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Ttip, un trattato contro il clima

  • Martedì, 16 Giugno 2015 11:59 ,
  • Pubblicato in Flash news

Sbilanciamoci
16 06 2015

Il grande freddo/Il trattato transatlantico dà l'ok alle importazioni di idrocarburi non convenzionali come lo shale gas e stoppa la possibilità di tariffe energetiche sociali
Washington è attualmente impegnata in due importanti accordi commerciali multilaterali di negoziazione: il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, con i 28 Paesi dell'UE) e la Trans-Pacific Partnership (TPP, con 11 Paesi nella regione Asia-Pacifico e Americhe).

Va qui ricordato che quando si tratta di esportazioni di GNL o shale gas, la legge statunitense concede l'approvazione automatica alle applicazioni per i terminali destinati a spedire il gas ai paesi che hanno sottoscritto accordi commerciali con Washington, mentre le richieste di terminali GNL per inviare il gas altrove, al contrario, devono passare-attraverso un processo di valutazione, che determina se tale commercio è nell'interesse nazionale degli Stati Uniti. Questo è il nodo che gli Stati Uniti vogliono risolvere una volta per tutte a loro vantaggio e a vantaggio delle loro imprese, sia con l’UE che con i Paesi asiatici (Cina e India escluse) e dell’Oceania.

Per quanto riguarda il Ttip, e considerando il caso specifico dell’energia, il risultato del reciproco riconoscimento degli standard ambientali potrebbe essere il proliferare di tecnologie controverse come la fatturazione idraulica (fracking) per produrre il gas di scisto, con gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto: le compagnie estrattive interessate ad operare in questo settore potrebbero – sulla base delle norme previste - chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. Diverse imprese energetiche USA hanno posato gli occhi sui giacimenti europei di gas di scisto (specialmente in Polonia, Danimarca e Francia) e potrebbero avvalersi del TTIP per smantellare i divieti e le moratorie nazionali adottate per proteggere i cittadini europei. Nella sua attività di lobby BusinessEurope, la più grande federazione di datori di lavoro europei, che rappresenta le maggiori multinazionali d’Europa, sollecita un capitolo energia che renda libero il flusso di petrolio e di shale gas dagli USA all’Europa. Ad oggi infatti non esiste export petrolifero dagli USA e per il gas si attende il 2016, ma esistono molte restrizioni legislative oltreoceano al riguardo. L’eliminazione di qualsiasi restrizione all’export di materie prime fossili in Europa è la richiesta di una industria europea che, consapevole dell’esaurimento delle risorse del vecchio continente (la produzione domestica di petrolio è stimata in calo del 57% al 2035 e quella del gas del 46%), ignora la possibilità della rivoluzione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza e rimane ancorata a carbone, gas e petrolio.

L’Unione, dal canto proprio, ha fatto di tutto nell’ultimo periodo per preparare il terreno delle importazioni di idrocarburi non convenzionali. Ha stracciato tutti i regolamenti che si era data per limitare l’inquinamento, come la direttiva sulla qualità dei carburanti e quella sulla qualità dell’aria. Un regalo all’industria automobilistica da una parte, alle multinazionali dell’energia fossile dall’altra.

Interessante in questo quadro è notare la predisposizione del nostro Governo a anticipare le avances americane e a offrirsi come l’approdo (hub) europeo del gas. Federica Mogherini, alto rappresentante Ue per gli affari esteri e certo non estranea alle posizioni italiane al riguardo, ha fatto pressioni a dicembre sul segretario di Stato americano John Kerry per inserire il capitolo sull’energia nel Trattato e, con esso, aprire un canale di importazione per lo shale gas americano. Mogherini ha sostenuto che un capitolo sull’energia nell’accordo di libero scambio potrebbe rappresentare “un punto di riferimento per il resto del mondo” in fatto di mercati energetici.

Per i biocombustibili, il TTIP, attraverso l’armonizzazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti di bilancio di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale.

