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Il piano per colpire la Grande Moschea indica che il califfato punta al cuore dell'Islam

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Attentato a La MeccaUmberto De Giovannangeli, Huffington Post
24 giugno 2017

Stavolta non conta il numero delle vittime. La potenza simbolica dell'atto terroristico va oltre l'impatto mediatico e la stessa sfida mortale lanciata contro la dinastia Saud. Mai, fino a ieri, uno "shahid" era entrato in azione in quello che è il primo luogo sacro per 1 miliardo e 800 milioni di musulmani: la Grande Moschea della Mecca.

Le autorità saudite hanno annunciato di aver sventato un'"azione terroristica imminente" che aveva come obiettivo la Grande Moschea della Mecca.

In un comunicato del ministro dell'Interno si afferma che un uomo che progettava di attaccare la moschea si è fatto esplodere quando le forze di sicurezza hanno circondato la casa alla Mecca dove si era nascosto. Almeno 11 persone, tra cui cinque agenti di polizia, sono rimasti feriti nel crollo dell'edificio a tre piani dove l'uomo si era barricato. Cinque persone, tra cui una donna, sono state arrestate.

Lo riferisce il sito internet della televisione degli Emirati Al Arabiya citando Mansour al-Turki, il portavoce del ministro degli Interni saudita. Sempre secondo il ministero l'attacco alla moschea era stato progettato da tre gruppi terroristici, due con base alla Mecca e un terzo a Gedda.

Sin qui la notizia. Scarna, perché nel Regno Saud l'informazione libera non è di casa. Ma il significato dell'attacco e la probabile matrice jihadista rappresenta un'escalation nella guerra intersunnita che rischia di far esplodere il Golfo Persico e l'intero Medio Oriente. In questo scenario, l'Isis prova a dar seguito al disegno che era stato del saudita fondatore di al-Qaeda: Osama bin Laden.

Lo "sceicco del terrore" evocava, e praticava con i suoi "shahid" (martiri), la Jihad globale, che ha avuto nell'11 Settembre il suo punto tragicamente più alto, ma il sogno vero di Osama era quello di portare il "califfato" nella terra del wahabismo, quell'Arabia Saudita che ospita e si fa garante dei due più importanti luoghi sacri dell'Islam: Mecca e Medina.

Colpire alla Mecca vuol dire, al di là della dimensione dell'attacco, dare dimostrazione di potenza e riaffermare che il "califfato" punta decisamente al cuore dell'Islam. In questo attacco c''è un messaggio rivolto a Riad: siamo noi i veri salafiti, i degni eredi e cultori del wahhabismo. Siamo noi quelli capaci di portare fino in fondo il disegno di realizzare l'"umma", la comunità musulmana, per al-Baghdadi a dominazione sunnita, che travalica i confini, spazzandoli via, degli Stati inventati dal colonialismo occidentale. I vecchi padrini appartengono al passato: l'Arabia Saudita è terra di conquista per il Califfato islamico.

Un passo indietro, neanche lungo, nel tempo. Due giugno 2017: Almeno due persone sono rimaste uccise a Qatif, nella regione a maggioranza sciita nell'est dell'Arabia Saudita, nell'esplosione che ha distrutto un'auto lungo una delle vie della città. A riferirlo è al-Arabiya, dopo le prime notizie che parlavano di un attacco con autobomba: due i morti. Che le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi siano in rotta, ma non ancora alla resa, a Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria), le capitali dell'autoproclamato Stato islamico, è cosa nota.

Ma a questi rovesci sul campo, Daesh 2.0 ha risposto modificano la sua strategia del terrore: da un lato, colpendo in Europa con sempre maggiore frequenza, e dall'altro, puntando decisamente alla leadership del variegato arcipelago jihadista con attentati dalla fortissima valenza simbolica: la Grande Moschea della Mecca, per l'appunto, ma non molto tempo prima, al Mausoleo di Khomeini a Teheran.

