Le persone e la dignità
09 06 2015
Dal 1971, 177.000 donne e ragazze irlandesi o residenti in Irlanda sono state costrette a recarsi all’estero, soprattutto in Inghilterra e Galles, per abortire. Nel 2013 sono state 3679, più di 10 ogni giorno.
Questa singolare e drammatica migrazione è dovuta a una delle legislazioni più restrittive d’Europa (pari solo a quelle in vigore a Malta, Andorra, San Marino e in Polonia) e del mondo in tema d’interruzione di gravidanza, soprattutto a causa dell’emendamento che nel 1983 ha dato priorità costituzionale alla “protezione del feto”.
In un rapporto presentato martedì mattina a Dublino, Amnesty International ha ricordato che l’Irlanda consente l’aborto solo quando la vita della donna è a rischio (“effettivo e considerevole”, secondo la legge) e lo vieta in caso di stupro, di danno grave o fatale al feto o di rischio per la salute della donna. Da evidenziare, la distinzione tra “rischio per la salute” e “rischio per la vita”.
Chi ricorre a un aborto illegale, così come chi presta assistenza, rischia fino a 14 anni di carcere.
Il rapporto di Amnesty International contiene testimonianze di persone che hanno abortito all’estero, alcune delle quali hanno avuto un aborto spontaneo ma sono state costrette a tenere per settimane al loro interno un feto morto o senza speranze di vita, nella vana attesa di poter ricevere in patria le cure mediche necessarie.
Róisin, ad esempio, è stata obbligata a tenere al suo interno un feto morto da settimane, poiché i medici volevano essere assolutamente certi che non vi fosse battito cardiaco.
Lupe, costretta a tenere al suo interno un feto privo di battito cardiaco da 14 settimane, è dovuta tornare nel suo paese di origine, la Spagna, per ricevere un trattamento adeguato.
La priorità assegnata alla “protezione del feto” raggiunge livelli di crudeltà assoluti.
Lo scorso dicembre, una donna clinicamente morta è stata tenuta artificialmente in vita per 24 giorni, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto che portava dentro di sé.
A Rebecca H., gravemente ammalata, è stato rifiutato un cesareo per il timore che danneggiasse il feto. È stata costretta a un periodo di doglie di 36 ore in quanto il compito dei medici era, a loro dire, quello di “occuparsi del bambino, che viene prima di tutto”.
Il dottor Peter Boylan, ostetrico, ginecologo ed ex direttore sanitario dell’Ospedale nazionale di maternità irlandese, ha descritto ad Amnesty International le strettoie legali ed etiche in cui il personale medico è costretto a muoversi:
“Sulla base della legge vigente, dobbiamo aspettare che la donna stia abbastanza male prima di poter intervenire. Fino a che punto deve essere prossima alla morte? A questa domanda non c’è risposta”.
La normativa irlandese, inoltre, considera autori di un reato (multa prevista: 4000 sterline) anche i medici e i consulenti che forniscono alle donne informazioni esaurienti sui trattamenti di cui hanno bisogno e su come avere un aborto legale.
Dunque, nell’Irlanda che ha voluto mostrarsi al mondo una nazione aperta e inclusiva in occasione del referendum sui matrimoni omosessuali, un’atmosfera di stigmatizzazione e paura circonda le donne che necessitano di abortire e il personale medico che le assiste e consiglia.
Da oggi, Amnesty International chiederà attraverso petizioni e mobilitazioni ai legislatori irlandesi di rivedere la normativa, cancellando l’emendamento costituzionale del 1983 sulla “protezione del feto”, ampliando i casi in cui sia possibile ricorrere a un aborto legale e sicuro e abrogando le disposizioni che impediscono di fornire consigli e consulenza medica alle donne.Dal 1971, 177.000 donne e ragazze irlandesi o residenti in Irlanda sono state costrette a recarsi all’estero, soprattutto in Inghilterra e Galles, per abortire. Nel 2013 sono state 3679, più di 10 ogni giorno.
Questa singolare e drammatica migrazione è dovuta a una delle legislazioni più restrittive d’Europa (pari solo a quelle in vigore a Malta, Andorra, San Marino e in Polonia) e del mondo in tema d’interruzione di gravidanza, soprattutto a causa dell’emendamento che nel 1983 ha dato priorità costituzionale alla “protezione del feto”.
In un rapporto presentato martedì mattina a Dublino, Amnesty International ha ricordato che l’Irlanda consente l’aborto solo quando la vita della donna è a rischio (“effettivo e considerevole”, secondo la legge) e lo vieta in caso di stupro, di danno grave o fatale al feto o di rischio per la salute della donna. Da evidenziare, la distinzione tra “rischio per la salute” e “rischio per la vita”.