Per le rinnovabili si profila il divieto assoluto di “domestic content nelle energie alternative” (quindi addio ad ogni connessione tra sviluppo locale e green economy), con stretti limiti alla possibilità in uso in Europa di incentivare le fonti naturali. In particolare, l’articolo O della bozza al comma a) vieta ai Governi di far valere “requisiti relativi al contenuto locale” nei programmi per le energie rinnovabili. Tradotto dal burocratese, significa abolire la corsia preferenziale per favorire chi produce e consuma sul posto energia rinnovabile.
Nei carburanti da autotrazione sono differenti i limiti inquinanti e anche qui il rischio è un accordo al ribasso.

L’articolo D al punto 2, stabilisce che i Governi, in materia di energia, abbiano la possibilità di mantenere obblighi relativi all’erogazione dei servizi pubblici solo finchè la loro politica non è più onerosa del necessario. Diventerebbe quindi praticamente impossibile accordare ai più poveri e ai più deboli una “tariffa sociale” ribassata del gas o dell’energia elettrica. Prezzo di mercato per tutti, senza se e senza ma! (ma Renzi ci ha già pensato e la tariffa di maggior tutela per gas e elettricità cesserà per decreto tra un anno e mezzo).

Huffingtonpost
10 02 2015

Si è concluso venerdì 6 febbraio il tour italiano dell'attivista e scrittrice canadese Naomi Klein, pluri insignita autrice di due testi divenuti pietre miliari nella scarna letteratura main stream che approccia ad una critica di sistema rispetto agli assetti dell'economia globale.

Dopo No Logo e Shock Economy, best seller da un milione di copie ciascuno tradotti in 30 lingue e distribuiti in tutto il mondo, la Klein è in giro per il pianeta per presentare la sua nuova fatica. Più di cinque anni di lavoro profuso in oltre 700 pagine Una rivoluzione ci salverà - Perchè il capitalismo non è sostenibile è appena uscito anche in Italia, edito da Rizzoli.

La Klein ha l'indiscusso merito di aver portato la questione del cambiamenti climatici all'attenzione di un pubblico molto più ampio dell'ambito dei tecnici e degli attivisti interessati a tali questioni. Dopo le presentazioni a Mantova e Venezia, la scrittrice è giunta a Roma per l'ultima data italiana tenutasi il 4 febbraio: un grande evento promosso da diverse realtà sociali in collaborazione con la Rizzoli: l'Associazione A Sud, Action e Spin Time, il cantiere di rigenerazione urbana ubicato a San Giovanni, recuperato ed autogestito da oltre un anno dopo 10 anni di abbandono, che ha ospitato il partecipatissimo evento per il quale sono giunte circa 1.000 persone.

Salvare il clima o il capitalismo?
Il titolo originale This change everything - Capitalism VS The Climate rendeva di certo maggior giustizia alla tesi di fondo contenuta nel libro: il 97% degli scienziati sono concordi nel ritenere che il clima sta cambiando in maniera rapida e irreversibile e che per farvi fronte è necessario ridurre le emissioni del 70% entro il 2050. Questi i numeri contenuti nell'ultimo rapporto dell'Ipcc, il panel delle Nazioni Unite creato nel 1988 con l'obiettivo di studiare le variazioni del clima, valutandone cause e soluzioni. Una tale riduzione sarebbe possibile soltanto con un radicale e repentino cambiamento di paradigma economico: transizione energetica, riconversione ecologica, rivoluzione dei modelli di consumo e di trasporto. Tutte misure che necessitano di pianificazione pubblica e di distogliere fondi dagli investimenti speculativi per investirli in politiche di decarbonizzazione, in netta rotta di collisione con il mantenimento delle regole di funzionamento del capitalismo deregolamentato, per dirla alla Klein, aiutato nella generazione di disuguaglianze da politiche di austerity, trattati di libero commercio e privatizzazioni.

