Osservatorio Balcani e Caucaso
29 09 2015
La Turchia accoglie attualmente più di due milioni di profughi siriani ma non concede loro lo status di rifugiati. Questo e la dura vita che conducono li spinge a tentare la strada verso l'Europa
È durata dieci giorni l’odissea dei profughi siriani che, dalla frontiera turca, hanno tentato senza successo di passare in Grecia. Gli ultimi, circa cinquecento persone rimaste ad Edirne, nel palazzetto dello sport asseganto loro dal prefetto della città, hanno lasciato la città tracia giovedì mattina. I più tenaci hanno opposto resistenza qualche ora in più alle forze dell’ordine che li volevano sui pulmini pronti a partire, e sono stati condotti nel centro di espulsione di Edirne. Di quelli che hanno accettato di andare via spontaneamente, una parte è tornata nelle località di provenienza, altri si sono diretti verso la costa egea, dove ogni giorno decine di profughi tentano di raggiungere le isole greche via mare, rischiando la vita.
Speranze via terra
È stata proprio l'accresciuta consapevolezza del pericolo della traversata via mare a portare i migranti a intraprendere una nuova rotta verso l’Europa. Un pericolo di cui l’immagine del piccolo corpo di Aylan Kurdî di Kobane, gettato sulla spiaggia dalle onde nelle vicinanze della località turistica turca di Bodrum, lo scorso agosto, è diventato un simbolo a livello mondiale. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), sarebbero almeno 224 le persone che hanno perso la vita dall'inizio del 2015 tentando di attraversare l’Egeo. Lo scorso 20 settembre, un'altra imbarcazione di fortuna è affondata al largo dei Dardanelli, causando la morte di 13 adulti e di un bambino.
La rete openeurope
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Ma a incoraggiare i profughi a tentare la “via di terra” sono state anche le recenti dichiarazioni del governo tedesco, che si è detto disponibile ad accogliere diverse centinaia di migliaia di profughi. Lunedì 14 settembre, col passaparola diffuso tramite i social media, centinaia di profughi hanno cominciato ad affluire ad Edirne, nella Tracia turca, con l’obiettivo di passare in Europa. Molti sono arrivati in città con i pullman, altri a piedi, attraverso l’autostrada, altri ancora sono rimasti bloccati alla stazione dei pullman Bayrampaşa di Istanbul.
Le autorità turche hanno ingiunto alle società di trasporto di non vendere biglietti ai siriani. E nell’ultima settimana, i profughi che hanno tentato di resistere alle pressioni avviando anche uno sciopero della fame, sono stati gradualmente “convinti” a lasciare gli accampamenti. Ma a chiudere definitivamente la porta alle speranze dei profughi di Edirne, sembra essere stata la decisione finale del Consiglio europeo di ridistribuire i 120mila migranti già presenti sul territorio europeo, che ha di conseguenza sbarrato la strada ai nuovi arrivi.
Tornare alla “vita normale”
Venerdì scorso, anche il premier Ahmet Davutoğlu, che aveva ricevuto i rappresentanti dei gruppi di siriani in attesa a Istanbul e ad Edirne, li aveva esortati a “tornare alla vita normale”. Ma forse è proprio a causa della “vita normale” condotta dai siriani in Turchia che moltissimi cercano di arrivare in Europa. Una vita dove l’integrazione effettiva nella società risulta limitata per vari motivi, primo fra tutti per il fatto che Ankara non riconosce ai profughi lo status di rifugiato.
Negli ultimi quattro anni Ankara ha accolto oltre due milioni e 200mila profughi, destinando loro una spesa di oltre 6 miliardi di dollari ed allestendo 24 campi di accoglienza in dieci province al confine con la Siria. Tuttavia, i profughi (non solo quelli siriani, ma tutti quelli che arrivano dall’Est), per via della riserva geografica posta dalla Turchia alla Convenzione di Ginevra del 1951 - di cui Ankara è firmataria - non possono vedersi riconoscere lo status di rifugiato, ma vengono invece definiti “ospiti”. Si tratta quindi di persone che, secondo una normativa del 2014, si trovano sotto “protezione temporanea”.
