Lipperatura
04 04 2013
Ieri sera, leggendo della polemica che contrappone Selvaggia Lucarelli (per questo articolo) al foltissimo (predominante su Twitter, anzi) gruppo di giovanissime (in maggioranza ragazze) fan di Justin Bieber e One Direction, mi sono venute in mente molte cose che vanno al di là dell’episodio in questione.
Per esempio, mi sono tornati in mente altri casi che hanno visto le adolescenti farsi carnefici di altre. E’ successo su Twitter a ottobre ed è successo di nuovo nelle prime settimane del 2013: nella classifica delle discussioni più seguite sul social network entrano due hashtag, prima #letroiedellamiacittà e poi, in gennaio, #letroiedellamiascuola. Centoquaranta caratteri di pura rabbia, spesso con annesse fotografie della coetanea presa di mira: già, perché la discussione è stata, in tutti i due casi, ad altissima partecipazione femminile e minorenne (il secondo hashtag, quello sulle troie scolastiche, è stato lanciato da una ragazzina di terza media). Qualche esempio? “Le troie della mia scuola si fanno le foto quando nevica mezze nude. si siete trasgry”. Oppure: “cambiano foto trenta volte al giorno solo per avere più mi piace”, “si fanno foto bimbominkiose cn la sigaretta in mano e l’iphone5 anke se nn fumano x metterle su fb e avere i mi piace”, “non capiscono che la didascalia delle foto non serve x citare frasi poetiche che giustifichino le loro tette di fuori”, “si fanno mille foto agli occhi pubblicandole poi su facebook e scrivendo ‘ho degli occhi bruttissimi”, “si fanno le foto in pantaloncini corti e pancia scoperta quando fuori ci sono i pinguini”.
Troia è anche Flora, diciassette anni, massacrata di insulti su Twitter per aver vinto un biglietto gratis per un concerto. Era novembre, quando, se ricordate, Flora vinse tre biglietti omaggio per partecipare al concerto degli One Direction, a New York. Alla notizia della vincita, i tweet furono di questo tenore: “Devi morire”. “Fai un aerosol con il gas”. “Lavati con la benzina e asciugati con l’accendino”. A gennaio 2013, una quattordicenne di Pescara viene prescelta da Justin Bieber per salire sul palco: anche qui, il massacro. “Ti vorrei buttare giù dalle scale”. “Ti prenderei a sprangate”. La ragazza disattiva i suoi account. “L’abbiamo fatta cancellare da Facebook, siamo grandi”, esultano. Quando la storia diviene pubblica, uno dei tweet sarà: “CHE BELLO REGA’ TUTTE IN CARCERE MINORILE INSIEME! DISTANZA, VINCIAMO ANCORA NOI. SOFFOCO”.
Che sta succedendo? E perché le ragazzine stesse denunciano che chi è fan di Belieber o One Direction viene a sua volta insultato e aggredito? E dove? Nella vita reale o sui social? Perché nella vita reale gli scontri fra giovanissime fan ci sono sempre stati, almeno a partire dagli anni Sessanta, e sono stati decisamente violenti. Ma qui il punto è un altro: i social, appunto, dove, per dirla con il vecchio Yeats del “Secondo Avvento”, Le cose si dissociano, il centro non può reggere E la pura anarchia si rovescia sul mondo, La torbida marea del sangue dilaga, e in ogni dove Annega il rito dell’innocenza. Cosa succede quando non la scuola, non i genitori, ma gli adulti che sono sugli stessi social network e di cui di certo le loro figlie e sorelle minori occhieggeranno qualche parola, si comportano peggio di loro? Su un blog, ho trovato il commento di una delle ex bambine etichettate come “troie” su Twitter, solo perché “un anno fa ho accettato l’invito x un cinema….. La storia dura ancora lei era una mia amica lei ha la mia età”, e che dice amaramente: “In rete dovrebbero starci le persone mentalmente elastiche e intelligenti ( non parlo di studi) forse dovremmo dire educate…”.
