Corriere della Sera
27 12 2014
Due anni di risposte al Questionario di Proust per piccoli
di Paolo Di Stefano
Il Questionario classico di Proust prevede domande quotidiane sui gusti personali, altre talmente ingenue da risultare spiazzanti (chi ha mai pensato al tratto principale del proprio carattere, al giorno più felice della sua vita o a come vorrebbe morire?). Quello che negli ultimi due anni abbiamo sottoposto ai bambini, ricalcando il modello che lo scrittore francese ideò a suo tempo, proponeva interrogativi necessariamente semplici, ma non per questo meno interessanti. A domanda diretta, risposta diretta, ma ciò non esclude i mascheramenti e le dissimulazioni «oneste» tipiche di ogni età. Ne è venuto fuori un repertorio di sentimenti infantili e preadolescenziali sufficiente per un bilancio provvisorio e impressionistico dei desideri, delle preoccupazioni, delle paure, delle preferenze dei ragazzini italiani tra i 6 e i 12 anni. Non un materiale da sottoporre ad analisi socio-psicologiche, per carità, ma segnali sparsi qua e là su cui si possono fare alcune riflessioni: risposte sulle quali si innestano altre domande, all’infinito. Con qualche sorpresa. Come la ricorrenza della risposta alla domanda sui difetti di papà e mamma: «urlano, litigano spesso». C’è davvero tanta litigiosità tra i genitori? Forse non più di quella che c’era un tempo. Ma la differenza più vistosa è che oggi i figli se ne preoccupano davvero. È cambiata la sensibilità dei bambini? Probabilmente le famiglie non hanno mai smesso di bisticciare al loro interno, però mentre per le generazioni precedenti il conflitto poteva essere fastidioso come una routine quasi necessaria, oggi non è più tollerabile, diventa facilmente angoscia. Il proprio difetto? «Irascibilità quando vedo la tv» è la risposta più sincera. Quella più ricorrente è: la sensibilità o la timidezza, che probabilmente sono vissute come sinonimi di debolezza in un mondo in cui bisogna apparire subito forti, quando non prepotenti. Sembra allargarsi la forbice tra la baldanza guascona un po’ bulla e la soggezione dei più fragili. Se molti rispondono che hanno paura del buio o dei ladri, non pochi sono quelli che dichiarano di non aver paura di niente, beati loro. In un caso, la bimba aggiunge tra parentesi: «sono io che faccio paura agli altri». Stupisce che una bambina di 9 anni dichiari di aver pianto l’ultima volta un mese fa: non stupisce invece che i più abbiano ricordi di lacrime meno remote.
Non pensiate che tutti i bambini si prospettino una vita da professionisti, architetti, dottori, avvocati, ingegneri, magari seguendo le orme di papà. Non mancano, certo, le ragazzine che aspirano a fare le «fashion stylist», le attrici o le cantanti, né i maschietti che si vedono astronauti o calciatori, ma c’è anche chi sogna più modestamente una vita da muratore, da gelataio, da giardiniere o da tramviere. Il futuro non è più quello di una volta? Forse. La vita è sogno, ma può trattarsi anche di un sogno contenuto.
La domanda «Che cosa non ti piace della tua città» rivela una diffusa sensibilità ambientalista. Risposte: lo smog e i rifiuti, le sigarette, le cacche dei cani per terra, lo sporco, i marciapiedi sporchi, le strade… Solo uno risponde: «Mi piace tutto», ma abita nel ridente paesino di Montorfano, in provincia di Como, riserva naturale e lago a due passi. Sulle cause della tristezza il repertorio si fa molto ampio: si va, in un potente crescendo, dal non poter giocare, ai rimproveri, alla guerra, al pensiero della morte. Una bella risposta è: «Mi rende triste vedere i miei amici tristi».
Un’altra: «Vedere i bambini piangere». Bisogna comunque ammettere che in genere questi bambini-ragazzini non appaiono per nulla ingenui, nelle loro risposte c’è equilibrio, per non dire, in alcuni casi, una maturità persino eccessiva, ma non tale da far sospettare che al loro posto abbiano risposto i genitori per fare bella figura. I giochi, del resto, sono quelli di sempre: bambole per le femmine, soldati e calcio per i maschi, nascondino, fattoria e lego per molti. Simulatore di volo e altri videogiochi in qualche sparuto (e più sincero?) caso. Fa piacere notare che — a parte le patatine fritte, la coca cola e qualche cheeseburger — tra le pietanze preferite rimangono salde quelle tradizionali. Segno tangibile che in casa, almeno nella cucina, non viene meno la memoria del territorio: ecco la pizza, le lasagne, la polenta, i ravioli, la cotoletta, il risotto… Del resto, tra gli eroi, è vero che trionfano James Bond, Zanetti capitano dell’Inter, Peter Pan, Super Coniglio, Batman, Violetta e Wonder Woman, ma in qualche caso la risposta è: «la mia mamma».