Come sottolineano studi recenti sulla questione, la “protezione temporanea” permette ai profughi di avere accesso ai servizi sanitari, all’istruzione e agli aiuti sociali, ma non un permesso di soggiorno valido a tutti gli effetti. “La legislazione attuale affronta la questione dei siriani come un problema transitorio e non mira ad adottare un approccio basato sul riconoscimento dei diritti”, afferma la studiosa Zümray Kutlu.
Diritti (solo) sulla carta
Spesso è anche il groviglio burocratico a impedire agli “ospiti siriani” di accedere ai servizi offerti loro dalle autorità, e non ultimo l’ostacolo linguistico. A parte i circa 250mila profughi insediati nei campi, che godono in maniera diretta delle agevolazioni dello stato, circa 2 milioni di siriani devono organizzare la propria vita autonomamente. Dal lavoro all’istruzione, fino ad arrivare alla sanità alcuni diritti concessi nella teoria, non sembrano trovare però un riscontro nella realtà.
La normativa attuale non agevola l’inserimento dei siriani nel mondo del lavoro. Ottenere un permesso di lavoro, possibile a livello teorico per i profughi regolarmente iscritti al database del governo e solo per alcuni ambiti lavorativi stabiliti dal Consiglio dei ministri, nella vita reale risulta quasi impossibile. La conseguenza è che molti siriani sono costretti a lavorare in nero, sfruttati e con paghe che risultano ridotte fino all’80% rispetto a quanto percepito da un cittadino turco per lo stesso tipo di attività. E si tratta di una situazione che coinvolge anche i minori.
L’istruzione dei bambini siriani è un altro problema importante. Diversi studi indicano per i bambini che vivono fuori dai campi un tasso di scolarizzazione che si attesta tra il 14% e il 17%. E anche per l’accesso alla sanità, anche se i servizi di base sono garantiti e gratuiti per i cittadini siriani registrati nella banca dati governativa, gli stessi profughi denunciano che l’approccio dei singoli ospedali tende ad essere variabile e soggettivo.
“Nessuno è più sicuro in Siria”
E mentre nelle città altamente popolate come Istanbul l’integrazione risulta più facile, nei centri più piccoli si registrano fenomeni di intolleranza. I siriani vengono ritenuti responsabili per l’aumento dei prezzi degli affitti e della penuria di lavoro – visto che accettano di lavorare per meno. “I siriani non vogliono prendere gli autobus e parlare in arabo per paura di esporsi”, spiega Şenay Özden, attivista e ricercatrice sul campo che fino a pochi giorni fa si trovava nel quartiere Basmane di Izmir, altra località centrale per le partenze dei profughi verso la Grecia.
“Una novità che ho notato”, ha spiegato la studiosa in un’intervista ad Açık Radyo riguardo ai profughi che si trovano in quell’area, “è che molti siriani – ma ci sono anche numerosi pachistani, iracheni, egiziani, etiopi e altri ancora – risultano giunti da poco in Turchia, e da regioni come Damasco o dalle zone costiere che si trovano sotto il controllo del regime siriano. Quindi non fuggono perché si trovano sotto la sua minaccia. Molti sono dipendenti statali e hanno lasciato il posto fisso per venire qui. Questo dimostra che oramai nessuno di sente al sicuro in Siria”, ha aggiunto.
Mentre il numero dei profughi presenti in Turchia sembra ancora destinato a crescere la Commissione europea ha annunciato lo stanziamento di fondi destinati ad Ankara per facilitare l’accoglienza dei profughi al di fuori dai confini dell’UE. L’intenzione, anche alla luce dell’Accordo di riammissione siglato nel 2013 tra Ankara e Bruxelles (dal quale la Turchia si aspetta in cambio la libera circolazione dei propri cittadini in Europa), sarebbe quella di far sì che i profughi restino all’interno del territorio turco, utilizzato come una sorta di “zona cuscinetto”. Ma quanto queste misure potranno servire ad aiutare i profughi che vivono fuori dai campi ad integrarsi nella società turca, resta l’interrogativo più grande.
Melting Pot
28 09 2015
A Bapska, una dei paesi al confine tra Croazia e Serbia, la situazione era fino a ieri sera congestionata. E’ vietato l’accesso ai giornalisti, e solo Croce Rossa, UNHCR e volontari possono avvicinarsi alla frontiera.
