte è interpretata dallo zio come “il volere di Dio”. La nonna, con la voce che le si spezzava, ha detto che la nipotina “era una ragazzina dolce come il miele”. Poi ha raccontato al quotidiano inglese Independent di un’altra nipote, di dieci anni. Verrà circoncisa? “Dipende da quello che deciderà sua madre. E’ una cosa buona. Io e le mie cinque sorelle siamo state circoncise. E’ la tradizione. Siamo venute al mondo e le nostre famiglie hanno questa tradizione”. Dopo la morte di Suhair la mutilazione genitale femminile continua nel suo villaggio. Secondo il giornale egiziano Masry El Youm, il dottore aveva offerto l’equivalente di quasi tremila dollari ai familiari per farli tacere.

La mutilazione genitale femminile è una delle più devastanti pratiche cui vengono sottoposte le ragazze e le bambine dell’Africa orientale. Spesso si tratta di ragazze tra i nove e i tredici anni, ma a volte hanno appena sei anni. In Egitto avrebbe avuto origine già prima dell’avvento dell’Islam (è chiamata “circoncisione faraonica”) mentre non è praticata in Paesi ben più conservatori nel Golfo.

Si muore per emorragia, per reazioni allergiche e, per tutte coloro che sopravvivono le conseguenze possono andare da infezioni all’infertilità e a rischi gravi durante il parto. La consapevolezza è aumentata in Egitto: diversi anni fa, prima che la pratica venisse dichiara illegale nel 2008, un gruppo di infermiere fece pubblicamente – per la prima volta – un minuto di silenzio dopo la morte di una tredicenne di nome Karima in una clinica del Cairo.

Emma Bonino è stata una delle promotrici della battaglia contro la mutilazione genitale femminile. Oggi molti attivisti sottolineano l’importanza di far penetrare il dibattito al di là delle élite progressiste e all’interno delle masse povere nelle zone rurali. Decine di villaggi, grazie a campagne di educazione sulla questione, si sono in effetti liberati dalla pratica. Ma c’è ancora molto da fare, come dimostra la storia di Suhair. L’Unicef chiede una più efficace applicazione della legge. Ma il problema è spesso la mentalità: molti nelle zone rurali credono che l’infibulazione sia l’unico modo per evitare che le donne della famiglia siano promiscue; diversi genitori la considerano una pratica religiosa, anche se le massime autorità islamiche e cristiane del Paese l’hanno esplicitamente condannata.

In passato erano i “circoncisori tradizionali” a praticare l’infibulazione, applicando polvere e sale sulle ferite. Poi a volte erano i barbieri. Ora lo fanno quasi sempre i medici in Egitto, il che porta alcuni a ritenere che sia una “cosa moderna”. Ma nessuno di loro impara queste cose studiando medicina. Le ragazze continuano a morire, proprio come Su-su. Chissà quante storie ci sono come la sua, ma senza nomi né soprannomi.

Corriere della Sera
26 01 2015

Per il Giorno della Memoria escono col Corriere la pellicola inedita e un libro-inchiesta sulla donna che perse il nonno ad Auschwitz e una figlia in Argentina

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia (oggi Oswiecim): data divenuta simbolo tanto da essere stata scelta quale Giornata della Memoria, istituita nel 2005, per ricordare lo sterminio egli ebrei. Per la ricorrenza, il «Corriere della Sera» propone il film inedito Il rumore della memoriadi Marco Bechis (1957), scritto con Antonio Ferrari, Caterina Giargia e Alessia Rastelli, iniziativa che ha una doppia valenza: ricordare la tragedia dell’Olocausto e condannare la violenza in qualsiasi forma, epoca e luogo si manifesti, come è accaduto durante la dittatura del generale argentino Jorge Rafael Videla (1925–2013).

