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La vita dei braccianti schiavi nel Ghetto che non dorme mai

  • Venerdì, 28 Agosto 2015 11:02 ,
  • Pubblicato in Flash news

Globalist
28 08 2015

Reportage dalla baraccopoli di Rignano Garganico (Foggia), che arriva a ospitare fino a duemila immigrati durante la raccolta dei pomodori.

Quando non raccoglie pomodori, oppure asparagi, S. va in cerca di cartoni, teloni di plastica, tubi per l'irrigazione. Nascono così, autocostruite, e aumentano di anno in anno affastellandosi tra vicoli e strade fangose, le decine di baracche del Gran Ghetto, la più grande tra le baraccopoli di raccoglitori di pomodori in Puglia. Nei mesi estivi arriva a ospitare oltre duemila braccianti, originari soprattutto dell'Africa Occidentale.

Gli abitanti del Gran Ghetto, che sorge su una sorta di "terra di nessuno" tra i tre comuni di Foggia, San Severo e Rignano Garganico, rappresentano poco meno del dieci per cento dei lavoratori stagionali della Capitanata, una delle più importanti zone di produzione di pomodori del sud Italia, destinati soprattutto all'industria conserviera.

Il ghetto che non dorme mai. Intorno alle tre della mattina si svegliano e si preparano i primi raccoglitori, pronti a partire per campi di pomodori o cipolle, per i vigneti e le serre distanti anche un paio d'ore di automobile. I caporali li trasportano, per cinque euro a persona, su furgoni riarrangiati, spesso rubati, molti con targhe bulgare o rumene, che caricano anche venti lavoratori per volta su tre file di panche di legno sistemate al posto dei sedili. Lavoreranno sotto il sole per un orario variabile, dalle quattro- cinque ore fino alle dieci e più, a seconda di quanti camion arriveranno per ritirare i cassoni riempiti dell'oro rosso della Capitanata. Niente camion, niente lavoro. E quando c'è, il lavoro è a cottimo, tre euro e cinquanta a cassone. Si racconta di chi ne ha raccolti anche più di trenta, di cassoni. Si prende in giro chi non riesce a superare i sette. In media i ragazzi e gli uomini che ora stanno in fila con gli occhi pesti di sonno viaggiano tra i dieci e i quindici a giornata. Tolte le spese del trasporto, significa guadagnare una trentina di euro al giorno per spaccarsi la schiena a strappare le piante e scuotere i frutti dentro il cassone.

"In Africa nessuno mi crederebbe". Fa ancora fresco quando partono ognuno con il proprio zainetto, con il panino per il pranzo, e in mano le taniche di acqua rivestite di patchwork di stoffa e panno, da bagnare anche esternamente per cercare di tenere fresco il contenuto anche sotto il solleone dei campi. All'ora delle prime partenze, le decine di locali del Gran Ghetto hanno appena spento la musica. Anche i bar e i night club sono baracche, sempre di plastica e cartone, a volte anche legno e lamiera. Sono arredate e decorate con teli di stoffa, frigoriferi per le bibite e luci colorate alimentati da rumorosi generatori a benzina. Il resto della baraccopoli si sveglia progressivamente. I furgoni continuano a partire fino alle cinque o anche alle sei per i campi meno distanti.

Alle sei e trenta parte anche il primo pullman per Foggia, che dista solo quattordici chilometri di strada, solo nell'ultimo tratto sterrata e piena di buche. Quattordici chilometri nei quali si attraversa il confine invisibile tra il Gran Ghetto e l'Unione Europea. "Se lo raccontassi in Africa, nessuno crederebbe che questa è Europa", ripetono i braccianti, da quelli appena arrivati a quelli che al Ghetto ci vivono ogni estate da alcuni anni.

Privacy degli sguardi. Oltre allo sfruttamento che subiscono al lavoro, che porta a molti di loro infortuni, mal di schiena e ferite, i braccianti si trovano a vivere senza elettricità, con tre punti per la raccolta di acqua per lavarsi e alcune cisterne riempite quotidianamente, con venti bagni chimici in tutto, che dovrebbero servire oltre duemila di acqua potabile. I campi e gli uliveti intorno al Ghetto sono trasformati in wc all'aria aperta, dove la minima privacy necessaria è garantita da scambi di sguardi. Quando si va al bagno si tace, per le strade e i vicoli del ghetto invece si parla e si fanno affari in continuazione. "Come stai, tuttoapposto?" "Pomodoro, fatica", sono le frasi che risuonano in italiano, francese, inglese e decine di lingue africane.