In altre parole, scrive la Klein, siamo di fronte ad una scelta di campo: salvare il pianeta dai cambiamenti climatici salvando anche noi attraverso un immediato cambio di rotta, oppure salvare il capitalismo così come lo conosciamo, e assieme ad esso gli interessi delle èlite, delle multinazionali del petrolio e dei colossi economici e finanziari.

La rimozione della questione "clima" in Italia
Si tratta di un approccio radicale che non trova spazio nelle riflessioni e nelle proposte politiche che contraddistinguono il panorama italiano. Ne parlasse chiunque altro, in qualunque italico consesso, sarebbe additato quale pericoloso estremista. Ma siccome si tratta di un'icona mondiale, che raccoglie attorno a sé attenzione quasi morbosa, anche nel nostro paese per un paio di giorni il clima è sembrato essere una preoccupazione generale.

Inutile dire che in Italia il tema dei cambiamenti climatici è totalmente assente dall'agenda politica ed dal dibattito pubblico, nonostante sia alle porte l'attesa Cop 21 a Parigi, dove i governi si ritroveranno per siglare l'accordo destinato a sostituire il Protocollo di Kyoto. Ciononostante non vi è politico, giornalista, analista, imprenditore o semplice cittadino che abbia a mente o ritenga importante discutere della minaccia rappresentata dal riscaldamento globale. Minaccia tutt'altro che astratta, che per milioni di persone in tutto il mondo vuol dire possibilità o meno di futuro sotto forma di desertificazioni, inondazioni, innalzamento dei livelli del mare, eventi estremi, sfollamenti forzati, flussi migratori senza precedenti.

Solo a settembre il premier Renzi, partecipando al Climate Summit di New York aveva dichiarato che il clima deve essere "una priorità per la politica, la sfida principale da affrontare, come la scienza consiglia, e che dobbiamo garantire ai nostri figli che a Parigi gli impegni saranno vincolanti". Peccato che, neppure due mesi dopo, il suo governo condizionava con doppio voto di fiducia, alla Camera e al Senato, la conversione in legge del decreto Sblocca Italia, che condanna il paese a tutt'altro futuro: mega infrastrutture, perforazioni petrolifere off shore, raddoppio delle estrazioni on shore, incenerimento dei rifiuti, privatizzazioni, centralizzazione dei poteri concessori e di valutazione degli impatti presso i ministeri, a scapito degli enti locali e dunque delle comunità.

La Klein in Parlamento
Durante la mattinata del 4 febbraio la scrittrice è stata ricevuta in parlamento da una delegazione di parlamentari. A convocare l'incontro, cui hanno partecipato anche rappresentanti del Pd, del M5S e del gruppo misto, il gruppo parlamentare di Sel.

Dopo averne ascoltato le parole, Nichi Vendola ha ringraziato la scrittrice perché "svela cosa c'è dietro tanti discorsi: l'urgenza di intervenire sul modello di capitalismo distruttivo e sul concetto stesso di ricchezza". Il gruppo di Sel si è detto disponibile a lavorare verso Parigi per costruire strumenti di incidenza istituzionale, a partire dalle amministrazioni locali in cui hanno incarichi di governo e sostenere processi sociali di articolazione e mobilitazione. Ulteriore intenzione espressa, quella di lavorare affinché il governo arrivi a Parigi con proposte di riduzione ambiziose e sostanziate da politiche nazionali coerenti. Chiaro che in questo scenario, con lo Sblocca Italia in via di implementazione e un Ministro dell'Ambiente più preoccupato della crescita economica che della salvaguardia del territorio, la possibilità che quest'ultima evenienza si avveri è tutta da verificare.

Serena Pellegrino, deputata di Sel, membro della Commissione ambiente, ha riportato ai presenti notizia della creazione, a settembre scorso, di Globe Italia, l'intergruppo parlamentare Camera-Senato per i cambiamenti climatici. Entità nuova di cui nessuno dei presenti, comprese le realtà sociali operanti sul tema, avevano contezza. Del resto, come la stessa Pellegrino ha rilevato, sino ad ora i lavori del gruppo si sono risolti in un unico incontro e non vi è all'orizzonte la previsione di un piano strategico di lavoro in grado di condurre le istituzioni italiane con posizioni avanzate all'appuntamento parigino.