Il progetto parte dalla web serie girata nel 2014 da Bechis per il «Corriere» e dedicata a Vera Vigevani Jarach (GUARDA LE PUNTATE) ed è arricchito da materiali inediti, tra cui un intervento del regista, desaparecido sopravvissuto: nato a Santiago del Cile, cresciuto tra San Paolo e Buenos Aires, a vent’anni fu sequestrato e detenuto in un carcere clandestino, prima di essere espulso dall’Argentina; nei suoi film ha denunciato la violenta repressione della dittatura. Il cofanetto comprende, oltre al dvd del film, il libro-inchiesta di Antonio Ferrari e Alessia Rastelli con testi di Ferruccio de Bortoli, Alessandra Coppola, Vera Vigevani Jarach e Marco Bechis. Sarà in edicola da domani per un mese, con il «Corriere» (a e 10,90 più il costo del quotidiano). Sempre domani arriva in edicola il Diario. Racconti dell’alloggio segreto di Anne Frank. Il volume — prefazione di Ferruccio de Bortoli e postfazione dello scrittore Marco Missiroli — che comprende, oltre alle pagine del diario, i Racconti dell’alloggio segreto che ne sono l’ideale prosecuzione. Sarà disponibile per un mese al prezzo di e 9,90 più il prezzo del quotidiano. (s.col.)

Corriere della Sera
26 01 2015

Syriza con il 94% dei voti scrutinati ha 149 seggi sui 300. Gli occhi dell'Europa su Atene: «Rispetti gli accordi»

di Redazione Online

Alexis Tsipras e Syriza trionfano nelle elezioni politiche in Grecia. Il partito anti-austerità, con il 94% delle schede scrutinate, si ferma però a 149 seggi, due dalla maggioranza assoluta, e dovrà quindi cercare un alleato per governare. «La Troika è una cosa del passato», ha detto il leader, commentando il risultato delle elezioni. «Il voto contro l’austerità è stato forte e chiaro». Prima ancora che arrivassero i primi dati reali, subito dopo la diffusione degli exit poll, è arrivato il monito della Bundesbank per bocca del suo presidente Jens Weidmann: «La Grecia rispetti gli impegni, fare le riforme è nel suo interesse». Intanto oggi del dossier greco si parlerà al tavolo dell’Eurogruppo, preceduto da un vertice ad hoc convocato tra i vertici dell’Europa e dell’Eurozona, cioè i presidenti Draghi, Juncker, Tusk e Dijsselbloem.

Le percentuali
Al termine dello spoglio, andato avanti tutta la notte, i dati ufficiali assegnano a Syriza il 36,34% pari a 149 deputati, oltre il doppio (grazie al premio di governabilità di 50 seggi rispetto ai 71 del 2012, quando prese il 26,89%). A quasi 9 punti di distanza i conservatori di Nea Dimokratia (Nd) del premier uscente Antonis Samaras con il 27,81% e 76 seggi (129 due anni fa). Terzo partito si conferma, come a giugno 2012, l’estrema destra di Alba Dorata, che con il 6,28% conquista 17 seggi (uno in meno delle precedenti elezioni). A breve distanza i centristi di To Potima, questi ultimi con il 6,05%, con 17 seggi. A seguire i comunisti del Kke, che hanno ottenuto il 5,47% e 15 seggi (3 in più rispetto a due anni fa); Greci Indipendenti (formazione scissionista di Nea Dimokratia) ha preso il 4,75% e 13 seggi (7 in meno), così come i socialisti del Pasok di Evangelos Venizelos (prima del crollo il partito che si alternava con Nd al potere dalla caduta del regime dei colonnelli nel ‘74) con il 4,68%. Nel 2012 ne ottenne 33. L’affluenza è stata del 63,87, più alta del voto precedente quando andò a votare il 62,47%.

Tsipras: «Oggi chiudiamo col circolo vizioso dell'austerità»
Alexis Tsipras ha parlato alla folla sotto la sede di Syriza ad Atene: « Oggi il popolo greco ha fatto storia. Il popolo greco ha dato un ordine molto chiaro: la Grecia volta pagina, abbandona l'austerità, la catastrofe, lascia la paura dietro di se, lasca 5 anni di sofferenze e chiude circolo vizioso dell' austerità, annulla l'accordo di austerità con la troika che è il passato». E poi: «Troveremo con l'Europa una nuova soluzione per far uscire la Grecia dal circolo vizioso (dell'austerità) e per far tornare a crescere l'Europa. La Grecia presenterà ora nuove proposte, un nuovo piano radicale per i prossimi 4 anni». « Il nuovo governo greco negozierà «una soluzione finanziaria giusta e vantaggiosa per tutte le parti».