Il ghetto è condizioni igieniche disperate, ma anche solidarietà, incontro, persino divertimento e festa. Chi vive nella stessa baracca (le più grandi possono contenere anche cinquanta materassi) si organizza in piccoli gruppi per cucinare a turno e poi mangiare insieme il riso, la carne, il sugo di arachidi. Sulle bombole a gas o su piccoli falò di fronte alle baracche. Il lavoro è ognuno per sé, il resto è condivisione. Dai turni per il cibo alla donna ivoriana che ogni mattina e sera va a fare le iniezioni di antibiotico prescritte dai medici di Emergency a un ragazzo di ventisette anni infortunato per un cassone che gli è caduto sul piede. Il suo caporale per risarcirlo gli ha dato dieci euro. La donna, quando lo saluta dopo l'iniezione, gli dice: "Per qualche giorno, se vuoi, ti aspetto per mangiare da me a credito, mi pagherai quando puoi".

Giulia Bondi

Cinque regole per sconfiggere il caporalato

Internazionale
27 08 2015

Sun Tzu, nel suo trattato sull’arte della guerra (quarto secolo avanti Cristo), prescrive una piena consapevolezza prima di muovere battaglia. “Misurare gli spazi”, ovvero conoscere il terreno, è la prima regola del maestro cinese; “quantificare le forze” la seconda. Ai dati ottenuti andrà poi applicato il “calcolo numerico”, la “comparazione” e, infine, la valutazione delle “possibilità di successo”.

Proviamo a utilizzare queste regole per analizzare il modo in cui gran parte dei mezzi d’informazione e (a ruota) le istituzioni dichiarano periodicamente guerra al caporalato, cioè al reclutamento illegale di manodopera in agricoltura.

La “misurazione degli spazi” è apparentemente semplice: in questa estate del 2015 la Puglia è di nuovo al centro dell’attenzione, ma la questione non è strettamente meridionale (anche Slow Food ha appena raccontato il caporalato nelle Langhe). Però, giunti al secondo passaggio suggerito dallo stratega orientale, la “quantificazione delle forze”, cominciano subito le difficoltà, perché la retorica prevalente si ferma a chi vede (i “caporali” e gli agricoltori), trascurando del tutto il contesto.

Si scorra la rassegna stampa seguita alla morte di caldo e sfinimento a Nardò (Salento) di Mohamed Abdullah, bracciante quarantasettenne dal Sudan, e non vi si troverà quasi accenno alla filiera del pomodoro. Ampi sono i resoconti delle brutalità dei caporali (“gli schiavisti”): le minacce, la sottrazione di parte del salario e in aggiunta la vendita a caro prezzo dei mezzi indispensabili durante il lavoro (l’acqua, un panino) e durante la permanenza nei ghetti (il posto letto, l’elettricità, il trasporto).

Si parla delle spaventose condizioni di lavoro, della complicità delle aziende agricole che assumono servendosi dei caporali e dell’inadeguatezza delle istituzioni preposte al controllo. Ci viene poi addebitata, da alcuni commentatori, una corresponsabilità quali consumatori di pomodori, sughi e passate “per cui vogliamo spendere troppo poco” – discorso retorico che colpendo gli incolpevoli finisce, ineluttabilmente, per distrarre dall’individuazione dei veri responsabili.

Ma poco o nulla si dice della storia economica di quei pomodori, del modo in cui tra il campo e il supermercato producono profitto, e per chi lo producono. Quindi, tornando alle regole del maestro Sun: non c’è “quantificazione delle forze” né “calcolo numerico”, non si può di conseguenza arrivare a una “comparazione” e non c’è dunque alcuna “possibilità di successo”.

A ben vedere il caporalato viene anzi trattato come un corpo estraneo ai processi economici, e quindi – Sun Tzu ne riderebbe di certo – sembra quasi che l’esercito contro cui si minaccia guerra sia privo di ufficiali e di stato maggiore e sia composto esclusivamente da, appunto, caporali. C’è da domandarsi come sia possibile che un tale esercito tenga in scacco le istituzioni.

Carne da cannone

Naturalmente, invece, una catena di comando e uno stato maggiore ci sono, anche se chi ne fa parte non può essere rappresentato con le tinte forti che s’attagliano ai caporali. Il pittore tedesco George Grosz, negli anni venti del secolo scorso, disegnava signori della guerra dal petto decorato e capitani d’industria con il sigaro nell’atto di brindare mentre progettavano come meglio affamare i poveri e farne carne da cannone. Ma quella che allora era una comunicazione efficace oggi è del tutto inutilizzabile.