Al nostro arrivo, alle prime ore del pomeriggio, già un migliaio di persone sono bloccate in mezzo alla strada, sotto il sole; davanti la polizia croata in assetto antisommossa, dietro il confine Serbo appena attraversato. Si attende che arrivino gli autobus per portarli a Opatovac o a Beli Monastir, a seconda della disponibilità nei due campi.
Nonostante gli sforzi dei presenti, è molto difficile riuscire a fornire assistenza a tutti, e sono molte le persone colpite da malori per via del caldo, o con ferite dovute al viaggio che vengono ricoverate in una tenda improvvisata da Medici senza Frontiere. Col calare del sole la fila si ingrossa notevolmente e iniziano a partire i primi gruppi di persone. Il mattino seguente, la frontiera viene chiusa e il flusso di migranti viene deviato verso Tovarnik.
Ci giunge voce che nella giornata di mercoledì 23 Settembre al campo di Opatovac c’è stata parecchia tensione. Ci rechiamo al campo e conosciamo degli attivisti tedeschi che hanno allestito una cucina. “La Croce Rossa continua a ripeterci che dobbiamo smontare la cucina e andarcene, perché non siamo volontari ma attivisti”. Nonostante la resistenza delle organizzazioni governative, riescono ad accedere al campo, fino ad ora totalmente “off limits” e ci chiedono di andare con loro.
Il campo è un lager. La zona è divisa da terrapieni sorvegliati a vista dalla polizia. I tendoni - dormitori sono in realtà vuoti e le persone dormono per terra, in mezzo all’immondizia. Al nostro arrivo veniamo letteralmente assaltati da bambini in cerca di cibo. Uno dei ragazzi tedeschi ci racconta che il giorno prima, la polizia ha caricato la ressa di gente che si era ammassata a ridosso dell’ingresso degli autobus, e che sono stati i volontari stessi ad aiutare i feriti, perché a causa delle molte troupe televisive presenti all’esterno, la Croce Rossa non voleva che si capisse quello che stava accadendo. A seguito di ciò i migranti hanno inscenato una protesta all’interno del campo chiedendo libertà di movimento e condizioni dignitose.
La staffetta continua, perché crediamo sia fondamentale portare aiuti e testimoniare ciò che sta accadendo anche quando vorrebbero impedircelo.
Staffetta #overthefortress, 23 settembre 2015
Il grande colibrì
28 09 2015
I terroristi del gruppo Stato islamico (ISIS)? "Tutto quello che hanno fatto è stato pubblicizzare quello che tutti gli altri già facevano prima. Anche se in modo meno brutale, gli omosessuali venivano già uccisi. Conosco personalmente almeno due persone uccise dall'Esercito siriano libero [gli oppositori al presidente-dittatore Bashar Al-Assad; NdR], dal Fronte Al-Nusra [la componente integralista dell'opposizione; NdR], anche se loro non ne hanno mai parlato: non volevano i riflettori su questi fatti, mentre l'ISIS li vuole". Subhi Nahas, il ragazzo gay che il 24 agosto ha testimoniato sui crimini omofobici nella guerra in Siria davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, sintetizza bene la situazione del proprio paese in un'intervista a out.com. Una situazione tragica, in cui è difficile prendere decisioni responsabili a tutti i livelli, compreso quello dell'informazione.
Così, alla conta di circa trenta (presunti) omosessuali che secondo l'ONU sarebbero stati uccisi dall'organizzazione Stato islamico, negli ultimi giorni abbiamo dovuto aggiungere altre dieci persone, tra le quali un ragazzino di appena 15 anni, ammazzato dopo un anno di prigionia. Ben consapevoli di come certe informazioni vengano diffuse da Stato islamico con un ricco corredo di fotografie e video a fini puramente propagandistici [ilgrandecolibri.com], riportiamo la notizia arrivata dell'Osservatorio siriano sui diritti umani senza alcun link verso siti che hanno scelto di pubblicare questo tipo di immagini.
