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04 08 2015
di Pietro Ratto
Buongiorno, volevo chiedere un congedo parentale. So che ne ho diritto per un massimo di trenta giorni, interamente retribuiti. Così, tanto per stare un po’ di più con mia figlia.
La segretaria guarda il professore con sospetto: quanti anni ha sua figlia? Tre. Tre già compiuti? Si, da qualche giorno. Allora no, non può. Il Ministero della Pubblica Istruzione le riconosce la retribuzione intera solo fino al terzo anno di età del figlio. Che strano!, pensa il professore. Che abbia letto male? Così ringrazia ed esce dall’Ufficio del personale. Tornato a casa, va a leggere bene. Dunque.. Decreto Legislativo 26.03.2001, n. 151 … Uhm, sì: è vero.. un massimo di trenta giorni di congedo parentale interamente retribuiti, solo fino al terzo anno di età del figlio… Ma non c’è anche un Contratto? Cerchiamo.. Eccolo, il CCNL per il comparto scuola.. Vedi? Non mi sbagliavo mica: l’articolo 12 estende il diritto fino agli otto anni di vita del bimbo..
La mattina dopo l’insegnante-genitore torna alla carica. Spiega cos’ha trovato, sommerge la segretaria di articoli e normative. Le conviene parlare col Preside, sa? Non so mica se lui sia disposto a concederglielo.. Non sa “se sia disposto a concedermelo”? Ma cos’è, un regalo? In un attimo il prof è in Presidenza. E in effetti le cose stanno così. Il Dirigente Scolastico ha ben presente il suo diritto, ma c’è un piccolo problema: non può concedermelo. Il Ministero non glielo permette. Il Ministero deve risparmiare, e questo genere di diritti non li riconosce. Entro i tre anni di vita, altrimenti il congedo non è pagato; punto e basta!
L’insegnante-genitore-allibito non demorde. Ah sì? Bene, allora vado di là e questo cavolo di congedo lo chiedo subito. Così, se poi mi viene negato faccio ricorso. Benissimo, faccia pure.
L’insegnante-genitore-allibito-incazzato “fa pure”! Entra, compila, firma. Tre giorni di congedo parentale per la bimba di tre anni e qualche giorno, prego. Dal 3 al 5 aprile 2013. Non le conviene chiederlo per l’altra figlia, professore? Quella che ha solo qualche mese, no? Così il permesso glielo accordano di sicuro. No, no. E’ una questione di principio.
Qualche giorno dopo, ecco il provvedimento del Dirigente, che gelidamente nega la pur dovuta retribuzione del congedo richiesto.
Col fogliaccio in mano, l’insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito va in cerca di sindacalisti. Tutti la stessa solfa: ma non ha detto che ha una bimba più piccola, di qualche mese? E lo chieda per lei ‘sto congedo, no? Visto che ha questa fortuna..! Roba da pazzi. Roba da pazzi!
Che si fa? Che facciamo? Com’è più che diceva mia madre? La dignità al primo posto! Cos’è che consiglia mia moglie? E’ una questione di principio, bisogna lottare! Niente da fare: il segreto della felicità è circondarsi di donne in gamba.
Quindi, eccolo dall’avvocato. Che gli fa anticipare una cifra esattamente doppia rispetto a quanto la scuola non gli ha pagato per quei dannati tre giorni di permesso. Ma è una questione di principio, no? E allora cacciamo i soldi. Bisognerà pur ricominciare a insegnare le questioni di principio, ai nostri giovani. Mica vogliamo che vengan su come la gentaglia che ci governa.. E le questioni di principio si insegnano con gli esempi concreti, quelli che viviamo sulla nostra pelle.. Non certo con la teoria.
Così, viene redatto il ricorso, super dettagliato, a cui l’Aran (l’Agenzia per la Rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) controbatte con una smilza “interpretazione” delle norme in questione, fornita dal ministero. Da una parte tutto un ragionamento basato sull’evidenza della legge, dall’altro una semplice “interpretazione” ministeriale. Che naturalmente dovrebbe bastare a cancellare un diritto, stile ventennio fascista. Il piccolo docente contro la gigantesca macchina del ministero. L’apoteosi della burocrazia.
Alla prima udienza, il 2 ottobre 2014, il Giudice del lavoro straluna. Non ne ha mai sentito parlare. Dice di volersi prima documentare. E’ logico: sono anni e anni che quando un docente si sente negare un diritto, piuttosto che rimetterci qualche soldo da un avvocato si tira indietro. E non capita solo agli insegnanti, probabilmente. Quindi? Se ne riparla a dicembre. Il 10 di dicembre, per l’esattezza, quando il Giudice annuncia che non intende ancora andare a sentenza. Dice che la cosa non è chiara, che non ha senso che un ministero firmi con i sindacati contratti collettivi che prevedono certi diritti, per poi fornire interpretazioni che li negano. Vuol capire meglio, il Giudice. E dà due mesi di tempo all’ARAN per incontrare i sindacati e dirimere la questione. Lo fa ai sensi dell’art. 64 del D.Lgs. 165/2001. Un’occasione mica da poco, insomma, che trasforma tutto l’ambaradan in un vero e proprio processo-pilota. Dal singolo caso di un insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito-fierodisé ci si proietta in un lampo a un diritto di tutti gli insegnanti-genitori italiani.