Chi ricorre a un aborto illegale, così come chi presta assistenza, rischia fino a 14 anni di carcere.
Il rapporto di Amnesty International contiene testimonianze di persone che hanno abortito all’estero, alcune delle quali hanno avuto un aborto spontaneo ma sono state costrette a tenere per settimane al loro interno un feto morto o senza speranze di vita, nella vana attesa di poter ricevere in patria le cure mediche necessarie.
Róisin, ad esempio, è stata obbligata a tenere al suo interno un feto morto da settimane, poiché i medici volevano essere assolutamente certi che non vi fosse battito cardiaco.
Lupe, costretta a tenere al suo interno un feto privo di battito cardiaco da 14 settimane, è dovuta tornare nel suo paese di origine, la Spagna, per ricevere un trattamento adeguato.
La priorità assegnata alla “protezione del feto” raggiunge livelli di crudeltà assoluti.
Lo scorso dicembre, una donna clinicamente morta è stata tenuta artificialmente in vita per 24 giorni, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto che portava dentro di sé.
A Rebecca H., gravemente ammalata, è stato rifiutato un cesareo per il timore che danneggiasse il feto. È stata costretta a un periodo di doglie di 36 ore in quanto il compito dei medici era, a loro dire, quello di “occuparsi del bambino, che viene prima di tutto”.
Il dottor Peter Boylan, ostetrico, ginecologo ed ex direttore sanitario dell’Ospedale nazionale di maternità irlandese, ha descritto ad Amnesty International le strettoie legali ed etiche in cui il personale medico è costretto a muoversi:
“Sulla base della legge vigente, dobbiamo aspettare che la donna stia abbastanza male prima di poter intervenire. Fino a che punto deve essere prossima alla morte? A questa domanda non c’è risposta”.
La normativa irlandese, inoltre, considera autori di un reato (multa prevista: 4000 sterline) anche i medici e i consulenti che forniscono alle donne informazioni esaurienti sui trattamenti di cui hanno bisogno e su come avere un aborto legale.
Dunque, nell’Irlanda che ha voluto mostrarsi al mondo una nazione aperta e inclusiva in occasione del referendum sui matrimoni omosessuali, un’atmosfera di stigmatizzazione e paura circonda le donne che necessitano di abortire e il personale medico che le assiste e consiglia.
Da oggi, Amnesty International chiederà attraverso petizioni e mobilitazioni ai legislatori irlandesi di rivedere la normativa, cancellando l’emendamento costituzionale del 1983 sulla “protezione del feto”, ampliando i casi in cui sia possibile ricorrere a un aborto legale e sicuro e abrogando le disposizioni che impediscono di fornire consigli e consulenza medica alle donne.
5 Giugno 2015
Lo scorso 8 Maggio si è tenuto al Billions, discoteca romana, un concorso di bellezza per aggiudicarsi il titolo di studentessa universitaria più bella di Roma ed un premio consistente in un buono da spendere in una clinica estetica. A presenziare alla kermesse, giudicare la bellezza delle ragazze e premiare “la più bella” anche il Rettore di Sapienza Eugenio Gaudio.
La 27ora
04 11 2014
“Un anno di carcere per una partita di pallavolo” si legge sulla pagina Facebook che chiede la liberazione di Ghoncheh Ghavami, venticinquenne con cittadinanza britannica e iraniana arrestata quattro mesi fa a Teheran e appena condannata a trascorrerne altri 12 nel carcere di Evin. L’annuncio, di ieri, ha scatenato condanne e appelli: la famiglia ha lanciato una campagna sui social media, con l’aiuto delle organizzazioni per i diritti umani. Una petizione ha superato le 700 mila firme su Change.org.
“Propaganda contro lo Stato” è l’accusa contro Ghavami (qui sopra con la madre Susan), anche se non è chiaro il reato commesso. Il 20 giugno la laureata della Soas (la scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra), che si trovava a Teheran “per lavorare per un’organizzazione che aiuta i bambini di strada” (dice il fratello Iman), era stata fermata dalla polizia con altre donne mentre cercava di assistere a una partita di pallavolo maschile (Iran-Italia) allo stadio. Il governo ha proibito alle donne l’ingresso agli stadi di calcio dal 1979 e più di recente anche alle partite di pallavolo “per proteggerle dai fan uomini”.