Ma forse non è neanche questione di educazione. E’ che la rete così come è concepita attualmente vive di fiammate rapidissime di haters e di altrettanto veloce e apparente risoluzione dei contrasti. Megafono e insieme tritatutto: finisce una polemica, avanti un’altra. Il punto è che tutto questo è permanente: una vecchia fan di Simon Le Bon o, prima ancora, di Mal dei Primitives, potrà sorridere di se stessa e dell’incomprensione di cui si sentiva rabbiosamente oggetto, o delle ferocissime invidie verso altre fan. Oggi se lo ritrova scritto, nero su bianco (e rischia di ritrovarselo davanti per un bel pezzo, e che qualcuno glielo ricordi quando sarà un’adulta) e rivomitato dalle trasmissioni televisive del pomeriggio e di nuovo rivomitato sui social, in un atroce ouroboros.
Dunque? Dunque questo è un punto molto serio su cui indagare. Intanto, vi posto un brano del già molto citato Nell’acquario di Facebook, del collettivo Ippolita, che non mi stanco di consigliare.
“La diffusione capillare dei social network comporta dinamiche di esclusione che abbiamo già sperimentato con il boom dei telefoni cellulari. Se non hai un account su Facebook, non sei parte di una minoranza e basta: più semplicemente e radicalmente, non esisti, diventa difficile rimanere in contatto con gli altri. Tanto più se non si hanno relazioni precedenti al magico mondo dei social network, ad esempio per ragioni anagrafiche: gli adolescenti subiscono una pressione sociale più forte ad adottare in maniera esclusiva questo genere di strumenti. Fortunatamente sono spesso molto più smaliziati e competenti degli adulti nel gestirli, perché sono nati e cresciuti in un mondo digitalmente interconnesso, di cui conoscono luci e ombre per esperienza personale. Sfortunatamente, nel complesso non hanno alcuna memoria storica e ritengono erroneamente di essere completamente diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, con problemi totalmente nuovi e strumenti completamente innovativi per gestirli e risolverli. Ma forse essere ridicolizzati sul proprio muro di Facebook non è così diverso dalle prese in giro che si verificano in qualsiasi gruppo di adolescenti a tutte le latitudini in tutti i tempi. Le questioni sociali sono innanzitutto questioni umane, di relazioni fra esseri umani, inseriti ciascuno nel proprio ambiente. Nonostante la pellicola luccicante degli schermi tattili, la civiltà 2.0 è molto simile a tutte le civiltà precedenti, perché gli esseri umani continuano a ricercare l’attenzione dei loro simili, ad aver bisogno di nutrirsi, di dormire, di intrattenere relazioni amicali, di dare un senso al mondo di cui fanno parte; continuano a innamorarsi e a deludersi, a sognare e a sperare, a ingannarsi e a derubarsi, a farsi del male e a uccidersi. In una parola, gli esseri umani devono fare i conti con la coscienza della finitezza del proprio essere nel tempo (l’incomprensibilità della morte) e nello spazio (lo scandalo dell’esistenza degli altri, di un mondo esterno), anche nell’era dei social network digitali. Ma come vedremo è davvero arduo mettere in pratica politiche adeguate nell’epoca della distrattenzione globale, in cui tutti sono talmente indaffarati a chattare, scattare, postare, messaggiare, twittare da non aver più tempo e nemmeno le capacità per coltivare relazioni significative.
Ad ogni modo, nonostante il corpo e il linguaggio rimangano i limiti condivisi dell’esperienza umana, una parte preponderante del mondo adulto tende ad abdicare a qualsiasi ruolo di comprensione e guida all’utilizzo consapevole delle tecnologie digitali. Forse intimorite dalla sensazione di non essere all’altezza, dal giovanilismo rampante di società gestite da vecchi rifatti, molte persone rifiutano di sporcarsi le mani con le tecnologie digitali, soprattutto con quelle a maggiore implicazione sociale, rinchiudendosi in una sorta di scoraggiato «io non ci capisco nulla» che sconfina spesso nel luddismo di chi proprio non vuol sentir parlare di internet e dintorni. Questa percezione di assoluta novità è corroborata dalla nefasta categoria dei tecnoentusiasti, in questo caso fautori dell’internet-centrismo per cui ogni cosa è destinata a passare da internet, dalle relazioni interpersonali agli acquisti, dalla politica locale a quella internazionale, dalla salute alla formazione. L’internet 2.0 sarebbe la realizzazione online di un mondo perfettamente democratico, in cui ogni netizen (net citizen, cittadino della rete) contribuisce al benessere comune, innanzitutto in quanto consumatore”.
Come sapete, non è così.