Connessioni Precarie
01 07 2015
Il dato tecnico è semplice: le cosiddette «istituzioni» (il nuovo nome della Troika ottenuto dal governo greco) hanno molto di più da perdere che non la Grecia. Nei quotidiani economici più importanti questa verità è ormai affermata non solo tra le righe: in caso di default greco, e ancor di più di Grexit, a rimetterci maggiormente sarebbero i paesi più esposti nei confronti della Grecia, in particolare Francia e Germania, e gli altri creditori. In modo impietoso Wolfgang Munchau ha recentemente scritto che, se questa circostanza si verificasse, Angela Merkel e Francois Hollande «passerebbero alla storia come i più grandi perdenti finanziari». Il meccanismo di stabilità europeo (ESM) è sì una gabbia per i paesi che ricevono e contraggono debiti, ma è anche un dispositivo attraverso il quale il problema dell’esigibilità dei crediti maturati si riversa inevitabilmente sui paesi creditori. Il fallimento dei primi è un problema finanziario anche e soprattutto per i secondi. L’articolo è stato pubblicato sul «Financial Times» e tradotto dal «Sole24ore»: lo hanno dunque potuto leggere anche quei commentatori, redattori e governanti italiani che pure si ostinano a ripetere un mantra privo di fondamento, secondo il quale al centro della contesa vi sarebbero i nostri soldi o, variazione sul tema, la «credibilità» della Grecia. Hans-Werner Sinn, economista membro del consiglio consultivo del ministero dell’economia tedesco, ha inoltre osservato che un altro mantra, quello della «fuga dei capitali» privati dalla Grecia, dovrebbe preoccupare i paesi riceventi quanto e forse più della Grecia. Il sistema TARGET2, che regola i trasferimenti di titoli e capitali tra le banche private europee attraverso una complessa triangolazione tra le banche centrali dei paesi coinvolti e la BCE, comporta infatti una sostanziale pubblicizzazione dei prestiti privati attraverso le banche centrali.
Per dirla in modo semplice: il trasferimento di fondi privati da una banca privata greca a una banca privata tedesca passa attraverso l’indebitamento della banca centrale greca nei confronti della BCE, che da parte sua elargisce i crediti TARGET2 alla banca centrale tedesca. L’avvertimento di Sinn si spiega quindi in questo quadro: la supposta «fuga dei capitali» privati dalle banche greche dovrebbe mettere in apprensione soprattutto i paesi riceventi perché è un modo attraverso il quale i cittadini greci stanno mettendo al riparo i propri risparmi scaricando il peso di un eventuale default sulle banche centrali di altri paesi e sulla BCE. La frase pronunciata ieri in eurovisione dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem – «i prelievi dai conti correnti greci sono preoccupanti» e sono il segno di una «grande preoccupazione rispetto al futuro» – non ha dunque una lettura univoca. Basta guardare un grafico dei bilanci TARGET2 per accorgersi che la Germania è di gran lunga il paese più esposto. Come i paesi creditori del fondo salva Stati e la BCE, la Germania può solo decidere quanto perdere. Ciò che è accaduto dall’inizio della crisi, infatti, è che i debiti greci sono ora molto più nelle mani delle «istituzioni» che non degli investitori privati. I paesi indebitati, diversamente, hanno da perdere solo debiti. È evidente che ciò incide sulle capacità di spesa futura e sulla possibilità di un ulteriore indebitamento per raccogliere capitali sul mercato, ma questo discorso si apre eventualmente dopo e non è per nulla scontato che l’unico modo per raccogliere capitali debba oggi passare dagli artigli delle regole del Fondo Monetario e della BCE. Come mostra la firma dell’accordo con la Russia per garantire il passaggio dell’oleodotto TurkStream attraverso la Grecia, l’immagine di un paese senza alcuna possibilità di manovra è lontana dal vero. Soprattutto, è sempre meno chiaro ai cittadini greci che cosa abbiano da guadagnare nel risultare credibili agli occhi dei «mercati».