Ma l’ARAN se ne frega, in quei due mesi non convoca proprio nessun sindacato e ribadisce, lapidario, la sua “interpretazione”. Il 30 aprile, così, il Giudice va a sentenza. E condanna il Ministero.
L’iter processuale che è stato intrapreso, però, è molto particolare. Così, la sentenza è ancora da considerarsi “provvisoria”: in pratica, si dà al Ministero l’ulteriore possibilità di ricorrere entro due mesi. E non in Appello: in Cassazione. Due gradi di giudizio invece che i soliti tre, insomma.
Il 28 luglio 2014, il Giudice del lavoro riconvoca le parti, e sbigottisce. L’avvocato del Ministero ammette che l’ARAN non ha provveduto ad effettuare ricorso perché “se l’è dimenticato”. Quasi risentito, il magistrato rende definitiva la sua condanna nei confronti del Ministero e di quell’istituto che non ha retribuito l’insegnante-genitore-soddisfatto. Quel liceo dovrà pagare i tre giorni di permesso, sì, ma anche tutte le spese legali. Duemila euro, per la precisione.
Non li pagherà mica il preside, quei duemila euro, no. I presidi possono negar diritti senza perderci nulla. Se un tribunale condanna il loro comportamento, paga la scuola. Paga l’amministrazione pubblica. Paghiamo tutti noi, insomma. In questo caso, poi, a rimetterci sono soprattutto gli studenti di quella specifica scuola, perché i soldi che finiranno nelle tasche degli avvocati sono gli stessi con cui si sarebbero potute riparar lavagne, comprar carta igienica, cambiar toner alle fotocopiatrici… Tutte cose che non si fanno perché “non ci sono i fondi”. Quegli stessi fondi che, invece, quando li si butta in spese legali per riparare alle decisioni illegittime di un Dirigente, ci sono eccome.
L’avventura dell’insegnante-genitore-retribuito è così finita. Potrà servire a incoraggiare altri docenti a far valere di più i propri diritti? Non lo so. Sinceramente non lo so. Ma una cosa, con un pizzico di orgoglio, ve la voglio proprio confidare.
Quell’insegnante sono io.
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Questo articolo è tratto da Bosco Ceduo, l’ottimo blog di Pietro Ratto, che ringraziamo. Lo abbiamo visto pubblicato però su un altro blog con cui siamo sempre strafelici di scambiare le “figurine” del nostro racconto sociale, la Bottega del Barbieri. Per esigenze grafiche, abbiamo dovuto leggermente modificare il titolo originale, che era Il congedo
Tags:diritti, educare, scuola
la Repubblica
11 06 2015
"Da padre e ora nonno di tre splendidi nipoti, so quanto sia meraviglioso il primo anno di vita di un figlio, ma anche quanto duro lavoro comporti per i genitori". Con queste parole, il miliardario Richard Branson che lega il suo nome alla introdotto in azienda - ma solo per alcuni fortunati - la possibilità di sfruttare un congedo parentale da un anno, a stipendio pieno. Si tratta di un passo ulteriore che segue l'introduzione di una nuova legge, nel Regno Unito, che permette a mamme e papà di dividersi a loro piacimento un congedo da 50 settimane, di cui 37 a paga ridotta.
Ci sono alcuni limiti alla proposta di Branson, come riporta Cnn Money in un articolo che infiamma la rete. Riguarda le 140 persone dello staff di Virgin Management di Londra e Ginevra, la branca del gruppo che si occupa degli investimenti e della gestione dei marchi. Ci sono anche dei vincoli per sfruttare la possibilità di mantenere il 100% dello stipendio: i dipendenti devono avere un'anzianità di almeno 4 anni nella compagnia. Quelli che sono al di sotto dei due anni, invece, scenderanno al 25% del salario per 52 settimane.
L'iniziativa segue quella dell'autunno scorso, con la quale Branson ha introdotto il concetto di "ferie illimitate", che si appoggia sul buon senso e l'appartenenza del management. E' solo una delle tante che fanno del magnate un esempio di "innovatore", con fortune alterne. In questo caso, però, così come per quello dell'abolizione delle richieste di permessi limitati, 50mila dipendenti restano fuori dai giochi.
