La quale proprio dai fianchi del Trebevic, dopo l’abbattimento della vecchia funivia usata per le Olimpiadi invernali, fu incessantemente cannoneggiata negli anni Novanta durante i 1427 interminabili e sanguinosi giorni d’assedio della guerra civile.
Fu un simbolo prima luminoso e poi tragico, quel vecchio impianto voluto nel ‘59 per portare i passeggeri dalla capitale della Bosnia, adagiata in una conca a 500 metri sul mare fino a Trebevic che sta a 1.627 metri. Dodici minuti appesi ai cavi d’acciaio e gli abitanti di Sarajevo erano lì, per fresche passeggiate d’estate e per godersi la neve d’inverno.
Quando nel 1984 fecero le Olimpiadi invernali quel collegamento sembrò la prova di come i bosniaci della città e i serbi della montagna di sopra potessero vivere accanto. Otto anni dopo, occupate le strutture olimpiche, demoliti i primi piloni della funivia, ammazzato Ramo Biber, un operaio che lavorava agli impianti e aveva tentato di fuggire, i serbi prendevano possesso delle postazioni. Per iniziare a bombardare Sarajevo, sdraiata indifesa lì sotto.
Bombardamenti incessanti. Per settimane, mesi, anni… Trecento granate al giorno. Fino a fare dodicimila morti e devastare la capitale intera, grande biblioteca inclusa. «Sopra la testa senti un sibilo, passa qualche istante e poi laggiù, da qualche parte in città, si scaraventa il boato — scrive Paolo Rumiz nel libro Maschere per un massacro —. Se il fuoco è lento, pigro, è la casa di qualche poveraccio. Se prende la forma di una grossa sfera bluastra, allora è qualche ben arredato loft rivestito di legno.
Se invece divampa lungo e costante, allora a bruciare è la casa piena di mobili in legno massiccio di qualche ricco della Carsija. Ma se le fiamme si levano repentine, selvagge e dissolute come i capelli di Farrah Fawcett per poi svanire più repentine ancora, lasciando al vento sfoglie di cenere planante sopra la città, tu sai che poco prima è andata a fuoco una qualche biblioteca privata. E poiché in tanti mesi di bombardamenti ne hai viste tante di quelle torce giocose, pensi davvero che un tempo Sarajevo si erigeva sui libri».
I bambini muoiono usando gli attimi di pausa per giocare. Il nostro Renzo Cianfanelli ne descrive alcuni dopo una nevicata, tra i crateri aperti dalle bombe: «Sulla slitta c’è un foglio giallo scritto a mano protetto dalla plastica, che parla di una certa Amira e sopra c’è legato un mazzetto rosso di garofani. (…) Esattamente qui una bomba da mortaio è cascata dal cielo in verticale come un sasso, con quel suo scoppio improvviso ha dilaniato sei bambini».
Edmond Offermann e Maja Serdarev, lui olandese di Utrecht, lei bosniaca di Sarajevo, seguono l’assedio con angoscia. Si sono conosciuti e innamorati all’università dell’Illinois, si sono laureati in fisica nucleare, hanno lavorato insieme in America e a Magonza e assistono alla mattanza con gli occhi di chi sa che sotto le bombe ci sono i suoi parenti, i suoi amici, i suoi colleghi.
Per mille volte, davanti alle immagini delle duemila bocche da fuoco che sparano dall’alto, Edmond e Maja sono colti dal rimpianto per l’unica volta in cui erano riusciti a salire sulla vecchia cabinovia: «Me la ricordo come se fosse oggi quella gita con Maja. Rimasi affascinato dalla montagna, dalla vista sulla città». Era la primavera del ‘91. «L’anno dopo, nell’aprile del ’92, mentre eravamo assieme nel Grand Canyon, venimmo a sapere quasi casualmente che l’assedio di Sarajevo aveva avuto inizio». Come potevano immaginare che l’incubo sarebbe durato quattro anni?
E per anni Edmond Offermann, dopo aver cambiato vita per avventurarsi a Wall Street col fondo investimenti Renaissance Technologies ed esser diventato molto ricco, dice di avere coltivato un sogno: «Ricostruire dopo tanto odio e tanti lutti quella funivia che univa la città alla montagna, la comunità bosniaca a quella serba». Prima, come ha scritto Mauro Manzin sul Piccolo, ci ha provato nel 2011 spingendo gli svizzeri a donare a Sarajevo una cabinovia dismessa.
Poi, fallito quel progetto («Ci scontrammo contro un muro di burocrazia ottusa ») è tornato alla carica aprendo un fondo presso la Fondazione Re Baldovino, belga ma con una sede negli States, e raccogliendo donazioni. Finché, col sostegno ancora della Svizzera, si è ripresentato al giovane sindaco della capitale bosniaca, Abdulah Skaka: «Ho ribadito che avrei donato quattro milioni di dollari, a condizione che stavolta le cose venissero fatte nel modo giusto».
E stavolta il progetto, che costerà nove milioni dei quali quasi la metà messi da Offermann, è partito davvero. Ed è stato affidato per la costruzione (33 cabine da 10 posti dipinte coi colori olimpici, 8 minuti di viaggio) a una società italiana. La sudtirolese «Leitner ropeways» di Vipiteno. Che coi suoi 12mila impianti a fune è la leader mondiale e, oltre ad aver fornito funivie agli sciatori di tutto il pianeta, ha conquistato molte delle più importanti metropoli. Non solo New York dove tra i grattacieli scorre la Roosevelt Island Tramway, resa celebre anche da Spiderman, ma Hong Kong, Sydney, Tokyo, Barcellona, Berlino…
Gioielli di tecnologia sudtirolese e italiana. Ma la funivia che tornerà a collegare Sarajevo al monte Trebevic grazie alla perseveranza di un uomo e una donna che si vogliono bene sarà la più importante di tutte. Perché potrà aiutare gli uomini di buona volontà coinvolti in quella guerra fratricida, quelli che bombardavano e quelli che venivano bombardati, a sanare insieme le ferite.