La 27 Ora
02 01 2014
Un anno fa da questo sito ho cercato di accendere una luce – beh va bene diciamo un cerino – sulla parsimonia con la quale nelle testate giornalistiche si leggono articoli scritti da donne sulle colonne delle prime pagine. Per non parlare degli editoriali che, da una rapida analisi, comparivano con l’abbondanza dell’acqua nel deserto. Allora mi auguravo di poter concludere dopo qualche tempo con un lieto fine di quelli che ogni tanto ci racconta la Gabanelli e di poter tenere il conto di un certo numero di editoriali firmati da donne. Com’è andata a finire? Qualche numero da contare, sì certo c’è stato, ma sono numeri miseri, diciamo non numeri da calcolatrice, ecco. In poche parole numeri tristi, che non vale neanche la pena di raccontare.
Dunque vediamo abbiamo faticosamente tagliato il traguardo del 2015, giusto? Poco prima di Natale il Corriere e La27ora hanno pubblicato la notizia che il Vaticano, dopo 2000 anni, si è accorto di un nuovo bisogno: “invitare le donne al dialogo”. Credo che Francesco c’entri qualcosa in questa nuova ricerca – o dovrei dire scoperta? – di un apporto creativo del pensiero femminile. Certo duemila anni sono un po’ tantini ma ben venga questa richiesta, per carità. Ma era proprio necessario aspettare millenni per acquisire la consapevolezza che si sente il bisogno: di uno «sguardo sul mondo e su tutto ciò che ci circonda che sia proprio delle donne»?
Ammettiamolo: gli editoriali sono una roccaforte di genere e non solo in Italia. Un mia cara amica giapponese, dolce e competente ingegnere, con il suo meraviglioso italiano che sta studiando da un po’ di tempo, mi ha scritto: «In Giappone non ho mai letto articoli di donne, purtroppo». Gli editoriali esprimono la filosofia del giornale, sono un richiamo ed uno spunto di riflessione per la coscienza individuale e per la coscienza collettiva. La filosofia è anche donna. Lasciare fluire il pensiero femminile può contribuire al cambiamento di mentalità necessario alla crescita evolutiva e al ritrovamento della speranza delle quali questa società ha un estremo bisogno. Le “quote” degli editoriali femminili vengono prima di quelle nei consigli d’amministrazione delle società o in Parlamento per due motivi: sono possibili o quantomeno dovrebbero essere tali in modo più rapido di un’eterna staffetta parlamentare; agiscono sul cambiamento di mentalità necessario e prodromico al cambiamento che deve avvenire, nelle roccaforti di genere, ai vertici del potere e prima ancora di tutto nella quotidianità.
Come leggere la chiusura del mondo dell’informazione alle penne femminili: come uno specchio dei tempi? Ancora!
Provate a spiegarlo ad un adolescente maschio o femmina che sia: non ci crederà fino a quando non si schianterà contro una realtà celata da pareti di cristallo e in quel caso – quello dello schianto dico – sarà purtroppo una delle vostre figlie ad accorgersene.
Che fare? Per quel che mi riguarda mi restano una certa amarezza e la consapevolezza che questo dato è un segno di tempi che non possono cambiare perché non vogliono cambiare. Dunque azzardo: come verrà promosso il ruolo della filosofia femminile sulle prime pagine del Corriere della Sera? Perché questo giornale non tenta la via dell’essere uno dei pochi quotidiani che segue l’esigenza di diffondere questo sguardo dalla prima pagina?
Giovanna Novello
Pagina99
02 01 2015
Quello del 3 gennaio è l'ultimo numero di pagina99, per il momento. Siamo alla ricerca di nuova linfa. Torniamo ad essere lettori connessi e ricettivi, sognando un sistema integrato di carta e digitale che ci avvicini al futuro
Questo è l’ultimo numero di pagina99. Starà in edicola un po’ più a lungo del solito. Non per sempre però.