La Cnn nota che anche altre aziende hanno adottato politiche di flessibilità, proprio mentre in Italia il tema della conciliazione dei tempi di vita e lavoro dovrebbe essere al centro dei pensieri del governo. Goldman Sachs, banca d'investimento principe di Wall Street, ha recentemente garantito ai neo-papà più tempo (pagato) da trascorrere con i figli, portando da due a quattro settimane il congeto per il fiocco rosa/azzurro. Vodafone concede alle mamme, invece, almeno 16 settimane di maternità a pieno assegno, e quando tornano al lavoro possono farlo ad orario ridotto (ma sempre stipendio intero) per altri sei mesi.
Corriere della Sera
09 11 2014
di Agostino Gramigna
Se gli indicatori economici fanno dire agli esperti che gli Usa vanno più veloci dell’Europa, i dati sui congedi parentali mostrano una tendenza opposta: in quattro anni (2010-2014) la quota delle aziende a stelle e strisce che offrono la possibilità ai papà di assentarsi per occuparsi dei bebè è sceso di cinque punti percentuali (Società per la Gestione delle Risorse Umane).
Paradosso della storia. Almeno a sentire il New York Times, che così sintetizza la questione: fare il «mammo», come si chiama da noi poco bonariamente il papà casalingo, potrebbe penalizzare la carriera dei maschi. Che si troverebbero ad affrontare gli stessi problemi che hanno in molte parti del mondo le donne, quando si assentano dal lavoro alla nascita di un figlio.
Una questione «femminile» al maschile. Il giornale cita il caso di Todd Bedrick, un contabile che s’è preso una lunga pausa dalla Ernst & Young per dedicarsi alla figlia. Ha imparato a cullare, a farla addormentare e ha elaborato un sofisticato congegno per far congelare e scongelare il latte materno di sua moglie. Ma un sociologo, Scott Coltrane, che studia la paternità all’Università dell’Oregon, ammette che ancora qualche pregiudizio c’è sugli uomini che affermano di mettere al primo posto i figli rispetto al lavoro. Perché il caso Bedrick rischia di mutare profondamente la cultura sul posto di lavoro.
La famiglia del contabile della Ernst & Young ne ha tratto beneficio, sua moglie Sara guadagna di più e ha meno possibilità di entrare in depressione nei nove mesi dopo il parto. Il problema, secondo recenti opinioni di sociologi americani, è che con le donne capofamiglia soddisfatte, i maschi cominciano a preoccuparsi degli effetti che il congedo di paternità potrebbe avere sulle loro carriere.
Una situazione simile, per certi aspetti, a quella italiana, dove la sfida non è solo convincere i datori di lavoro ad offrire il congedo, ma gli uomini a prenderlo. Le statistiche mostrano che sono ancora basse le percentuali dei maschi che accedono al congedo parentale. Per l’Istat solo il 7 % dei padri vi fa ricorso. L’Inps grosso modo fotografa lo stesso: l’88% dei congedi facoltativi è appannaggio delle donne.
Per Paola Profeta, professoressa di Scienze delle finanza all’Università Bocconi, la situazione è destinata a restare così, anche in futuro, in assenza di una vera svolta culturale. «Lo squilibrio è tutto a sfavore delle donne che hanno stipendi mediamente inferiori a quelli dei loro mariti. Con una retribuzione al trenta per cento in caso di congedo si fa presto a fare due calcoli in famiglia e optare per far restare a casa la donna».
Per la professoressa bocconiana la strada da seguire è quella dei Paesi scandinavi: «In Svezia o in Norvegia si arriva fino a un mese di congedo obbligatorio retribuito per i maschi. Solo così è stato possibile ridurre lo sbilanciamento dei ruoli che in Italia assegna prevalentemente alle donne la cura dei bambini. Se tutti i maschi avessero gli stessi diritti si attenuerebbe anche l’effetto americano: la rinuncia per paura di limitare la carriera».
I dati Eurostat dicono che in Italia la spesa per congedi è pari allo 0,2% del Pil. In Svezia siamo allo 0,8%. Anche se rientriamo tra i Paese più generosi quanto a soldi per maternità.
Tuttavia i numeri non dicono tutto. Almeno per Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale all’Università di Bergamo che alla paternità ha dedicato un libro. Riconosce che ancora i numeri sono bassi. Ma dopo aver condotto un’indagine sociologica sul campo s’è convinto che in Italia ci sia voglia di paternità. Che la svolta culturale sia già in atto. Soprattutto nell’Italia Centro-settentrionale.
«Molti maschi vorrebbero passare più tempo con i loro figli, ripensare in modo diverso la loro presenza nella famiglia. Soprattutto nel campo dell’associazionismo dove maggiore è la possibilità di aiuto reciproco tra padre e madre. Il problema si scontra con un mercato del lavoro estremamente competitivo, deregolamentato e poco organizzato per favorire i papà». In attesa di riforme, il Maschio italiano può sempre apprendere da Bedrick: che cerca di tornare a casa presto per fare il bagno alla figlia.