Presente all'incontro anche Stefano Fassina del Pd, che ha ribadito, come affermato dalla Klein, il ruolo dei Trattati di Libero Commercio nell'imposizione di regole stringenti che imbrigliano ogni anelito di cambiamento. Nel suo intervento ha accennato alle negoziazioni in corso per la sigla del Ttip, il Trattato transatlantico tra Usa e Ue, sollevando i rischi connessi a tale sigla. Tra essi, per citarne solo alcuni, l'implementazione in Europa di tecniche estrattive non convenzionali come il fracking, l'introduzione di Ogm e di enormi quantità di biocombustibile prodotto senza rispettare alcun criterio di compatibilità ambientale.

In Italia una rete sociale che raccoglie centinaia di gruppi locali sta portando avanti la campagna Stop Ttip Italia, con l'obiettivo di fare informazione e pressione contro questo trattato, che certo gode dell'appoggio incondizionato del partito di appartenenza di Fassina, a partire da Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo Economico di Renzi e incaricato per l'Italia delle negoziazioni, che ha appena lasciato, notizia di ieri, Scelta Civica per ingrossare le fila del Partito democratico. Contro il Ttip è possibile firmare l'Ice, iniziativa dei cittadini europei, a questo link.

Che clima per l'informazione?
Ultima riflessione stimolata dalla presenza in Italia della Klein riguarda l'annoso tema dell'informazione. Oggetto di un'operazione di continua rimozione da parte dei media, soprattutto main stream, le questioni ambientali latitano nella percezione dell'opinione pubblica, e i cambiamenti climatici non fanno eccezione, anzi. Al di là di riviste specializzate e testate tematiche, neppure la pubblicazione dei report scientifici dell'Ipcc o gli stessi vertici internazionali riescono a bucare il velo di silenzio. In Italia si parla di clima soltanto quando, peraltro ormai ciclicamente, Genova finisce sott'acqua, o se un alluvione si porta via vite, case, attività economiche e speranze di interi territori. Ma anche in quel caso, il legame con l'emergenza climatica globale è tutt'altro che espressa.

Ospitata in diversi programmi Tv, da Ballarò, in cui un disguido tecnico ha interrotto bruscamente l'intervista, impedendo di ascoltarne le parole, a Pane Quotidiano, e su testate come Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Il Fatto Quotidiano, Il Manifesto, L'Indro etc. la Klein ha riportato per 48 ore sui media main stream la questione connessa al contrasto ai cambiamenti climatici. Il che di per sé è già un merito enorme.

Merito che diverrebbe un miracolo se si riuscisse a passare dall'attenzione per il personaggio all'attenzione per i temi, sia da parte del mondo politico che dell'informazione, traducendo tale attenzione nel dare voce e seguito a chi, su questi temi, lavora tutti i giorni, non solo al passaggio della star di turno.

 

Il cambiamento climatico spiegato ai duri di cuore

Il Fatto Quotidiano
22 01 2015

Confessiamolo: si fa una certa fatica a leggere (e a scrivere) dell’ennesimo record assoluto nel trend di anomalie climatiche che caratterizza la nostra epoca. Il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1880 a oggi, ci dicono la NASA e la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Eppure nell’anno appena trascorso vi sono state ondate di gelo in molte regioni, penseranno alcuni; eppure siamo ancora qui, diranno altri. E non molto è cambiato. Questo climate change con il quale scienziati, apocalittici e grilli parlanti ci catechizzano periodicamente non dev’essere poi la catastrofe che si dice.

Per chi fosse appena meno cinico o disinformato, vi è comunque una misura di assuefazione a questo tipo di notizie, e a tutti i moniti che regolarmente ne conseguono. Come se fossimo tutti consapevoli di quanto sta avvenendo e tutti, al contempo, rassegnati al fatto che avvenga. Il cambiamento climatico è una dinamica talmente complessa, innescata da un concorso di così tanti fattori , spesso remoti e non direttamente controllabili, che viene da gettare la spugna e accada quel che accada. Ci si può sempre illudere che il problema sia confinato a qualche orso polare a corto di ghiaccio, a qualche isoletta disabitata del Pacifico che finisce sott’acqua.