Tutto ciò non significa ovviamente cantare vittoria. Il punto di partenza è un paese, la Grecia, ben oltre il punto di collasso ma che, proprio per questo, ha sempre meno da perdere. La gestione della crisi da parte della coppia Tsipras-Varoufakis si sta mostrando più consapevole di quanto molti pensino e di grande intelligenza tattica. Non è solo furbizia, non è solo game theory: è il frutto di una conoscenza non subalterna dei meccanismi monetari europei e della finanza. Più il tempo passa, più il senso di responsabilità che tutti esigono dalla Grecia proietta un’ombra sugli altri componenti dell’Eurogruppo. Più sono mostrati in pubblico atteggiamenti a dir poco arroganti e totalmente privi di contenuti, come quelli di Cristine Lagarde che è sbottata sostenendo che per trattare serve che vi siano degli «adulti nella stanza», più emerge la concretezza delle posizioni greche. È vero, le «tre istituzioni» sono le stesse che componevano la Troika. Ma il cambio di nome produce i suoi effetti: capita così di sentire il Fondo Monetario parlare per sé; capita che il già citato presidente Dijsselbloem – interrogato dai giornalisti sulla possibilità che un vertice europeo come quello convocato dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk per lunedì prenda decisioni anche al di fuori della discussione avvenuta in seno all’Eurogruppo – risponda che, ovviamente, «trattandosi di leader possono prendere decisioni autonome». Detta in parole semplici: l’arma alla tempia della Grecia è spuntata e la discussione oscilla ormai costantemente da un piano tecnico a uno politico. È vero, come riportano i giornali, che i partner della Grecia sono «esasperati». Ma l’esasperazione non è la virtù dei forti. L’esito di questo braccio di ferro non è scritto, ma la Grecia è riuscita ancora una volta a guadagnare tempo e il vertice di lunedì avverrà nel mezzo di una settimana di iniziative di appoggio alla linea greca programmate all’interno della campagna «Change4all» in solidarietà con la Grecia. Quelle piazze saranno perciò importanti per mostrare come inizi a circolare, dentro l’Europa, una presa di posizione a favore della linea del governo greco.
Parlando della linea del governo greco sappiamo che qualcuno storcerà il naso. Bisogna però dire le cose come stanno e c’è quindi un altro mito da sfatare, questa volta dalla parte dei movimenti contro l’austerity. Ciò a cui siamo di fronte non può essere ridotto a un problema di democrazia o sovranità. Se questo fosse il caso, non ci sarebbe motivo di preferire la sovranità di undici milioni di greci a quella di ottantadue milioni di tedeschi, entrambe legittimamente rappresentate dai loro governi. D’altra parte, legare la democrazia alla condotta di un governo in carica grazie a una legge elettorale che consegna il potere a un partito che ha ottenuto il 36,3% dei voti pare piuttosto limitativo. Lo scontro in atto non è una questione formale né di sovranità. È una questione politica: siamo con il governo greco perché per la prima volta viene fatto un uso intelligente e di classe dell’instabilità finanziaria, perché al centro della contesa c’è la dichiarata volontà di non tagliare ulteriormente servizi pubblici, salari e pensioni e, anzi, di rilanciarli, perché ciò non viene fatto rincorrendo pericolose e inefficaci piccole patrie, ma investendo l’Europa in ogni sua dimensione. Uso di classe non significa che la classe operaia grazie a queste misure mostrerà il proprio inflessibile antagonismo e nemmeno che grazie a esse la stessa classe operaia prenderà lo Stato tutto per sé. Nonostante le pretese di queste posizioni in fondo simmetriche, uso di classe significa che dentro a una contraddizione complessa e articolata, dopo molti anni, le misure proposte non mirano a impoverire e a subordinare politicamente una massa cospicua della popolazione greca al dominio del capitale. È intorno a questo, e non al risultato di un’elezione, che si sta ricostruendo una prospettiva democratica per l’Europa in Grecia.