Il capitalismo contemporaneo è una rete di relazioni e processi impersonali che copre l’intero pianeta, il suo sottosuolo, il suo spazio aereo fin oltre l’atmosfera: farne il ritratto in una sola immagine è impossibile. Ciò nonostante qualche tratto di china sulla produzione del profitto nella filiera agroalimentare può essere utile per interpretare il quadro complessivo.

Il primo che proviamo a tracciare riguarda i modelli distributivi del cibo e la loro evoluzione. Sentiamo, a questo proposito, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, meglio nota come Antitrust:

In termini di incidenza sul totale del commercio alimentare, fresco e confezionato, la grande distribuzione organizzata (gdo) è passata dal 50 per cento circa del 1996 all’attuale 72 per cento. A fronte di tale andamento si sono registrati una netta contrazione del dettaglio tradizionale, passato dal 41 per cento circa del 1996 all’attuale 18 per cento, e un leggero rafforzamento del peso degli altri canali (commercio ambulante, gli acquisti diretti presso le aziende agricole eccetera), passati dal 9,2 per cento al 10,6 per cento.

Per gdo si intendono i supermercati (dal mini all’iper), quasi sempre appartenenti o affiliati a una catena distributiva (Coop, Conad, Esselunga, Selex, Auchan, Carrefour eccetera). La gdo, spiega la citata indagine dell’Antitrust, è in grado di esercitare uno smisurato buyer power (potere contrattuale negli acquisti) nei confronti dei propri fornitori. Questi fornitori (o subfornitori) a loro volta, scaricano sui lavoratori le conseguenze del loro risicato margine di profitto. In diverse filiere, come quella del pomodoro, “la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi [… consente] a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata (Ben oltre lo sfruttamento: lavorare da migranti in agricoltura, il Mulino, n. 1/14).

Va da sé che il reclutamento e il disciplinamento di quel “gran numero di lavoratori vulnerabili” ingaggiati a pessime condizioni è garantito e può essere garantito solo da caporali.

I luoghi di produzione

Il secondo tratto del nostro schizzo rappresenta l’indifferenza ai luoghi di produzione. Non c’è regione, stato e neppure continente che tenga: le grandi aziende di trasformazione e la gdo comprano dove trovano docilità nel fornire agli standard richiesti e a minor costo, e l’esclusione di un fornitore o di un intero territorio derivano dalla semplice pressione di pochi tasti. Si potrebbe quasi dire che è la costante possibilità di quel gesto digitale e asettico ad alimentare il concreto potere di minaccia dei caporali.

A questo punto entrano in gioco le politiche dell’Unione europea, che incentivano la trasformazione dei sistemi agricoli nordafricani orientandoli verso l’export (al servizio di gdo e grandi grossisti e trasformatori del nostro continente), con il risultato di impoverire la maggioranza dei contadini e dei braccianti tanto qui quanto sull’altra sponda del Mediterraneo. E naturalmente entrano in gioco le politiche migratorie, in costante e sotterraneo dialogo con la creazione di lavoro ricattabilissimo.

Oltre a quello della brutalità dei caporali, c’è un altro polo discorsivo utilizzato nella lotta allo sfruttamento estremo in agricoltura: quello della “legalità”. Che, almeno secondo Coldiretti, la principale associazione di rappresentanza degli agricoltori italiani, potrebbe essere rafforzata da una maggiore diffusione del voucher come strumento retributivo per i braccianti. Cos’è un voucher?

Un metodo di pagamento delle ore lavorate attraverso un ‘assegno’ di 10 euro lordi che può essere riscosso all’Inps e acquistato in varie sedi, tra cui tabacchini e poste. […] Il ‘lavoratore-voucher’ non ha diritto a ferie, malattie, maternità, tredicesima, quattordicesima e a indennità di disoccupazione [… e] acquistando un voucher al giorno si può coprire a livello assicurativo e contributivo un’intera giornata di lavoro (Il regime del salario, Connessioni precarie).

In verità è assai probabile che, con gli attuali rapporti di forza, il voucher non costituisca affatto un’emersione del lavoro nero. Anzi: sui campi dei pomodori (negli agrumeti, tra i filari di vite e così via) alcuni lavoratori potrebbero essere messi “in regola” con un voucher al giorno, assicurando a caporali e datori di lavoro l’impunità anche in caso di controllo, mentre verso altri braccianti si potrebbe usare l’impossibilità di pagarli con voucher (magari perché privi di documenti in regola) per imporre loro condizioni salariali ancora peggiori.