Come ha ricordato Jessica Stern, direttrice esecutiva della Commissione internazionale per i diritti umani di gay e lesbiche (IGLHRC), la situazione è ancora più tragica se si tiene conto che Stato islamico non è l'unico attore a commettere atti barbarici, anche contro le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender): ancora prima dell'emergere di questa organizzazione terroristica, le persone omosessuali e transgender erano assassinate dalle altre forze in guerra, e anche gli "stupri correttivi" contro le lesbiche erano frequenti. Sembra impossibile individuare degli attori vagamente rispettosi della vita umana, come avevamo dovuto constatare già un anno e mezzo fa, quando pubblicammo la testimonianza di un ragazzo gay che vive nel nord della Siria [ilgrandecolibri.com].
Anche Subhi Nahas dipinge un quadro in cui tutti appaiono colpevoli. La storia della sua persecuzione in quanto omosessuale parte ben prima della guerra: sotto il regime di Assad, era stato fermato dalle forze dell'ordine e maltrattato. Con la guerra e la conquista della sua città da parte degli integralisti del Fronte Al-Nusra, però, la situazione è ulteriormente peggiorata: "Bastava che sembrassi un po' diverso, che indossassi dei jeans leggermente attillati, e ti prendevano di mira, interrogandoti per cinque o sei ore". Nahas ha avuto la fortuna di riuscire a nascondersi per mesi interi e poi a fuggire prima in Libano e dopo in Turchia, fino all'ottenimento dell'asilo politico negli Stati Uniti. Oggi chiede di aiutare i siriani a fuggire dal paese creando corridoi umanitari.
La fuga sta già avvenendo, ma in condizioni pericolose e umilianti, che giovano solo a gruppi criminali e senza scrupoli. Per fortuna a favore di questi profughi si impegnano volontariamente molte persone comuni, e tra di loro anche molti omosessuali. Washingtonblade.com, ad esempio, racconta la storia dello sloveno Jure Poglajen e del suo compagno, che hanno passato le vacanze sull'isola di Lesbo, in Grecia, ad accogliere i rifugiati che sbarcavano in continuazione. L'associazione LGBT Labris, invece, aiuta i fuggiaschi ad attraversare in sicurezza la Serbia.
Altrove, alcune organizzazioni LGBT si stanno concentrando sui bisogni particolari dei rifugiati omosessuali, bisessuali e transgender: la Federazione lesbica e gay in Germania (LSVD) ha aperto un centro apposito a Berlino, mentre in Macedonia alcuni attivisti hanno assistito delle coppie omosessuali nella loro fuga verso la sicurezza e la libertà. E in Italia una rete di sportelli gratuiti assiste da anni i richiedenti asilo [ilgrandecolibri.com].
Intanto Paul Dillane, direttore esecutivo del Gruppo immigrazione lesbica e gay nel Regno Unito (UKLGIG), si interroga sulla questione particolare dei rifugiati omosessuali e transgender: "Di fronte a questa massa di siriani che arrivano in Europa, è davvero importante se ci sono delle persone LGBT, dal momento che tutti i siriani fuggono dalla guerra civile, dai barili bomba, dalla miseria? E' davvero importante il loro orientamento sessuale e la loro identità di genere?". La risposta dello stesso Dillane è: "Sì, è importante". Ed è la posizione anche dell'Organizzazione per il rifugio, l'asilo e la migrazione (ORAM).
Non si tratta di reclamare favoritismi o privilegi o di sminuire la tragedia degli altri richiedenti asilo. Si tratta semplicemente di riconoscere una situazione particolare che richiede interventi particolari. Perché sono persone che subiscono una persecuzione specifica. Perché non hanno nessun alleato in Siria, spesso neppure nelle loro stesse famiglie. E perché "i richiedenti asilo LGBT provano una paura costante e devono stare nascosti 24 ore su 24, sette giorni su sette, perché non ci sarebbe nessuno a proteggerli nel campo profughi", come racconta l'ungherese András Léderer.
Melting Pot
16 09 2015
L’isola di Nauru si trova nell’Oceano Pacifico, appena sotto l’equatore e l’isola più vicina, Ocean, si trova a circa trecento chilometri di distanza. Non ha una capitale amministrativa ma la città maggiormente abitata è Yaren. Si tratta della repubblica più piccola del mondo con un’estensione di circa 21 kmq e con una popolazione di circa 14.500 abitanti (di cui il 35% ha meno di quindici anni).