«Gli accordi firmati con la troika sono morti»
Il primo a parlare dopo i risultati era stato il responsabile del programma economico di Syriza, Yannis Milios, che annuncia che alla luce del trionfo alle elezioni (ancora da verificare), gli accordi sottoscritti dai precedenti governi, ultimo quello di Antonis Samars, con la troika (Bce-Ue-Fmi) per il salvataggio della greca «sono morti». «Penso che Gikas Jarduvelis (ministro delle Finanze del governo uscente) domani mattina (a Bruxelles) alla riunione dell'Eurogruppo si limiterà a discutere di aspetti tecnici, perché il programma (di rientro del prestito da 240 miliardi di euro che ha salvato Atene) che ha sottoscritto come rappresentante di Samaras è morto», ha dichiarato Milios. Lunedì è previsto una riunione dell'Eurogruppo che avrà tra i temi più scottanti proprio l'esito del voto greco e le sue possibili ripercussioni sulla tenuta dell'Eurozona.

Le reazioni, Weidmann: «Ora la Grecia rispetti gli impegni»
A risultati non ancora ufficiali erano arrivate le prime reazioni. «È nell'interesse del governo greco fare le riforme necessarie per risolvere i suoi problemi strutturali - è il commento del presidente della Bundesbank Jens Weidmann - La Grecia deve aderire alle condizioni del salvataggio». Il presidente della Bundesbank e membro del direttivo della Bce, ritiene che Atene continuerà ad avere bisogno di aiuti dalla troika (Bce-Ue-Fmi) e ricorda che li otterrà solo se rispetterà gli accordi sottoscritti dai governi precedenti. Weidmann spera che il nuovo governo non faccia promesse che non potrà permettersi, auspica «che il nuovo governo (greco) non metterà in dubbio ciò che si aspetta da lui e ciò che è già stato realizzato».

Cosmesi vaginale, cosa c’è da sapere

Corriere della Sera
23 01 2015

Nasce l'Aigef, con l'obiettivo di arrivare a linee guida condivise e informare correttamente la donna in modo da prevenire le distorsioni e gli eccessi americani

di Margherita De Bac

Dagli Stati Uniti è rimbalzata da noi una nuova tecnica antinvecchiamento che interessa l’apparato genitale femminile. Si parla di «ringiovanimento vaginale, vaginoplastica, riverginazione, potenziamento del punto G» e così via. Questi termini, grazie anche al contributo dei medici americani, hanno creato nelle donne false aspettative o comunque aspettative superiori a quelle che sia verosimile nutrire circa la possibilità di recuperare gioventù sessuale e soddisfacenti rapporti fisici con i partner.

Si è aperta una nuova frontiera di guadagno. Chirurghi e specialisti di medicina estetica hanno cominciato ad approfittarsi di sogni e illusioni delle pazienti che a una certa età (dopo i 45 anni, più frequentemente dopo i 50 riferiscono gli esperti di menopausa) non sopportano i segni di un certo tipo di invecchiamento. Il collegio americano di ostetricia e ginecologia nel 2007 è intervenuto per condannare «le procedure prive di una indicazione medica» e ribadire che questi trattamenti «non hanno dimostrazione di efficacia e sicurezza». I rischi sono molteplici e non c’è garanzia sui risultati. Il richiamo alla classe medica è stato recentemente reiterato.

E in Italia? Anche da noi comincia ad esserci richiesta di «cosmetica vaginale», ma le esperienze sono limitate. E molte questioni tecniche, etiche e legali vanno chiarite. Quali sono le indicazioni cliniche legate a un problema funzionale? Le difficoltà ad avere rapporti sessuali e il disagio psicologico che ne deriva giustificano il ritocco delle parti intime? E ancora. Chi sono i medici competenti, i ginecologi o i chirurghi plastici? Per affrontare queste problematiche è nata l’Aigef, associazione italiana di ginecologia estetica e funzionale, presidente Pietro Saccucci, affiancato dai vice Emanuele Bartoletti e Gianfranco Bernabei. A Roma la scorsa settimana il primo congresso dal titolo «Il benessere genitale femminile». L’obiettivo è arrivare a linee guida condivise e informare correttamente la donna in modo da prevenire le distorsioni e gli eccessi americani.