E comunque, più in generale, risulta problematico appellarsi alla “legalità” nel mercato del lavoro quando le leggi che lo normano sembrano ormai ispirarsi a forme di caporalato soft (tramite esternalizzazioni, intermediazioni, eliminazione dell’indennità di malattia e, in fieri, della pensione, negazione del diritto di sciopero eccetera).

Questi sono solo pochi tratti di penna, come promesso: siamo ancora ben lontani da una valida “quantificazione delle forze”, lontanissimi da un “calcolo numerico” e di “comparazione” non è neppure il caso di parlare. Ma, almeno, il maestro Sun smetterà di ridere di noi.

Wolf Bukowski

La filiera dello sfruttamento

  • Lunedì, 24 Agosto 2015 13:57 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS

Dinamo Press
24 08 2015

Storie di caporali, fattore, silenzi e complicità


Arcangelo ha 42 anni e lotta per la vita all’ospedale San Carlo di Potenza. È in coma profondo dal 5 Agosto dopo essere stato colpito da aneurisma celebrale, mentre era impegnato nella raccolta dell’uva, nelle campagne di Metaponto. Ironia della sorte, l’uomo abita a poche case di distanza dall’abitazione di Paola Clemente, la bracciante morta nelle campagne di Andria lo scorso 13 luglio, il cui decesso è stato archiviato in un primo momento come naturale dal pubblico ministero competente che non aveva predisposto l’autopsia, e la cui salma, invece, sarà riesumata martedì prossimo. Come si ricorderà, la notizia della morte della donna, accompagnata dalla denuncia sulle relative incongruenze nella dinamica, fu data soltanto il 3 Agosto dalla Flai Cgil Puglia. Nessuno ne aveva parlato prima.

Intanto, la pagina facebook di Arcangelo in queste ore è inondata di messaggi di speranza e affetto. La solidarietà corre in rete; un po’ meno nelle strade e nelle piazze di San Giorgio Jonico, popoloso comune alle porte di Taranto, dove in pochi vogliono parlare, ora. A cominciare dalla famiglia, trincerata dietro un rigoroso silenzio.

"Non c’è nessuno", dicono alcuni vicini di casa mentre mi avvicino all’abitazione. "Non vogliamo parlare", mi dice la sorella aprendo la porta della casa. C’è uno strano silenzio anche attorno a questa storia. Che si è appresa soltanto il 20 agosto. Solo dopo che il pubblico ministero della Procura di Trani, Alessandro Pesce ( titolare dell’inchiesta sulla morte di Paola Clemente) ha dato l’annuncio di un’altra inchiesta avviata dalla procura di Matera sul malore dell’uomo, la notizia è rimbalzata. Gli stessi sindacati ne erano all’oscuro.

Avanza sospetti (anche in questo caso) sull’uso massiccio dei fitofarmaci in agricoltura, il segretario generale della Flai Cgil Puglia, Giuseppe De Leonardis che raccogliendo le testimonianze di alcuni braccianti ha fatto scoppiare il bubbone del nuovo caporalato. E fatto venir fuori quel sistema che avrebbe ucciso Paola Clemente, per esempio. Ci spiega come funziona: “il contratto di Paola era a tutti gli effetti regolare, nonostante lavorasse per 2 euro l’ora. Era stata assunta dall’agenzia interinale Infogroup, una delle società leader del settore insieme alla Quanta (che fino allo scorso anno gestiva circa ventimila rapporti di lavoro in agricoltura e che ora in seguito a denunce ed ispezioni subite ne gestisce più o meno la metà) ma di fatto il suo rapporto di lavoro era gestito da Ciro Grassi, colui che è ritenuto da tempo uno degli intermediari del settore più importanti della provincia di Taranto e che ora è indagato dalla Procura di Trani, insieme al titolare dell’azienda Ortofrutticola meridionale di Andria, dove la donna lavorava”.