Il legame è evidente: dimostrare al mondo sunnita che l'unico capace di colpire al cuore il Paese-guida del mondo sciita, l'Iran, è l'Isis. Per l'ideologia salafita jihadista, che l'Isis ha portato alle estreme conseguenze, l'Iran è il nemico numero uno all'interno del mondo islamico. I "rafidi", come vengono spregiativamente definiti, sono considerati "politeisti" per il culto degli imam e dei santi, la massima degenerazione dell'islam, più disprezzabile persino delle altre fedi monoteiste, cristianesimo ed ebraismo.

Al di là dei sogni di "Califfato mondiale", il primo obiettivo strategico dell'Isis - questo sì realistico - è spezzare "l'arco sciita" che cerca di unire in continuità territoriale Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut. Dopo il duplice attentato di Teheran (al Mausoleo di Khomeini e al Parlamento, con 13 morti e 39 feriti), le autorità iraniane più che contro l'Isis si sono scagliate contro l'Arabia Saudita: geopolitica, interessi, economici e religione. Il fattore economico, anzitutto.

Ha ragione il direttore di "Limes", Lucio Caracciolo, a rimarcare come la centralità del Golfo derivi dal suo tesoro energetico e finanziario, oltre che dal patrimonio religioso (Mecca, Gerusalemme, Najaf, per citare tre luoghi di irradiamento delle fedi monoteistiche). Il baricentro geo-energetico del pianeta starà pure slittando verso le Americhe, l'Africa e l'Asia, ma, annota ancora Caracciolo, i Paesi del Golfo detengono ancora il 48 per cento delle risorse globali provate di petrolio e il 43 per cento di quelle di gas.

Quanto alla finanza, nelle casseforti dei petromonarchi galleggiano imponenti ricchezze di matrice energetica, da cui economie occidentali in drammatico affanno non possono prescindere. Soldi pesanti per la City e per Wall Street. E non c'è niente di più esplosivo di una guerra economica e geopolitica che si alimenta del fattore religioso. "Ovviamente – annota in proposito Olivier Roy nel suo libro 'Generazione Isis' – entrambi i Paesi forniscono una lettura religiosa del conflitto.

Per l'Arabia Saudita è una lotta contro l'eresia e, di conseguenza, la promozione del salafismo viene considerata parte integrante della politica estera del regno. Per l'Iran, una volta abbandonato il sogno di sollevare le 'piazze arabe' contro i regimi conservatori, l'obiettivo è quello di federare gli sciiti e altri gruppi assimilabili (alawiti, zayditi) per erigersi ad arbitro dei conflitti regionali. Si tratta, quindi, di un conflitto interno al Medio Oriente che oppone musulmani contro altri musulmani...".

D'altro canto, le infiltrazioni jihadiste erano state preannunciate già alcuni anni fa dal "Califfo" che considera il regno saudita una "tana di impostori" e non cela il desiderio di rovesciare la monarchia per impossessarsi dei luoghi santi dell'Islam, Medina e la Mecca. Risale infatti al novembre 2014 la dichiarazione di al- Baghdadi di voler fare delle capitali saudita e yemenita due "wilayat" (province) del suo Califfato.

Resta il fatto che oggi la dinastia Saud paga la sua lunga, attiva, ambiguità nei confronti dell'Isis. Una "doppiezza saudita" che sembra franare di fronte alla sfida dell'Isis. Una sfida mortale, rivolta più che all'ottuagenerario e malato re Salman, al suo giovane successore designato, l'ambizioso e determinato Mohammed bin Salman.

Resta valido, e sempre più attuale, quanto rimarcato da Kamel Daoud, in un suo articolo sul New York Times del 25 novembre 2015: "L'Arabia Saudita, sorta di Is bianco, resta un alleato dell'occidente nel gioco delle alleanze mediorientali. Viene preferita all'Iran, un Is grigio. Ma si tratta di una trappola che, attraverso la negazione, produce un equilibrio illusorio: il jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non ci si concentra su ciò che lo ha creato e lo sostiene.

Questo permette di salvare la faccia, ma non le vite umane". Considerazioni che cozzano contro la visione e la politica del presidente Usa Donald Trump che, nel recente summit di Riad, ha "benedetto" il fronte sunnita a guida Saud contro il Qatar, ritenuto filo-jihadisti e, soprattutto, troppo legato all'Iran.

Ultima modifica il Lunedì, 26 Giugno 2017 07:31
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