Ciò non esaurisce il compito dei movimenti, che sono la base reale che rende possibile questo braccio di ferro e che devono saper ingaggiare una battaglia politica con il nemico fin dentro le istituzioni, portando tuttavia avanti la propria agenda in modo autonomo. È per questo che la solidarietà alla Grecia non basta, ma serve il coraggio di estendere sul piano europeo il terreno dello scontro, affermando la libertà del lavoro vivo e dell’uso comune delle risorse sopra i profitti del capitale, rendendo la rivendicazione di un salario minimo in tutta Europa, di un reddito e un welfare europei e dell’apertura dei confini uno spettro potente per combattere i fantasmi della finanza. Lo spettro peraltro acquisirà forza materiale se smetterà di essere uno slogan a cui si crede solo perché è ripetuto da tanto tempo, e sarà in grado di coniugare la richiesta di reddito con le condizioni di sfruttamento stabilite dal regime del salario, scontrandosi contro le pretese del governo della mobilità. È un passaggio che i movimenti attivi sul piano transnazionale, dopo la giornata di Blockupy del 18 marzo, non hanno ancora avuto il coraggio di fare. Tuttavia è in quella direzione che bisogna insistere, anche attraverso la costruzione di una forza d’urto in grado di investire non soltanto il piano dell’opinione pubblica, ma direttamente ciò che è al centro dello scontro in atto: il mercato del lavoro. Completare lo spazio aperto da Blockupy con l’assunzione di responsabilità rispetto alle rivendicazioni di un reddito, di un permesso di soggiorno e di un salario minimo europei, e con la prospettiva dello sciopero transnazionale, è il compito che ci aspetta. Come osserva Mark Buchanan sul quotidiano greco «Khatimerini», infatti, già ora ciò cui stiamo assistendo non è una trattativa economica, ma uno scontro di potere dove «i tecnicismi dei meccanismi di finanziamento e le tabelle dei pagamenti sono solo gli strumenti attraverso i quali da un lato si esercita il potere e dall’altro si resiste». Comunque vada, il braccio di ferro sulla Grecia ha aperto una falla dentro il dominio del capitale in Europa. Si tratterà di allargarla stando ben attenti a lasciare ad altri ogni pulsione sovranista. Come quelle di un padre di famiglia in crisi perché vede che la sua autorità viene contestata, le reazioni potranno essere molto violente, e per i greci le conseguenze ancora pesanti. Qualcosa, però, si sta rompendo nella giusta direzione.
Internazionale
30 06 2015
di Christian Raimo, giornalista e scrittore
Non so quanti di voi abbiano letto questo documento. È la proposta di intervento presentata dal premier greco Alexis Tspiras all’Eurogruppo qualche giorno fa e corretta con vari tagli e sottolineature in rosso da Christine Lagarde, Jeroen Dijsselbloem e altri.
È un testo significativo. Segna una strategia che un premio Nobel per l’economia come Paul Krugman non si fa scrupolo a definire non solo ricattatoria ma semplicemente folle.
C’è il premier eletto democraticamente di un paese che s’impegna a riformare radicalmente la spesa pubblica ma anche a cercare di far ripartire un minimo l’economia. Ci sono delle persone non elette da nessuno che gli chiedono di abbattere lo stato sociale e di prolungare la situazione di dipendenza del paese dal credito estero. Nero su bianco.
Molti tra i commentatori, in questi giorni, sostengono che Tsipras e il suo ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, sono dei capricciosi testardi. Ma a leggere questo e altri documenti è evidente il perché, ad esempio, non cedano sull’abbassamento delle pensioni minime: con un tasso di disoccupazione al 26 per cento, le pensioni sono spesso la rete di protezione delle famiglie senza reddito da lavoro. E lo stesso discorso si può fare sull’iva, i salari pubblici o sugli altri capitoli di spesa.
I negoziatori greci finora hanno retto l’estenuante prolungarsi delle trattative di Bruxelles; hanno accettato aumenti delle tasse, riduzioni dei salari, ristrutturazione radicale dell’economia; hanno assistito a tentativi di colpi di stato soft, con l’Eurogruppo che negoziava parallelamente con le opposizioni in Grecia.
Di fronte a quest’ultima umiliazione, però, hanno alzato le mani.
Tsipras ha pensato di non avere il mandato popolare per trattare ancora, e ha indetto un referendum per domenica prossima, il 5 luglio, con un discorso molto bello, che finisce con parole che non riguardano solo la Grecia.