“Non chiamatemi caporale, io ho tutte le carte in regola" ha spiegato a La Repubblica Ciro Grassi, l'uomo indagato per l'omicidio di Paola Clemente. E in effetti è così. Già, perché dimenticatevi il vecchio caporale alla guida di malconci pulmini Ducato, qui interviene una delle mutazioni antropologiche subite dal settore agricolo negli ultimi anni. È il sistema del nuovo caporalato: Grassi di mestiere ufficialmente fa il tour operator ma ha come clienti unici le aziende di compravendita del lavoro e come passeggeri soltanto contadini. È l’istituzionalizzazione della filiera dello sfruttamento: i grandi proprietari terrieri si rivolgono alle agenzie per reclutare i braccianti e questi ultimi ai nuovi caporali, che sono sempre quelli vecchi che controllavano la manodopera dell’agricoltura pugliese, ma “ripuliti”, sotto lo schermo di una presunta legalità, grazie alla disponibilità di costosi autobus gran - turismo e alla presenza dei contratti di servizio stipulati con le agenzie interinali. Funziona così - come è venuto fuori già da diverse inchieste giudiziarie – non soltanto nelle province di Bari e Taranto, ma anche in molte zone di Calabria, Campania, Emilia-Romagna e Lazio. Si viene assunti con contratti regolari. Di fatto affidati alla mercé di caporali locali, che trattengono parte del salario dei lavoratori, pretendendo indietro ogni mese circa la metà di quanto loro versato con gli assegni circolari. Alle volte il caporale è donna, la cosiddetta fattora. I suoi compiti non cambiano: contattare e reclutare manodopera, gestire braccia e giornate. Governare le vite di chi lavora in campagna. Lo fanno in cambio di soldi, di percentuali.

Il sistema appariva perfettamente logico e normale, fino a quando il bollettino delle morti sul lavoro che, almeno in Puglia, si sta aggiornando continuamente, non fa scoppiare il caso, portandolo alla ribalta nazionale. Se ne accorge anche il Governo che per bocca del Ministro dell’agricoltura Maurizio Martina annuncia “un vertice nazionale con il Ministro del Lavoro e le parti sociali, il 27 agosto, sui temi del caporalato”. E l’intenzione di istituire “una task force territoriale con controlli mirati e più serrati per contrastare il fenomeno”. Sempre lo stesso Ministro Martina aveva dichiarato in una nota che: “bisogna combattere il caporalato come la mafia”. E giù tutto un profluvio di dichiarazioni giunte da ogni parte politica - più o meno dello stesso tono - sul “dovere da parte di tutti di contrastare lavoro nero e sfruttamento”.

Comunque, ad ascoltare le voci di alcuni sfruttati e i commenti a mezzo stampa a queste drammatiche vicende, che giungono dalle istituzioni locali e nazionali, si comprende quanto ci troviamo di fronte ad un problema di ordine politico–culturale, atavico. Per fare un esempio, il sindaco di San Giorgio Jonico, Giorgio Grimaldi, di Sel, ha dichiarato ad alcuni giornali locali di aver parlato con alcuni braccianti del luogo che gli hanno confermato che il caporalato, in quella zona, non esiste. Salvo poi (contattato telefonicamente) correggere il tiro, spiegando “di essere figlio di contadini e come tale sensibile alla questione, ma d’altronde - lascia intendere - qualcuno dovrà pure accompagnarle al lavoro… le donne”.

Dunque, il caporalato appare quasi un mezzo necessario, allo stesso modo le morti in campagna sembrano spesso “naturali”. Ed è per questo, spiega - Sante Bernalda delegato della Flai Cgil di Massafra - che quando ho saputo del decesso di un’altra donna, nelle campagne di Ginosa (avvenuto il 14 Agosto) ho preferito non diffondere la notizia: “è sembrata una morte quasi naturale” - dice – “perché la donna aveva già comunque una patologia. E poi aveva un contratto regolare, non lavorava in nero”. La storia a cui fa riferimento Sante Bernalda è stata resa nota il 21 Agosto da Nicola Maggio, il marito della donna, che ha preferito non sporgere denuncia e far passare qualche giorno prima di raccontare quel dramma cominciato il 31 Luglio, quando Maria accusa un malore e viene trasportata subito in ospedale, dove morirà pochi giorni dopo, a cavallo di Ferragosto. Ha deciso di parlare, l’uomo, perché “il dolore subito dalla sua famiglia possa servire a fare approvare disposizioni di legge che contrastino realmente il caporalato”.