È probabile che noi siamo dei pessimi comunicatori. Infatti non ci va di piangerci addosso né di prendercela con qualcuno. E quel che è ancora più grave, non ci va nemmeno di autocommiserarci o aprire spazi di autocelebrazione. Eppure sentiamo il bisogno di ringraziare ancora tutti quelli che ci hanno manifestato solidarietà e affetto e anche chi ha colto l’occasione per rivolgerci qualche domanda o qualche critica. Tutto fa brodo.
Con la chiusura di questo numero, e verosimilmente dell’esperienza di pagina99, torniamo a fare i lettori. Non abbiamo mai smesso, abbiamo continuato a leggere la stampa italiana e quella internazionale. Abbiamo le nostre passioni, firme che amiamo leggere e giornali che non ci dispiacciono e, anzi, ci piacciono proprio. Eppure ora che torniamo a fare full time i lettori di giornali saremo necessariamente più insoddisfatti. Perché abbiamo ancora un sogno.
Ci auguriamo che da qualche parte, in questo Paese difficile e spento, ci sia qualcuno che stia progettando un giornale che ci piacerà leggere per intero. Un giornale che non si limiti a raccontare con ampi retroscena quel che è accaduto ieri e che lo commenti in tutte le salse possibili. A noi piace (ma anche no), sapere cosa ha in testa Renzi, è utile materiale di conversazione a cena quando non si sa cosa dire e gli argomenti familiari si stanno esaurendo. Il giorno dopo apriremo quello stesso giornale e troveremo altri retroscena e altre interpretazioni che poco hanno a che vedere con quelle del giorno prima. Tanto a che serve avere una memoria, contare sull’esperienza?
Ci piace leggere titoli arguti su giornali cui siamo affezionati. Ma che poi dietro il titolo mostrano un nulla nostalgico. Ci piace apprendere da scrittori che hanno vinto lo Strega grazie all’abilità propria e delle proprie case editrici, quale sia il loro rapporto con la tecnologia, con lo smartphone o con la bicicletta. Così come ci diverte avere tante pagine dedicate al tempo libero, alle passioni e alla cucina. Sì. Ci piace gustare una doppia pagina dedicata alle melanzane e a tutta la creatività che si può esprimere cucinandole.
Il fatto è che vorremmo un giornale che sa di essere parte di un sistema integrato, dove le notizie e i commenti seguono un loro percorso: dai social media al web, ai talk show della sera. Un giornale che sappia ritagliarsi uno spazio nuovo, una nuova autorevolezza, che sappia raccontare le proprie storie senza che si vada a sovrapporre a quella di altri media.
Non siamo nostalgici della carta. Da editori preferiremmo non averla, macchinari enormi per stamparla, inchiostri, camion per trasportarla, quintali di copie prodotte che finiscono invendute nei posti sbagliati. Il digitale è pulito, luminoso e, anche se non ha ancora trovato il suo linguaggio (e usa quello di altri strumenti, dai giornali alla tv), prima o poi riuscirà a trovare una propria voce e allora ne vedremo delle belle. Tuttavia per il momento l’editoria digitale ha i lettori ma non acquirenti, o per lo meno non a sufficienza. E quindi non può economicamente badare a se stessa. Vogliamo dire con questo che carta e digitale hanno bisogno l’una dell’altro. Devono trovare un nuovo equilibrio.
Siamo in un momento storico patetico, non crediamo più in quel che credevamo e non abbiamo ancora nuovi sogni da sognare. E i media, che sono figli nostri, non sono da meno, mentre la carta muore perché da sola non ce la fa, il digitale trionfa, ma non riesce a diventare adulto. Ci riuscirà, diventerà adulto, è solo questione di tempo e di uomini, e di soldi, lasciatemelo dire. Di uomini, di tempo e di soldi. Ma nel frattempo noi lettori che facciamo? Dove troviamo un giornale che rispetti la nostra dignità di uomini che hanno memoria e che non vogliono perderla inseguendo furbizie ben scritte? Dove troviamo un giornale che ci racconti una storia che ci aiuti a capire quale mondo sta dietro a quella storia? Un giornale, come dice il condirettore di pagina99 Luigi Spinola, «che sognavo di fare fin da bambino»?