In questi tempi difficili, tutti noi dobbiamo ricordare che l’Europa è la casa comune di tutti i suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è, e rimarrà, parte integrante dell’Europa, e l’Europa parte integrante della Grecia. Ma un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza una bussola. Chiedo a tutti voi di agire con unità nazionale e compostezza, e di prendere una decisione degna. Per noi, per le generazioni future, per la storia greca. Per la sovranità e la dignità del nostro paese.
Dopo questo discorso l’Eurogruppo è stato ancora più punitivo. In prima battuta ha dichiarato che non avrebbe esteso l’attuale programma di aiuti alla Grecia oltre il 30 giugno, mettendo a rischio la tenuta delle banche greche, condannando di fatto la Grecia al default e generando il panico. Poi ha radicalizzato lo scontro, togliendo anche la liquidità di emergenza. Il risultato sono banche chiuse per una settimana e gli sportelli dei bancomat da cui non si possono ritirare più di 60 euro.
Leggiamo sui giornali della crisi greca almeno da quattro anni. Dalla vittoria di Syriza, il partito di Tsipras, abbiamo assistito allo stillicidio dei negoziati, sperando che non solo servissero per arrivare a una soluzione, ma che si mostrasse la strada per un’altra Europa. Adesso, di fronte all’umiliazione del popolo greco, perché non sentiamo che questa umiliazione tocca anche noi?
Perché molti giornalisti trattano questo tema con indifferenza se non con sarcasmo? Perché non si è sentito nemmeno un sussurro di solidarietà da parte dei politici italiani, nemmeno di quelli che nel governo fino a pochi mesi fa elargivano abbracci, baci e regali a Tsipras?
Perché non ci sembra che questa sia una fondamentale battaglia democratica? Perché non siamo allibiti e furiosi di fronte a un’oligarchia che chiede la demolizione dei diritti sociali e del welfare di un paese? Perché non ci indigniamo di fronte agli articoli che spiegano come cautelarci per le nostre vacanze se abbiamo prenotato quindici giorni a Mykonos? Perché non troviamo rivoltanti copertine come questa che titolano “Case da comprare e vacanze di lusso: le occasioni di un paese in saldo”? Perché non occupiamo la sede dell’Unione europea, come hanno fatto qualche giorno fa, come gesto di solidarietà, attivisti e sindacalisti a Dublino?
La decisione della corte suprema degli Stati Uniti di legalizzare i matrimoni omosessuali ci ha toccato come se fossimo parte di un’unica grande nazione planetaria. Perché invece l’umiliazione dei greci e il rischio di una crisi spaventosa non sembrano riguardarci? Perché non scendiamo in piazza? Perché non sentiamo che quel referendum è un’ultima tragica scelta anche nostra, tra due idee di Europa? Perché non ci battiamo per costruire un’Europa che non sia solo l’espressione di un trattato economico? Cosa vorremmo succedesse nel resto d’Europa se fossimo noi nella situazione del popolo greco? Perché non ci ritroviamo davanti alle ambasciate e ai consolati greci?
Dinamo Press
30 06 2015
La reazione europea al referendum indetto dal governo greco svela l'incompatibilità tra Europa neoliberale e democrazia. Ma Syriza non può farcela senza il sostegno di un movimento europeo. Saremo in piazza il 3 luglio, a Roma come in tutta Europa, dalla parte della Grecia che dice OXI (NO), per costruire collettivamente la resistenza alla dittatura finanziaria.
I Signori della moneta, europei e globali, vogliono lo scalpo. Lo scalpo di Tsipras, di Varoufakis, di Syriza e, chiaramente, dei poveri. Il segnale deve essere netto, inequivocabile: non è possibile alzare la testa, non c'è alternativa alle politiche neoliberali, nonostante la crisi ne abbia svelato il carattere violento, distruttivo, sbagliato. A più riprese, e in modo autocritico, il FMI ha ammesso gli errori fatti in Grecia. L'austerity non ha curato la malattia, ma la ha aggravata, tutti gli indici parlano chiaro: l'aumento del rapporto debito/PIL (180%), l'impoverimento drammatico della popolazione ellenica e il dilagare della disoccupazione (27%), ecc. L'autocritica può essere anche resa esplicita, ma di certo un governo anti-austerity come quello greco non può imporre un'inversione di rotta. Sarebbe un precedente troppo pericoloso.