Corriere della Sera
23 01 2015

A ritenere che sia «molto importante» avere un figlio maschio sono il 76% degli uomini indiani e l’81% delle donne, che sono complici oltre che vittime della selezione.

di Anna Meldolesi

«Nel Diciottesimo secolo le neonate potevano vedere la faccia della madre e poi venivano uccise immergendole in un secchio di latte. Noi siamo peggio, le uccidiamo nel grembo materno. Non siamo degni del Ventunesimo secolo». Con queste scioccanti parole il Primo ministro indiano Narendra Modi ieri ha lanciato una nuova campagna contro il ricorso all’aborto per scegliere il sesso dei figli, una pratica illegale ma drammaticamente diffusa. «Beti Bachao Beti Padhao» (salva la figlia, istruisci la figlia) è il nome dell’iniziativa che coinvolgerà i 100 distretti più critici.

Si calcola che un migliaio di bambine vengano abortite ogni giorno in India, solo perché femmine, da genitori che vogliono a tutti i costi un figlio maschio. Per stabilire il sesso del nascituro basta un’ecografia, i medici non potrebbero rivelarlo alla madre ma aggirare la legge è sin troppo facile. I dati dell’ultimo censimento, analizzati sulla rivista medica Lancet, hanno stimato il deficit di popolazione femminile che si è creato in questo modo nell’arco di 30 anni: le bambine indiane che mancano all’appello potrebbero essere 12 milioni. Il primo a studiare il fenomeno delle «missing girl» è stato il premio Nobel Amartya Sen nel 1990 e l’emergenza è tornata alla ribalta con una celebre copertina dell’Economist nel 2010, ma il peggio non è ancora passato. Colpa di una mentalità patriarcale dura a morire, che Modi ha definito «una malattia psicologica che contagia l’intero paese», senza risparmiare neppure i ceti benestanti e istruiti.


La preferenza culturale per il figlio maschio è ancora molto radicata, come ha rivelato a fine novembre un’indagine delle Nazioni Unite su oltre 12.000 indiani. Quasi un terzo dichiara che la selezione prenatale del sesso dovrebbe essere consentita. Quasi la metà non è neppure al corrente che è vietata per legge. A ritenere che sia «molto importante» avere un figlio maschio sono il 76% degli uomini e l’81% delle donne, che sono complici oltre che vittime della selezione. Spesso per una giovane sposa mettere al mondo un figlio maschio è il modo migliore per guadagnarsi il rispetto della famiglia acquisita. Il nome usato per definire le donne nel contesto familiare è «paraya dhan», che significa proprietà di qualcun altro. «Allevare una figlia è come annaffiare un fiore nel giardino del vicino», recita un proverbio tamil. Avere una femmina, insomma, significa buttare risorse, perché dopo il matrimonio verrà assorbita nel clan del marito, dunque lavorerà e farà figli per un altro lignaggio.

«Per ogni mille maschi dovrebbero nascere mille femmine. Se le femmine non nascono, dove troverete le nuore?», ha chiesto il Primo ministro rivolgendosi al paese. La media nazionale è di 918 bambine ogni 1000 maschi e lo squilibrio demografico non è più concentrato soltanto nel nord, anche se l’Haryana continua a detenere il triste record dello stato più sbilanciato con un rapporto che scende fino a 775 a mille nei distretti peggiori. I dati sono preoccupanti anche nella capitale New Delhi: 871 contro 1000. «Non si tratta solo di far nascere le bambine, bisogna anche nutrirle, educarle, curarle, riconoscere i loro diritti», ha detto l’ambasciatrice della campagna, l’attrice di Bollywood Madhuri Dixit. I dati aggiornati sulla negligenza selettiva, purtroppo, confermano che le femmine non ricevono le stesse cure mediche dei coetanei.

La campagna appena partita prevede non solo maggiori controlli sull’applicazione della legge contro la selezione prenatale del sesso, ma anche incentivi per i distretti che riusciranno a diminuire lo squilibrio tra nuove nate e nuovi nati, premi per le scuole che non perderanno alunne da un anno all’altro e una campagna di sensibilizzazione sui media. Il resto del mondo non dovrebbe restare a guardare: gli aborti sesso-specifici non riguardano solo paesi lontani come l’India e la Cina. I flussi migratori hanno portato il fenomeno (seppure in dimensioni ridotte) fin dentro l’Europa e l’Italia, e si calcola che le donne mancanti siano oltre 100 milioni su scala globale.

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