E possiamo continuare a chiamare ‘alluvioni’ fenomeni inediti per frequenza e violenza; o inventare dizioni nuovissime e fesse – vedi le ‘bombe d’acqua’ – per la gioia dei titolisti e l’ignoranza di tutti. Si contano morti, danni, perdite economiche, si fanno stime di raccolti mancati, si osservano migrazioni epocali dovute a carestie e siccità… È tutto più o meno normale.

Il 2014 è stato l’anno più caldo di sempre, nonostante non si sia verificato l’ENSO (El Niño Southern Oscillation), un fenomeno climatico spesso associato a questo tipo di record. Nove dei dieci anni più caldi, nella serie storica di queste rilevazioni, sono tutti concentrati a partire dal 2000 in poi. C’è un trend solido, crescente ed evidente anche a un bambino.

Negli stessi giorni in cui veniva diffusa la notizia del record del 2014, uno studio pubblicato su Nature indicava una soluzione chiara e precisa per contenere il cambiamento climatico: oltre l’80 per cento delle riserve conosciute di carbone, così come metà di quelle di gas e un terzo di quelle di petrolio, non devono essere estratte (ovvero: non devono essere bruciate). Per fermare il cambiamento climatico bisogna abbandonare le fonti fossili.

Incidentalmente, se riuscissimo a cambiare il modello energetico otterremmo qualche vantaggio concreto aggiuntivo: risparmi sulle nostre spese energetiche e sui nostri consumi; abbattimento dei costi sanitari dovuti all’inquinamento; ci risparmieremmo qualche guerra (no, non è una leggenda: molti conflitti sono innescati e alimentati dalla contesa per le risorse fossili) e le spese militari correlate; difenderemmo comparti strategici come agricoltura e turismo. Potremmo creare lavoro investendo sulle rinnovabili, risparmiando gli oltre 500 miliardi di dollari pubblici che ogni anno, a livello globale, regaliamo alle energie sporche (almeno 9 miliardi di euro in Italia). E, per i più retrivi: potremmo persino ridimensionare i fenomeni migratori.

Insomma: non è questione di orsi polari in pericolo, non solo. Pensiamoci.

Greenpeace

Il Fatto Quotidiano
16 11 2014

di Franco Fondriest e Luca Lombroso - Esperti di politiche ambientali 

E’ difficile scrivere, con quel che sta succedendo in queste ore in Liguria, ma non solo, per gli effetti del maltempo e delle violente e ripetute perturbazioni. Molte cose le abbiamo già dette in precedenti post che non stiamo a ribadire, ma vediamo un attimo di riflettere alla luce degli ultimi eventi meteorologici estremi.

Cominciamo da questo; da cosa sono dovute piogge così intense? Ovviamente dalla situazione meteorologica, la configurazione sinottica, ovvero la disposizione delle isobare e altri particolari tecnici è quella tipica delle situazioni da piogge intense. La componente meteorologica è però solo l’aspetto diretto del problema. D’altronde non è solo colpa di tronchi abbandonati o mancata pulizia (o per opposto deforestazione) dei fiumi. Occorre una visione per così dire olistica, non tuttologa ma senz’altro multidisciplinare dei problemi.

Anzitutto, sappiamo, lo stato del territorio, il dissesto idrogeologico; senz’altro e soprattutto, per la Liguria, la cementificazione selvaggia del territorio, con case, fabbriche e infrastrutture a ridosso dei fiumi. Basta questo video per rendere l’idea; non sappiamo dire, noi, se quell’area o cantiere avessero le carte in regola, probabilmente sì e senz’altro ce l’hanno molte case, strade, parcheggi, ristoranti ecc…inondati. Ebbene, i cittadini dovrebbero essere doverosamente informati e a loro volta prendere atto che non basta una licenza edilizia per essere al sicuro. Il clima sta cambiando sotto i nostri occhi e il territorio dissestato fa il resto. Ciò che vale in passato, già lo avevamo detto ma va ribadito, non vale più oggi e ancor meno varrà in futuro.