Di più, e lo chiariscono le correzioni in rosso alla proposta avanzata da Tsipras ai creditori: bisogna continuare a dare una lezione ai poveri e lasciare impunite le rendite, liberi i ricchi di arricchirsi. Un atto di guerra vero e proprio, la guerra di classe del Capitale globale e finanziario contro chi prova ad alzare la testa, contro chi vuole contrapporre la democrazia al debito. La guerra dell'Europa ordoliberale, a trazione tedesca, contro l'Europa sociale e solidale. È evidente, nella drammatica vicenda greca si gioca per intero il futuro dell'Unione. Non tanto e non solo perché la Grexit metterebbe a rischio la tenuta dell'euro, ma perché un'Europa che schiaccia e caccia la Grecia – e intanto respinge i rifugiati alle frontiere – è una macchina di morte, oltre a essere un «gabbia d'acciaio» monetaria.
Tsipras e il governo greco, di fronte alla violenza dei creditori, hanno risposto nel modo più giusto. Il referendum, il cui esito non è per nulla scontato, riapre una breccia democratica contro la dittatura della Troika. Una breccia che sarà combattuta senza sosta, a partire dal 'no' della BCE alla richiesta di prolungamento dei prestiti fino al 5 luglio. Imponendo de facto la chiusura cautelativa delle banche elleniche, le tecnocrazie puntano a sfiancare i greci, a screditare Syriza e il suo governo, ad aumentare il panico, agevolare la vittoria del 'sì'. L'intervento di stamane di Juncker – lo stesso che ha istituito i paradisi fiscali nel suo Lussemburgo, favorendo l'evasione sistematica di decine di corporations, lo stesso che ha incassato senza fiatare l’irridente rigetto del piano di distribuzione delle quote dei rifugiati – non lascia dubbi. Balbetta il bugiardo che non intendeva toccare salari e pensioni, ma tradisce anche agitazione. I Signori della moneta non possono tollerare la democrazia: lo sapevamo, lo diciamo e lo scriviamo da anni, ora il mondo intero non può non capire.
Varie ideologie che attraversano i movimenti anti-capitalisti, soprattutto in Italia, ritennero fatto marginale la vittoria di Tsipras e il miracolo di Syriza. Gli eventi di queste ore liberano il campo dalla fuffa e ci auguriamo impongano un silenzio riflessivo. Altrettanto, chiariscono tutti i limiti della generosa resistenza greca: la «rottura costituente» di Syriza, per essere efficace, deve estendersi sul piano europeo; non c'è rottura costituente senza movimenti autonomi capaci di mettere in questione i rapporti di forza. È evidente che non esistono scorciatoie, solo la diffusione continentale di una doppia rottura, dall'alto e dal basso, può rifondare l'Europa federale contro l'Europa della moneta e della morte.
Dinamo Press
24 06 2015
Sabato scorso a Londra in 250.000 contro l'austerità, un passaggio importante per rilanciare le lotte contro la crisi economica. Un racconto della manifestazione con un'intervista a Craig McVegas di Plan C.
Già prima del secondo insediamento del governo Cameron, diverse università a Londra (Goldsmiths e LSE, UAL, KCL e la SOAS a intermittenza) erano occupate. Da almeno due anni il personale del NHS (il sistema sanitario nazionale), ma anche i cittadini stanno difendendo l’unico servizio pubblico rimasto tale in Uk. Da mesi sempre più forte è ripartita la lotta per il diritto alla casa che ha coinvolto diverse aree soprattutto al sud di Londra (per una sintesi delle azioni di Radical Housing Network clicca qui), e da alcune settimane, anche i lavoratori dei trasporti ferroviari hanno dichiarato scioperi a intermittenza contro la privatizzazione.