Aveva un contratto regolare, Maria, che gli aveva consentito, negli anni scorsi, anche di accendere un mutuo, ma andava a lavoro con i caporali. Andava a lavoro tutte le mattine, anche la domenica. Da Massafra a Ginosa, pochi chilometri, per questo saliva a bordo dei vecchi Ducato di colore bianco. Era poca la distanza chilometrica da percorrere. Perciò, all’interno di quest’altra filiera dello sfruttamento, gli autobus gran turismo servivano solo da paravento legale. L’autista del ducato bianco che trasportava Maria era una sorta di sub caporale, in sostanza. Questo dimostra quanto labile sia il confine tra la legalità che sia tale, o presunta. Come sottile è la linea tra la morte naturale e l’incidente sul lavoro; qui, nelle campagne di Puglia, dove la logica della stessa vita è assoggettata al massimo profitto d’impresa.

È la storia del capitalismo, dei vinti e dei vincitori. È una storia di donne e di uomini, di caporali e di fattore. Di silenzi e complicità. È la filiera dello sfruttamento, alla cui violenza va posto immediatamente un argine. Senza dover aspettare le prossime morti nelle campagne, quelle che da secoli si considera come naturali. Ancora adesso, nel sud Europa, nel XXI secolo.

Chi ha ucciso Mohamed?

  • Mercoledì, 05 Agosto 2015 12:01 ,
  • Pubblicato in Flash news

Melting Pot
05 08 2015

Mohamed, lavoratore stagionale nella raccolta di pomodori, morto nelle campagne tra Nardò ed Avetrana
Autore: Francesco Ferri
Puglia, estate 2015. La stagione scorre, come da copione, in maniera fluidità e intensa. Piedi nudi che freneticamente si muovono fino all’alba sulle spiagge del litorale adriatico e ionico; industrie culturali ed enogastronomiche in piena attività: un immaginario da California del sud, aperta e progressista, capace di innovare i tradizionali settori di produzione, in direzione dell’immateriale e dell’hi-tech.

A pochi chilometri di distanze dalle spiagge ioniche, Mohamed, lavoratore stagionale nelle campagne tra Nardò ed Avetrana, si accascia al suolo per non rialzarsi più. 47 enne di origine sudanese, con regolare permesso di soggiorno – ma impiegato senza contratto nella raccolta di pomodori – muore di fatica, marginalizzazione e sfruttamento nella campagna salentina.

Siamo di fronte ad una terribile eccezione? Una triste parentesi nella folgorante estate pugliese, capace di sospendere, per brevissimi istanti, il ritmo incalzante della musica in spiaggia, restituendo per pochi attimi un’immagine fosca del tetro passato dello sfruttamento nei campi, relegato sullo sfondo di un nuovo mondo che avanza, nel segno (e nel sogno) dei nuovi dispositivi culturali e informatizzati di inclusione economica, a suon di start up e imprese sociali?

Regimi di invisibilità

Più che al riemergere dell’eccezione, siamo di fronte ad un processo di rimozione strategica della condizione materiale – di lavoro e di vita – nelle campagne di tutta la Puglia. Non il fastidioso retaggio dell’arcaico passato, che riapre una piccola finestra sulla contemporaneità, avanzata e solidale. L’esistenza nella quale è stato ingabbiato, fino alla morte, Mohamed – lavoro a cottimo, irrisorio compenso di 3,50 euro ogni 3 quintali di pomodori raccolti – e le condizioni di vita alle quali era incatenato – costanti pressioni psicologiche, pervasivo controllo di caporali e imprenditori – rappresentano il regime abituale di produzione nei campi pugliesi.

C’è, dunque, un (rimosso) filo rosso che collega le campagne del Salento con quelle del sud della Spagna, che passa per le ampie distese del foggiano, abbracciando tutto il meridione d’Italia, arrivando fino in Grecia. Un filo rosso della violenza più sfrenata, resa invisibile in quanto inconfessabile e incompatibile con l’autorappresentazione della regione Puglia come patria di affermati startupper e sede di avanzate importanti progetti di innovazione sociale e tecnologica. L’invisibilità del fenomeno garantisce, per altro, un tendenziale anonimato alla miriade di aziende, locali e multinazionali, che usufruiscono incessantemente dei regimi giuridici e culturali di produzione della forza lavoro migrante nel segno della marginalità, della disciplina e dell’assoluta economicità delle prestazioni lavorative.

Come avviene la produzione di questa forza lavoro? In cosa consiste l’altro filo rosso, che dall’arrivo in Italia, via nave, di Mohamed l’ha irrimediabilmente legato alla drammatica fine nei campi di pomodori? C’è un tipo di responsabilità dall’immediata evidenza: Mohamed era impiegato in un’azienda già sotto processo, con le accuse, tra le altre, – per imprenditori e caporali insieme – di riduzione in schiavitù, intermediazione illecita di forza lavoro, tratta di persone. Azienda che, nonostante l’inchiesta, continuava ad operare, impiegando manodopera in nero ed estraendo incessantemente profitto dalla vita e dalla morte della forza lavoro migrante.