E riguardo il clima, se per la terza (o quarta? o quinta?) volta in meno di un mese una regione è flagellata da piogge molto abbondanti, di per sé non forse eccezionali ma senz’altro che si sono ripetute a catena, c’è qualcosa che non va. Ribadiamo nuovamente che non è vero che ci sono inondazioni per “quattro gocce di pioggia”. Non stiamo a snocciolare qua dati, ma alcuni confronti. A Genova in meno di un mese è piovuto più di quanto dovrebbe piovere, mediamente, in un intero anno; in singoli episodi ci sono state piogge di 300-400 mm, talvolta in poche ore, valori degni, veramente, di aree monsoniche o cicloni tropicali. Poi, se si riempiono d’acqua i grandi laghi come il Maggiore il lago di Como, ed anche il “grande fiume”, il Po, è chiaro che di pioggia ne è caduta troppa.

Tutto questo, dice la scienza, non può essere “attribuito” direttamente ai cambiamenti climatici, ma corrisponde proprio agli scenari conseguenti che ci si aspetta dal climate change. L’American Meteorological Society ha recentemente pubblicato un report, sull’anno 2013, dove per molti eventi catastrofici nel pianeta è stata dimostrata una probabile concausa nei cambiamenti climatici.

Tutto questo ovviamente non intende nè deve giustificare colpe, mancanze e responsabilità ed anzi sono un’aggravante per l’inazione al riguardo a tutti i livelli, da quelli locali a quelli dei “potenti” del pianeta, ma anche dei singoli, ed anche del mondo economico. Certo, la burocrazia non va bene, e tutti corrono a lamentarsi se non viene autorizzato, che so, un centro commerciale o solo uno scantinato a casa propria. La burocrazia dovrebbe essere snella, ma chiara. Ergo, deve adeguarsi ai cambiamenti climatici; se in un posto non si deve costruire, NON deve essere autorizzato, e in qualche caso occorrerebbe, non facile, spostare interi insediamenti.

Una riflessione merita poi l’episodio della caserma dei Vigili del Fuoco di Albenga, allagata. Come per la centrale Telecom allagata a Parma, che ha messo ko per giorni i cellulari Tim in mezza Emilia, questi sono classici casi di cosa è la strana parola, oggi sempre più di moda, resilienza. O meglio, sono esempi di cose da NON fare per essere resilienti. Strutture strategiche in posti sbagliati e magari, come la centrale Telecom di Parma, cruciali per aree molto vaste.

Dunque, prendiamo atto dei vari problemi, cause e concause delle alluvioni. Abbandono delle montagne e dei boschi, cementificazione, dissesto del territorio, mancanza di manutenzione corretta, scelte sbagliate varie, ecc. Se a tutto questo aggiungiamo i cambiamenti climatici, che sono una sorta di “colpo di grazia”, “conditi con la crisi economica che rende difficoltoso spendere i soldi (per inciso, ci sono ma vanno sprecati altrove, esempio grandi opere) e magari un domani non lontano la crisi energetica conseguente il peak oil, abbiamo una vera e propria “tempesta perfetta” che fa delle alluvioni una “nuova normalità”.

Diciamolo chiaro, prima di sistemare tutto questo occorrerà tempo e con questa situazione dovremo convivere a lungo.

Climate changeRepubblica.it
2 novembre 2014

Le concentrazioni di gas serra nell'atmosfera sono ai massimi livelli da "800.000 anni a questa parte". Tra il 1880 e il 2012 la temperatura della superficie terrestre e degli Oceani è salita di 0,85°C, a un ritmo troppo veloce. Resta poco tempo per intervenire e mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia dei 2°C.

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