Siamo al sesto anno delle politiche di austerity in Uk, i cui effetti sono sempre più visibili nei tagli al welfare (sopratutto benefits a sostegno della disoccupazione e per l’inserimento al lavoro, oppure housing benefits per il sostegno agli affitti) e di privatizzazione ancora più selvaggia di scuole e università, sanità e servizi. Ma il movimento si è intensificato con la vittoria e l’insediamento del secondo governo Cameron, il quale ha vinto con il 37% dei voti ma –grazie al sistema uninominale vigente– ha conseguito la maggioranza assoluta dei seggi e non si regge dunque più su una coalizione come il precedente. Troppo lunga sarebbe ora un’analisi del voto, che risulta di certo più stratificato e complesso rispetto a quello che il risultato finale ci ha consegnato e a cui andrebbero aggiunti altri elementi importanti –dal livello di astensione alla divergenza fra voto popolare e distribuzione dei seggi, che ha svantaggiato i verdi e i populisti di Farage.
La prima mobilitazione espressiva, trasversale e radicale è stata quella del 27 Maggio durante il Queen’s Speech in cui la Regina ha ratificato non solo l’insediamento, ma anche l’interezza del programma di Cameron. Il punto centrale del Queen's speech, infatti, è stato la trasformazione del Regno Unito in una "one nation country", che richiama il progetto di "big society" del 2010: una nazione in cui a chiunque verrà garantita la piena libertà' di scelta in ambito scolastico e lavorativo. La realizzazione della retorica neo-liberale. I punti centrali del manifesto dei conservatori sono invece: realizzare un sistema economico stabile che garantisca una crescita rapida (la più prospera al mondo entro il 2030), più lavoro per tutti (cioè tutti devono lavorare!), meno tasse, lotta all'evasione fiscale, controllo dell'immigrazione, rinegoziazione dei rapporti con la UE, lotta e prevenzione del terrorismo, rendere il welfare più “equo”. Che questi siano gli obiettivi è stato ribadito anche il giorno dopo la manifestazione, quando George Osborne e Iain Duncan Smith hanno sancito che a partire da luglio i benefits verranno tagliati di 12 miliardi di sterline, giustificando la loro scelta con l’intento di fermare “the damaging culture of welfare dependency”. La frase che, secondo la buona educazione inglese, vorrebbe “liberare dalla dipendenza dagli aiuti statali”, tradotta in linguaggio concreto, significa ulteriore marginalizzazione di poveri, precari e disoccupati e aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Contro tutto questo, con lo slogan #EndAusterityNow la manifestazione del 20 giugno indetta da The people's assembly a cui hanno aderito davvero la stragrande maggioranza delle realtà in lotta, movimenti, sindacati, gruppi di pressione locali (GBlobal justice, No ttip, Dave the nhs) si è mossa. 250.000 persone, secondo gli organizzatori, hanno attraversato la città da Bank of England a Parliament Square, in contemporanea a Glasgow, Liverpool e Bristol, ma anche al resto d’Europa: da Berlino a Dublino, da Atene a Francoforte… Non è che l’inizio per il movimento in Uk, così come già da mesi sta avvenendo a sciame in tutta Europa!
Abbiamo sentito direttamente la voce di Craig McVegas (@CraigMcVegas), attivista di Plan C e editor di NovaraWire a proposito della manifestazione e delle mobilitazioni inglesi:
D: What are your thoughts on today's demo?
Craig: It was fine for what it was. There's only so much you can hope for with an A to B march. But it was clearly a huge turnout with lots of young people too. From what I saw there were relatively few arrests and the police were less provocative than usual, which is a positive thing.
D: Do you think it has marked the beginning of a new phase for the Uk movements and unions?
It's hard to say. We're only at the beginning of a new parliamentary term, so it's hard to imagine that it would be a quiet few years. As austerity kills more people and tears apart more working class communities, it's likely that more people will want to fight back, but a 'new phase' would have to be defined by new tactics and new political articulations. I'm not sure the main unions are able to offer this. The truth is that for all the talk at the rally (and every rally previously) of using the march as the catalyst for taking the fight back to our communities, these big set-piece demonstrations are often actually more like a finish line in the annual activist calendar, until we do it all over again. Demonstrations are good at attracting large numbers of people, but it's not helpful to tell people to go and organise in their communities if we're not simultaneously doing it ourselves and showing people what community organising looks like.