Dal 2001 un’altra importante caratteristica di Nauru è il campo di accoglienza che l’Australia ha installato secondo l’operazione Pacific Solution. Quest’ultima operazione messa in atto tra il 2001 e il 2007 prevede il respingimento dei barconi e la detenzione dei richiedenti asilo in centri offshore. La maggior parte dei barconi viene dirottata verso l’isola di Nauru o l’isola di Manu in Papua Nuova Guinea.
L’Australia ha infatti delle leggi molto severe riguardo ai richiedenti asilo, siano essi adulti o bambini. Attraverso l’operazione Pacific Solution i richiedenti asilo non vengono fatti entrare nella zona marittima sotto il controllo australiano, ma vengono direttamente rinviati verso nuovi centri di detenzione in isole vicine. Inizialmente il piano prevedeva l’installazione dei richiedenti asilo in case moderne, con l’aria condizionata che sarebbero state costruite per i campionati mondiali del sollevamento pesi (International Wighlifting Federation). La proposta iniziale non venne mai messa in pratica e vennero invece costruiti due campi: Topside e Campside entrambi nel distretto di Meneng.
Isola di Nauru
Nel 2001 l’Australia è stata messa in imbarazzo a livello internazionale dal caso Tampa da cui sono scaturite anche delle tensioni diplomatiche con la Norvegia. L’Australia era stata accusata di violare i diritti umani dopo aver vietato l’accesso alla zona marittima ad una nave norvegese che aveva soccorso circa 438 persone di nazionalità principalmente afghana. La maggior parte dei richiedenti asilo afghani venne poi dirottata verso il centro di detenzione di Nauru dove iniziarono numerose proteste tra cui uno sciopero della fame nel 2003.
Il modo in cui il governo australiano tratta i richiedenti asilo e i rifugiati politici è vergognoso. Secondo alcune statistiche effettuate il 30 giugno 2014, il numero dei richiedenti asilo presenti a Nauru risultava essere 1.169. Essendo Nauru un’isola molto piccola, è impossibile soddisfare i bisogni di tutti i richiedenti asilo presenti: un’abitazione dignitosa, accesso all’acqua potabile, educazione, salute...
Child asylum seekers on Nauru stage a protest (www.theguardian.com )
L’Australia ha cercato di ridurre al minimo l’accesso esterno al campo di detenzione: alcune agenzie dell’ONU e alcune ONG tra cui Amnesty International si sono visti rifiutare più volte il permesso di accedere al campo. Il rifiuto ad Amnesty è stato giustificato riferendosi alle “attuali difficili circostanze”. Difficile capire il significato di queste parole. A febbraio del 2014 il costo del permesso di entrata per i giornalisti è aumentato in maniera vertiginosa. Non vi è quindi nulla di più chiaro: il governo australiano vuole far dimenticare al pubblico il centro di detenzione di Nauru e tenere quindi alla larga giornalisti e ONG.
La domanda è spontanea: perché? Che cosa succede in questo campo di così segreto?
Una spiegazione è stata avanzata da un rapporto di Amnesty in cui vengono descritte le condizioni di vita dei richiedenti asilo. Il rapporto è agghiacciante.
Le persone vengono stipate in spazi ristretti, molti soffrono di problemi fisici e mentali dovuti alle condizioni di vita deplorevoli. Gli individui si trovano in una situazione di limbo, di completa incertezza riguardo al futuro: all’arrivo infatti non è stata fornita alcuna informazione né sostegno legale. Un aspetto preoccupante delle condizioni di vita dei richiedenti asilo a Nauru riguarda la salute. A questo proposito, quindici dottori dell’International Health and Management Services hanno redatto una relazione per denunciare lo stato fisico delle persone e il livello insufficiente di cure offerte dal centro. Si tratta di un report di circa 80 pagine, ma ciò che salta subito all’occhio è che i centri di accoglienza non sono in grado di assicurare le condizioni minime di salute e di sanità mentale. Dignità del paziente compromessa, cure mediche basilari negate, perdita di medicine e referti, ritardo nell’inizio delle cure, condizioni di lavoro non salubri, standard internazionali non rispettati… Secondo un rapporto dell’UNICEF del 2012 il tasso di mortalità infantile a Nauru era di 40 volte maggiore rispetto all’Australia.
