la Repubblica
12 06 2015
Marassi sarà anche “una scatola di vetro”, come assicura il direttore Salvatore Mazzeo, ma all’interno del carcere genovese è accaduto qualcosa che fa tornare alla memoria il G8 e la morte di Stefano Cucchi a Regina Coeli. Per due ragioni: il pestaggio di un detenuto da parte di una guardia; il coinvolgimento di un medico coinvolto nelle torture di Bolzaneto.
La prima ragione: il pestaggio di Ferdinando B., detenuto di 36 anni, a quanto pare manganellato da un agente. Da Dario Pinchiera, di 30 anni, indagato per lesioni e ieri sospeso per un anno dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. La seconda ragione: uno dei 5 medici della Asl-Tre indagati per "omissioni" (non avrebbero refertato il detenuto) e "favoreggiamento", si chiama Marilena Zaccardi, nota per essere stata processata per le torture a Bolzaneto. I reati sono andati in prescrizione, ma ritenuta responsabile in sede civile. Su lei rimane l'immagine della "condanna", tanto che all'epoca l'Ordine dei Medici la sospese per 2 mesi. Ciò nonostante, due mesi fa la Asl l'ha indicata come relatrice in un convegno sulla salute nelle carceri.
La vicenda di Marassi, sulla quale è aperta un'inchiesta da parte del pm Giuseppe Longo, ieri ha avuto una svolta: la notifica di 10 avvisi di garanzia ai 5 medici della Struttura di Medicina Penitenziaria. Oltre a Zaccardi figurano i colleghi: Ilias Zannis, Giuseppe Papatola, Silvano Bertirotti e Silvia Oldrati. Più altri 3 medici. Più un paio di guardie carcerarie. Va detto che a ciascuno sono addossate responsabilità diverse, e le iscrizioni servono a chiarire le posizioni, anche a tutela. Oldrati, infatti, è la psichiatra che il 14 aprile scorso durante la visita alla quarta sezione del carcere, ha visto il detenuto (per reati di droga) tumefatto, lo ha medicato e lo ha segnalato "con lesioni sospette" al medico responsabile, Bertirotti.
Cosa è accaduto il giorno prima, in parte è da ricostruire. Sembra, però, che il carcerato sia stato massacrato da Pinchiera. Il condizionale è d'obbligo. Quest'ultimo, infatti, avrebbe riferito al suo comandante, Massimo Di Bisceglie, che prima sarebbe stato aggredito dal detenuto, si sarebbe difeso e ci sarebbe stata una colluttazione; il recluso sarebbe scivolato, avrebbe avuto la peggio. All'aggressione non avrebbe assistito nessuno e la zona in cui si è verificata, non è coperta da telecamere.
Il direttore Salvatore Mazzeo ha segnalato la vicenda alla Procura della Repubblica ed al Provveditore alle Carceri, Carmelo Cantone. E tempestivamente ha "invitato" la guardia carceraria a mettersi in ferie forzate. Dichiarando a Repubblica: "Chi ha sbagliato deve pagare, non facciamo sconti a nessuno; i manganelli si usano soltanto se autorizzati dal direttore o dal comandante delle guardie. Solo in caso di rivolta".
Giuseppe Filetto
Il Fatto Quotidiano
10 04 2015
“Causa patrocinio non bona peior erit” ammoniva Ovidio. Una cattiva causa peggiora se la si difende. È la regola che da anni ormai impera nella vicenda Aldrovandi. Grazie all’inconsapevole Giovanardi si venne a sapere dopo mesi dalla morte di Federico che sul suo corpo vennero rotti due manganelli. Grazie a un avvocato difensore si venne a scoprire a processo iniziato dei brogliacci della questura rimaneggiati. Ora, grazie al Sap, si ha ulteriore certezza del comportamento oltre i limiti del protocollo.
Esattamente la prova provata che il segretario Tonelli ha sbandierato in conferenza stampa per chiedere la revisione del processo incastra in realtà gli agenti.