Un richiedente asilo incatenato a condizioni di lavoro e di vita al limite della servitù nella regione più dinamica del mezzogiorno, impiegato in un’azienda sotto processo per circostanze analoghe a quelle che hanno causato la sua morte: cosa ha reso possibile l’esposizione di Mohamed alla totale dissoluzione del suo corpo, fino ad incrociare la morte per fatica a metà della sua prima giornata lavorativa in quel campo?

La vita e la morte di Mohamed sono il prodotto di raffinato regime di inclusione attraverso la differenza, che accomuna per tutti i Mohamed nei sud europei. La plastica immagine del suo corpo irrimediabilmente disteso tra i pomodori ci ricorda come la battaglia contro i vecchi e nuovi razzismi, per l’estensione dei diritti di cittadinanza nel segno dell’uguaglianza e della libertà non risieda nell’astratto mondo delle idee e dell’ideologia, ma la rimette urgentemente in connessione con la terribile materialità dell’attuale condizione migrante.

Retorica dell’innovazione sociale e schiavitù condividono il territorio e attraversano la società: lavoratori migranti e startupper si incrociano, per brevissimi attimi – cadenzati dalla gerarchizzazione giuridica e culturale di regimi di lavoro differenti – coesistendo nell’eterogeneo sistema produttivo pugliese. Temporalità differenti e regimi di lavoro differenziati che coabitano.
Chi e come rende possibile l’esistenza del lavoro migrante così marginalizzato? Più agenti, dispositivi e retoriche cooperano nella costruzione del retroterra culturale, giuridico e politico che rende possibile il configurarsi, nel 2015, della violenza e dell’alienazione più sfrenate. Il razzismo istituzionale e politico, formale o latente, viene alimentato (ed alimenta) la produzione di discorsi pubblici, saperi diffusi, stigmatizzazioni, etichettature, vecchi e nuovi orientalismi che rendono possibile il configurarsi di condizioni di esistenza così aberranti.

Una storia di confine

Quella di Mohamed è una storia di confine: di quello che ha attraversato nell’arrivo, nove anni fa, in Europa, delle speranze e dei sogni che l’hanno accompagnato appena il viaggio in barca si è concluso positivamente, dei confini giuridici che hanno scandito la sua vita, e dei confini culturali, discorsivi e informali che lo hanno separato – per sempre – dall’accesso agli standard minimi di esistenza, bianchi ed occidentali, fino ad incrociare la terribile morte nell’alto Salento.

Da questo punto di vista, le locuzioni Primavera pugliese, Puglia migliore, fino al Pugliamo l’Italia, cadute nel frattempo in disuso, assumono una fastidiosa sonorità se associate alle condizioni di vita e di morte, da nord a sud della regione, alle quali le migranti e i migranti sono esposti, senza soluzione di continuità, spaziale o temporale.

A questo punto della narrazione, in un contesto così tetro e agghiacciante, solo un poderoso discorso di verità e dignità potrebbe per lo meno favorire il sorgere di una memoria condivisa in relazione a quanto accaduto – e continua ad accadere – attorno a noi. Questa testimonianza di dignità, limpida e terribile, capace squarciare la spessa coltre dell’invisibilità che ha avvolto Mohamed e i suoi colleghi arriva da Marian, moglie del migrante sudanese scomparso, che ci aiuta a comprendere in cosa consista la specifica – e comune – soggettività migrante che ha indelebilmente segnato la vita di Mohamed.

“Non sapevo che stesse in quel posto, senza luce né acqua, anche se altre volte, quando è tornato dalla raccolta in Sicilia o in Calabria, mi ha raccontato di posti come questo, in cui dormivano a terra e facevano i bisogni sotto gli alberi. Io non ci sono mai andata, le donne non vanno in quei posti”; “Era contento, stava bene, faceva caldo ma non mi ha detto che stava male. Lui non aveva mai problemi, era forte, non era malato, io non so cosa sia successo”; e ancora “Lui era un ottimo padre, prima che un buon marito, affettuoso con i suoi figli e con me, mi difendeva in qualunque situazione e si prestava a fare qualunque lavoro per mantenerci. Viviamo con molte difficoltà, mio figlio maggiore ha dovuto lasciare la scuola perché non riuscivamo a mantenerlo, ma ancora è troppo piccolo per lavorare e mio marito pensava a tutto”, sono alcuni dei limpidi frammenti di dignità che ci ha consegnato Marian come racconto, presente e futuro, dell’invisibile e del rimosso nelle campagne pugliesi.