Corriere della Sera
09 11 2014
di Agostino Gramigna
Se gli indicatori economici fanno dire agli esperti che gli Usa vanno più veloci dell’Europa, i dati sui congedi parentali mostrano una tendenza opposta: in quattro anni (2010-2014) la quota delle aziende a stelle e strisce che offrono la possibilità ai papà di assentarsi per occuparsi dei bebè è sceso di cinque punti percentuali (Società per la Gestione delle Risorse Umane).
Paradosso della storia. Almeno a sentire il New York Times, che così sintetizza la questione: fare il «mammo», come si chiama da noi poco bonariamente il papà casalingo, potrebbe penalizzare la carriera dei maschi. Che si troverebbero ad affrontare gli stessi problemi che hanno in molte parti del mondo le donne, quando si assentano dal lavoro alla nascita di un figlio.
Una questione «femminile» al maschile. Il giornale cita il caso di Todd Bedrick, un contabile che s’è preso una lunga pausa dalla Ernst & Young per dedicarsi alla figlia. Ha imparato a cullare, a farla addormentare e ha elaborato un sofisticato congegno per far congelare e scongelare il latte materno di sua moglie. Ma un sociologo, Scott Coltrane, che studia la paternità all’Università dell’Oregon, ammette che ancora qualche pregiudizio c’è sugli uomini che affermano di mettere al primo posto i figli rispetto al lavoro. Perché il caso Bedrick rischia di mutare profondamente la cultura sul posto di lavoro.
La famiglia del contabile della Ernst & Young ne ha tratto beneficio, sua moglie Sara guadagna di più e ha meno possibilità di entrare in depressione nei nove mesi dopo il parto. Il problema, secondo recenti opinioni di sociologi americani, è che con le donne capofamiglia soddisfatte, i maschi cominciano a preoccuparsi degli effetti che il congedo di paternità potrebbe avere sulle loro carriere.
Una situazione simile, per certi aspetti, a quella italiana, dove la sfida non è solo convincere i datori di lavoro ad offrire il congedo, ma gli uomini a prenderlo. Le statistiche mostrano che sono ancora basse le percentuali dei maschi che accedono al congedo parentale. Per l’Istat solo il 7 % dei padri vi fa ricorso. L’Inps grosso modo fotografa lo stesso: l’88% dei congedi facoltativi è appannaggio delle donne.
Per Paola Profeta, professoressa di Scienze delle finanza all’Università Bocconi, la situazione è destinata a restare così, anche in futuro, in assenza di una vera svolta culturale. «Lo squilibrio è tutto a sfavore delle donne che hanno stipendi mediamente inferiori a quelli dei loro mariti. Con una retribuzione al trenta per cento in caso di congedo si fa presto a fare due calcoli in famiglia e optare per far restare a casa la donna».
Per la professoressa bocconiana la strada da seguire è quella dei Paesi scandinavi: «In Svezia o in Norvegia si arriva fino a un mese di congedo obbligatorio retribuito per i maschi. Solo così è stato possibile ridurre lo sbilanciamento dei ruoli che in Italia assegna prevalentemente alle donne la cura dei bambini. Se tutti i maschi avessero gli stessi diritti si attenuerebbe anche l’effetto americano: la rinuncia per paura di limitare la carriera».
I dati Eurostat dicono che in Italia la spesa per congedi è pari allo 0,2% del Pil. In Svezia siamo allo 0,8%. Anche se rientriamo tra i Paese più generosi quanto a soldi per maternità.
Tuttavia i numeri non dicono tutto. Almeno per Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale all’Università di Bergamo che alla paternità ha dedicato un libro. Riconosce che ancora i numeri sono bassi. Ma dopo aver condotto un’indagine sociologica sul campo s’è convinto che in Italia ci sia voglia di paternità. Che la svolta culturale sia già in atto. Soprattutto nell’Italia Centro-settentrionale.
«Molti maschi vorrebbero passare più tempo con i loro figli, ripensare in modo diverso la loro presenza nella famiglia. Soprattutto nel campo dell’associazionismo dove maggiore è la possibilità di aiuto reciproco tra padre e madre. Il problema si scontra con un mercato del lavoro estremamente competitivo, deregolamentato e poco organizzato per favorire i papà». In attesa di riforme, il Maschio italiano può sempre apprendere da Bedrick: che cerca di tornare a casa presto per fare il bagno alla figlia.