Richiedenti asilo diretti in Australia in un centro di detenzione temporanea a Ladong, in Indonesia, il 20 agosto 2013. (Hotli Simanjuntak, Epa/Corbis)
L’Australia ha quindi un problema con i rifugiati? A quanto pare sì. L’ultima notizia che arriva da Canberra è che nel 2014 il governo ha stretto un accordo con la Cambogia per il trasferimento di alcuni profughi. L’accordo è costato l’equivalente di 34 milioni di euro, ma per ora solo alcune persone hanno scelto il trasferimento da Nauru.
Il primo ministro australiano, Tony Abbott, è stato il principale autore dell’attuale politica dell’immigrazione. Purtroppo, come spesso accade nel mondo della politica, Abbott è un esperto nel far buon viso a cattivo gioco. Di fronte alla foto del corpo di Aylan Kurdi sulla spiaggia della Turchia, Abbott, sulla scia del buonismo e dell’ipocrisia, ha commentato definendola “molto triste” e ribadendo la necessità di fermare l’arrivo dei barconi per fermare morti e annegamenti.
Il governo continua a dimostrare di essere irresponsabile, poco trasparente e incompetente nel tema dell’immigrazione, in particolare dei richiedenti asilo. Nonostante le ripetute richieste e denunce dalla comunità internazionale, da l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, da Amnesty e altre ONG internazionali, il governo continua a ripetere che il problema riguarda Nauru e Papua Nuova Guinea… Per quanto tempo ancora?
- Maggiori informazioni riguardanti la salute mentale dei richiedenti asilo sono disponibili al link: http://www.theguardian.com/world/video/2014/aug/04/peter-young-asylum-mental-health-video
* Foto di copertina: Una veglia per i migranti a Sydney, in Australia, il 7 settembre 2015. (Daniel Munoz, Getty Images)
Lavoro Culturale
16 09 2015
Quando tentiamo di capire la catena di orribili eventi e “contromisure” che le istituzioni europee definiranno nelle prossime settimane per fare fronte a quella che molti politici ed esperti definiscono “la peggiore crisi dei rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale”, dovremmo tenere a mente che la crisi non è semplicemente una crisi e che il linguaggio dell’emergenza non aiuta a comprendere ma solo a offuscare e nascondere ciò che è sotto i nostri occhi.
Il fatto che alcuni cittadini europei abbiano sentito il bisogno di compiere un atto eccezionale di accoglienza e di ricevere i migranti che dall’Europea dell’Est hanno raggiunto la Germania con dei cartelli “Benvenuti rifugiati!”, ci dice molto di quanto poco accoglienti siano le nostre pratiche ordinarie e quotidiane nei confronti dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
Le immagini disturbanti che abbiamo visto sono solamente i sintomi superficiali di una questione molto più profonda, legata al livello di perniciosità a cui è giunta la nozione di asilo in Europa. Una storia dell’asilo europeo non è stata ancora scritta, ma le tracce di quanto ormai paradossale e aporetica è divenuta la pratica dell’asilo in Europa sono sotto i nostri occhi.
Nel suo significato classico, in greco e latino per esempio, asilo significa santuario, tempio, uno spazio sacro in cui ci si può rifugiare e in cui l’uso legale della violenza viene sospeso. Con la creazione degli stati-nazione moderni l’asilo è stato codificato nel “diritto d’asilo”— il principio normativo secondo cui gli stati hanno il dovere di dare protezione a coloro che abbandonano un altro paese perché la loro libertà e la loro vita sono in pericolo.
Tuttavia la nozione di asilo presenta una genealogia molto più ampia e non riducibile all’asilo politico e al processo che ha portato alla sua codificazione. La parola asilo include molti altri domini della nostra storia sociale, al di là dell’asilo politico, domini che non sono meno politici di quello dell’asilo politico. Per esempio, in Storia della follia nell’età classica (1978), Michel Foucault definisce la storia dell’istituzione terapeutica dell’asilo psichiatrico come una
serie di operazioni che organizzano silenziosamente il mondo dell’asilo, i metodi di cura, e allo stesso tempo l’esperienza concreta della follia. [Nel passaggio dall’imprigionamento del folle alla sua reclusione nell’asilo psichiatrico] è vero che l’asilo non punisce più la colpevolezza del folle, tuttavia esso fa qualcosa di più, poiché l’asilo organizza la colpevolezza; la organizza per il folle, come una forma di coscienza, e la organizza come relazione non reciproca con chi amministra l’asilo; l’asilo organizza la colpevolezza per l’uomo di ragione come consapevolezza dell’altro, come un intervento terapeutico nell’esistenza del folle (pp. 547-549).