Anche il regime di governo della mobilità dei lavoratori, in una regione che si narra sempre più proiettata verso il turismo, nazionale e internazionale, al quale Mohamed e la sua comunità erano indissolubilmente legati, incessantemente scandito dalla stagionalità delle produzioni agricole e dalla richiesta di forza lavoro, in un continuo movimento di persone e cose per tutto il meridione, rende visibile come il diritto alla libera circolazione sia di esclusa pertinenza delle elite provviste di capitali. Per gli altri resta la possibilità – che, nei fatti, è una necessità economica e non una scelta – della circolazione indotta, nello spettrale pellegrinaggio da campo in campo.

Imprenditori sociali animati da bollenti spiriti da una parte; caporali, migranti e cassoni di pomodori dall’altra: concorrono, alla pari, alla produzione economica regionale. Regimi di produzioni differenti e compresenti: il primo gode di un ampio regime di visibilità, al limite della sovraesposizione, nella costruzione di un immaginario che induce all’omissione dell’oscura e inconfessabile violenza nelle campagne.

La morte di Mohamed ci ha insegnato – per l’ennesima volta – che la schiavitù non è un retaggio del passato ma una configurazione possibile di vita e di morte nel sud Europa, che i discorsi apertamente o celatamente razzisti producono conseguenze assolutamente tangibili sui corpi delle migranti e dei migranti, che il razzismo, vecchio e nuovo, è un terribile dispositivo di governo della forza lavoro migrante, e ha fatto luce sulla persistenza di condizioni coloniali nel mondo contemporaneo, fino al cuore delle regione d’Italia che si è autonarrata come innovatrice, in rapida trasformazione, accogliente e aperta.

Inutile negarlo: il confine è al centro dell’esperienza sociale ed economica pugliese. È un punto di vista essenziale per capire cosa attraversa la Puglia e, con essa, tutti i sud d’Europa. Gli effetti sul mercato lavoro del controllo dei confini sono più diretti, pervasivi, terribilmente efficaci di quanto si possa immaginare: Mohamed non può più raccontarlo. Che la dignità di Marian, invece, ci insegni a rendere visibili le condizioni di esistenza di tutti i Mohamed e le Marian del mondo, e a lottare con loro per la libertà e l’uguaglianza di tutte e tutti.

Link utili:
- archivio.internazionale.it/webdoc/tomato (The Dark Side of the Italian Tomato, webdoc di Mathilde Auvillain e Stefano Liberti)

vedi sito Euronomade

Avete un nome ben preciso, schiavisti

  • Lunedì, 03 Agosto 2015 11:51 ,
  • Pubblicato in COMUNE INFO

Comune - info
03 08 2015

di Saverio Tommasi*

Ho avuto la possibilità di vedere “Dodici anni schiavo”, il film premio oscar. Racconta la storia vera di Solomon Northup, nero nato libero e rapito per essere venduto come schiavo. E così restò, fra sevizie e soprusi, per dodici anni. Venne liberato, alla fine del film e a due terzi della sua vita, grazie a un incontro casuale con un abolizionista canadese.

Per il resto della sua vita da uomo libero Solomon Northup visse abbracciato alla sua famiglia e impegnandosi per l’abolizione della schiavitù. E aiutando gli schiavi a fuggire tramite la linea ferroviaria. Ripeto: e aiutando gli schiavi a fuggire tramite la linea ferroviaria.

Io, oggi, non vedo molta differenza fra quelli che vorrebbero la reintroduzione del reato di clandestinità, quelli che vorrebbero che la sanità pubblica non curasse chi non è in regola con il permesso di soggiorno, quelli che esultano quando un barcone affonda, e gli schiavisti del 1841, la data di inizio della storia del grande Solomon Northup. Niente di più, niente di meno.

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* Attore, scrittore, blogger, Saverio Tommasi è nato a Firenze e ama raccontare storie. “Il mio mestiere – scrive nel suo sito – è vivere le storie… Sul campo. Sul palco, attraverso una telecamera o un libro. Mostrare ciò che non si ha interesse a disvelare”. Quali storie? “Storie scomode. Voglio alzare i tappeti e raccogliere la polvere”. Ha scelto di inviare i suoi articoli a Comune con molto piacere

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