Ghavami era stata rilasciata su cauzione, ma dieci giorni dopo, tornata al commissariato per ritirare alcuni oggetti personali, è stata arrestata di nuovo. “Amnesty” la definisce una “prigioniera di coscienza” e chiede all’Iran di “abolire le leggi che discriminano le donne, anziché punire chi protesta contro di esse”. I funzionari spiegano la detenzione con “ragioni di sicurezza” slegate dalla partita di pallavolo, ma il processo è stato condotto a porte chiuse senza che la famiglia – che vive a Londra ma si è precipitata a Teheran – potesse assistervi.
“Corrono da un ufficio all’altro cercando di ottenere clemenza o il rilascio su cauzione”, racconta il fratello. Ghoncheh avrebbe passato 41 (su 127 giorni) in isolamento e 14 in sciopero della fame. Agli appelli del premier britannico David Cameron, il presidente Rouhani ha risposto che il potere giudiziario è indipendente.
Mentre la comunità internazionale è impegnata in questi giorni a discutere il programma nucleare iraniano, il caso attira nuovamente l’attenzione sui diritti umani nella Repubblica Islamica – dopo la recente esecuzione di Reyhaneh Jabbari per l’omicidio di un uomo che accusava di tentato stupro e dopo il fermo di giornalisti che hanno documentato le proteste per gli attacchi con l’acido contro donne “malvelate” di Isfahan.
Venerdì scorso l’Iran si è sottoposto, come fanno periodicamente tutti gli stati membri, ad un esame davanti al Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Alle critiche, il rappresentante iraniano Mohammad Javad Larijani ha ribattuto che la situazione nel Paese è migliorata e che l’Occidente tenta di “imporre il proprio stile di vita con lo slogan dei diritti umani”.
Il Fatto Quotidiano
29 09 2014
di Monica Lanfranco
Non sarà una vittoria definitiva dei movimenti delle donne e delle opposizioni progressiste, perché la storia ci insegna che sui temi legati alla procreazione difficilmente esistono punti fermi permanenti, ma è di certo una buona notizia quella che arriva dalla Spagna: la pessima riforma della legislazione spagnola sull’interruzione di gravidanza, varata circa un anno fa dal governo Rajoy, è stata ritirata.
Osteggiata persino da settori dello stesso partito del premier (il Partido Popular che pure l’avevano promossa) la riforma è stata annullata, su affermazione dello stesso Rajoy, per ‘mancanza di sufficiente consenso sociale’.
Che dichiarazione interessante: non mi risulta che in Italia, sui temi cosiddetti ‘eticamente sensibili’, (quelli che di solito riguardano le libertà dei corpi, l’autodeterminazione nelle relazioni e nella sessualità) ci sia mai stato un premier che ritira una riforma perché una grande parte della popolazione non ne è convinta, non la gradisce e non è d’accordo con il governo. E’ comunque un atto di riconoscimento della autorevolezza dell’opinione pubblica, che da mesi insiste e motiva la forte avversione verso l’impianto patriarcale e fondamentalista della riforma.
Sarà, come sostenuto dal portavoce della Conferenza Episcopale, José Maria Gil Tamayo, un provvedimento elettorale, ma nei fatti Rajoy ha dimostrato, con il clamoroso gesto, di smarcarsi dalla parte più nera e oltranzista del suo partito, e ha ammesso che senza consenso, dentro e fuori le istituzioni, non è possibile legiferare, a maggior ragione su questo argomento.
Già dal titolo la riforma parlava chiaro: si trattava di una ‘Legge organica di protezione del concepito e dei diritti delle donne in gravidanza’, nella quale quindi al centro non erano le scelte di libertà in materia di procreazione ma la presunta identità del feto e la promozione della maternità ad ogni costo.
Uno degli aspetti che aveva creato più dissenso, anche dentro il mondo cattolico, era la forte limitazione del diritto di interrompere la gravidanza anche in caso di malformazione del feto e di violenza sessuale subita dalla donna, limiti pesanti imposti in ‘difesa dei diritti dei non nati’, come già in precedenza avevamo scritto.
Ora la Spagna, nonostante siano lontani i fasti del primo momento luminoso del governo femminista di Zapatero, è meno al buio rispetto all’autodeterminazione: resta da vedere come reagirà il governo, se si dovessero avverare le minacce di blocco del paese da parte dei movimenti oltranzisti di destra, che hanno affermato di voler manifestare permanentemente davanti alle sedi del Partido Popular contro la decisione di Rajoy. Ma intanto questo brutto capitolo della storia spagnola si è chiuso meglio di come si era aperto, per le donne, per le famiglie e per la civiltà delle relazione tra Stato e scelte individuali in materia di procreazione.