In questo passaggio Foucault analizza il significato della trasformazione delle prigioni come istituzioni repressive in moderni asili psichiatrici: dalle celle ai nuovi spazi di libertà vigilata in cui la medicina funziona come una forma di giustizia, e in cui i prigionieri non sono più costretti a vedere le catene, le sbarre e le griglie delle finestre delle prigioni in cui erano prima rinchiusi. Per Foucault la nascita dell’asilo costituisce una forma di liberazione e protezione molto particolare, il passaggio dalla segregazione alla segregazione medica in cui la terapia si pone come forma di disalienazione. Chi vive protetto dall’asilo non può sfuggire al potere morale e legale di chi amministra l’asilo, degli uomini di ragione, come li chiama Foucault.
Non voglio forzare troppo il parallelo tra asilo politico e asilo psichiatrico, ma è difficile non vedere le somiglianze tra le due istituzioni dell’asilo. Oggi ai migranti che giungono in Europa e chiedono asilo nel rispetto delle convenzioni internazionali viene offerta una terapia non contro la perdita della ragione, ma contro la perdita di una piena cittadinanza. L’asilo politico di oggi si pone come una terapia umanitaria per chi ha perso la piena appartenenza a una comunità politica. In un certo senso la follia sta all’asilo psichiatrico come la fuga in cerca di protezione di soggetti vulnerabili sta all’asilo politico.
Come quella dell’asilo psichiatrico, l’istituzione contemporanea dell’asilo va compresa come un connubio di operazioni morali e legislative. Da un lato pare che quasi tutti in Europa, anche chi viola il diritto di asilo o amministra un sistema che lo svuota del suo significato classico, siano pronti a riconoscere il dovere morale della benevolente offerta di asilo. Dall’altro nel tradurre in pratica questo dovere morale l’asilo si trasforma in un’istituzione fatta di misure fondamentalmente segreganti e violente: la polizia dei confini; l’identificazione con i numeri tatuati sulle braccia (le immagini provenienti dalla Repubblica Ceca), o le impronte digitali; il trasferimento in campi con varie gradazioni di segregazione; l’indagine per rilevare la natura e la veridicità della perdita di piena cittadinanza da parte dei richiedenti. Questa è, in breve, l’istituzione dell’asilo nella sua miglior forma esistente in Europa, quando essa non stermina i migranti in mare.
In breve, la situazione in cui ormai siamo da anni ci racconta due cose. In primo luogo ci dice che l’asilo politico è qualcosa di molto diverso dall’istituzione liberante e filantropica che continuiamo a difendere per proteggere la nostra posizione di salvatori di sopravvissuti. Il modo in cui traduciamo il diritto d’asilo in pratica presenta tutti i tratti di un’istituzione di potere — il potere di organizzare in forme segreganti e di concedere (o meno) l’asilo. In secondo luogo ci racconta uno dei paradossi contemporanei del regime internazionale dei diritti umani. La storia recente dell’asilo politico ci dice che gli stati-nazione che si sono fatti promotori delle norme e convenzioni fondamentali per i diritti umani in materia d’asilo sono gli stessi stati-nazione che violano in maniera istituzionalizzata i principi filantropici che hanno codificato in legge. Trasformando l’asilo in una serie di operazioni di controllo stiamo contribuendo alla disintegrazione etimologica e politica del valore dell’asilo.
(Mentre chiudevo questo articolo, ieri all’incontro di emergenza dei ministri degli Interni europei è stata presa la decisione di rafforzare le misure di internamento dei “migranti irregolari” e di creare nuovi campi profughi fuori dall’Europa. La bozza di documento dei ministri degli Interni dice che «è cruciale rafforzare i meccanismi di identificazione, registrazione e presa delle impronte digitali in Italia e Grecia»).