Il video, pubblicato sul canale Youtube del sindacato di polizia, mostra le corrette tecniche di ammanettamento pretese dal ministero. Il filmato illustra passo dopo passo come un agente (in questo “un” ha valore anche numerico, visto che nel caso Aldrovandi ne avevamo quattro di poliziotti) che a mani nude mette le manette ai polsi di un renitente.
Le raccomandazioni sono specifiche: “L’operatore effettuerà l’approccio inizialmente andando in presa con la propria mano debole sul polso del perquisendo. Con la mano forte impugnerà il gomito spingendo verso il basso, con un ginocchio sulla zona scapolo-omerale e un altro sul gran dorsale avrà definitivamente il controllo sul braccio del perquisendo. […] Data la particolare posizione l’operatore non dovrà mai gravare sul corpo del perquisendo. [….] Terminata la perquisizione l’operatore dovrà iniziare l’operazione di accompagnamento. Porterà in posizione supina il perquisendo”.
Una tecnica che, se pedissequamente osservata, avrebbe forse salvato la vita di Federico. Sul suo corpo infatti – secondo la testimonianza chiave di Anne Marie Tsegue – gravavano tre agenti (due sul dorso, una sulle gambe), che continuavano a picchiarlo con i manganelli. Il quarto faceva la spola tra l’auto di pattuglia e il ragazzo, per colpirlo con calci alla testa. Una volta ammanettato e reso impotente, i poliziotti hanno continuato a tenerlo fermo senza permettergli di mettersi supino o seduto per respirare.
Non sono congetture. Basta leggere la sentenza di primo grado (pag. 333): “Per Pontani e gli altri, con valutazione fuori da ogni criterio, di senso comune, logico, giuridico e umanitario, il soggetto era pericoloso pure nelle condizioni di ammanettamento a terra, tanto da averlo mantenuto nella condizione compressa (il “massimo di compressione possibile” dirà in seguito il giudice) per svariati minuti anche dopo che aveva smesso di muoversi”.
Ancor più netta la censura della Corte di Appello. A pag. 30 leggiamo come “l’idea che Aldrovandi potesse ancora divincolarsi alla presa dalla posizione prona e ammanettato in cui è stato posto, come sottolineano gli agenti nell’annotazione, è piuttosto singolare. In ogni caso per il giudice essa rende l’idea di un’immobilizzazione prolungata con il peso del corpo degli agenti”.
Eppure “il soggetto ammanettato non può più considerarsi pericoloso; deve essere subito rivoltato e posto in posizione supina; deve essere quindi aiutato a rialzarsi”. Sono sempre le parole dei giudici di secondo grado (pag. 89), che sposano le avvertenze del video mostrato da Tonelli. E invece i quattro poliziotti, oltre a “non avere interrotto l’azione nel momento in cui era apparso chiaro si stava trasformando in un autentico pestaggio”, hanno esercitato “violente pressioni sul tronco e sul dorso, anche con l’applicazione del peso di uno o più agenti, creando quel rischio di asfissia meccanica e posizionale, che costituisce il pericolo che deve assolutamente essere evitato in interventi del genere, innescando in tal modo il meccanismo causale della morte descritto in precedenza” (pag. 91).
I difensori degli agenti dibattono ancora sul fatto che ai condannati non sia mai stato indicato un approccio alternativo da seguire, tale da contraddire quello messo in atto quel 25 settembre 2005 a Ferrara. Eccolo qua: “Non è ipotizzabile che Aldrovandi, ammanettato, in posizione prona, col viso schiacciato a terra, sanguinante dalla bocca e dal naso, compresso dagli agenti, potesse costituire una seria e credibile minaccia, un pericolo, dovendosi invece ritenere che la situazione, così come sopra evidenziata, avrebbe imposto che egli, reduce da una lunga lotta (“l’abbiamo bastonato di brutto per mezzora…” confessa un poliziotto alla centrale, ndr), fosse rimesso in posizione seduta o quantomeno su un fianco o supina, se non in piedi, per potere respirare liberamente e agevolmente senza costrizioni” (pag. 224).
Proprio come nel video che illustra la corrette tecniche di ammanettamento.
Marco Zavagli