Insomma, c’è tanta roba di qualità da leggere in giro, ma noi cerchiamo un sistema dal web alla carta e ritorno, che ci faccia sentire connessi e ricettivi. Vogliamo essere aperti e positivi nell’affrontare le difficoltà e i cambiamenti di questa nostra epoca fantastica e tutta da raccontare. Abbiamo però bisogno di strumenti per capire, non di frammenti da interpretare. Avevamo un sogno? Veramente lo avremmo ancora. Un multimedia empatico che ci accompagni in questo percorso. Lo ritroveremo?
Emanuele Bevilacqua
Ansa
19 12 2014
"Non si può aspettare giustizia per 20 anni"
La richiesta di "prendere atto delle mie dimissioni irrevocabili da socio dell'Associazione e del mio desiderio che si ponga termine ad iniziative quali il Premio alpi, di cui non è più ravvisabile alcuna utilità". E' quello che scrive la madre di Ilaria Alpi, Luciana Riccardi Alpi, in una lettera inviata ai vertici dell'Associazione 'Ilaria Alpi' e del 'Premio Ilaria Alpi', oltre che al sindaco di Riccione e all'assessore alla Cultura dell'Emilia-Romagna. Una missiva spedita lo scorso 21 novembre il cui testo, fotocopiato, è stato inviato per posta all'ANSA in una busta priva di mittente e il cui contenuto è stato confermato dalla stessa signora Alpi - mamma della giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio, nel 1994, insieme all'operatore Miran Hrovatin - che ha definito quello delle busta anonima un "gesto meschino". "Pur non avendo un ruolo formale nella vostra associazione e nell'organizzazione del Premio Alpi - scrive nella lettera - ho sempre sentito il dovere di seguire la vostra attività e possibilmente collaborarvi, specialmente nei rapporti con l'esterno, al fine di garantirne la rispondenza agli ideali di mia figlia".
Inoltre, prosegue la signora Alpi, "questo impegno con l'andare degli anni è divenuto particolarmente oneroso, anche per l'amarezza che provo nel costatare che, nonostante il nostro impegno, le indagini in sede giudiziaria non hanno portato alcun risultato". Quindi, chiosa Luciana Riccardi Alpi, "vi prego di prendere atto delle mie dimissioni irrevocabili da socio dell'Associazione e del mio desiderio che si ponga termine ad iniziative quali il Premio Alpi, di cui non è più ravvisabile alcuna utilità". Nel dettaglio, la lettera dello scorso novembre è stata indirizzata all'assessore alla Cultura dell'Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti; al sindaco di Riccione, Renata Tosi; alla presidente dell'Assciazione Ilaria Alpi, Mariangela Gritta Greiner; al presidente della giuria del Premio Ilaria Alpi, Luca Airoldi; al direttore scientifico del premio Ilaria Alpi, Andrea Vianello, e ai direttori del premio Ilaria Alpi, Francesco Cavalli e Barbara Bastianelli.
Stanchezza per gli anni passati a inseguire la verità sulla morte della figlia e il fatto che "non si può aspettare 20 anni per avere giustizia". Così, raggiunta telefonicamente dall'ANSA, Luciana Riccardi Alpi, madre della giornalista del TG3 uccisa a Mogadiscio nel 1994 insieme all'operatore Miran Hrovatin, spiega le motivazioni della lettera inviata ai vertici dell'Associazione Ilaria Alpi e del Premio Ilaria Alpi, oltre che al sindaco di Riccione e all'assessore alla Cultura dell'Emilia-Romagna, in cui annuncia la volontà di dimettersi dall'Associazione e il "desiderio" di far calare il sipario sul Premio. "Uno dei fini" del Premio dedicato alla figlia e alla attività giornalistico-televisivo "era la ricerca della verità e della giustizia - osserva raggiunta al telefono -: il Premio era il mezzo. Ho 81 anni, io non me la sento più, non sono più la donna di 20 anni fa, purtroppo, e non ce la faccio più a fare queste cose: non si può aspettare 20 anni per avere giustizia".
Questa lettera, aggiunge la signora Alpi, "l'ho scritta con il mio avvocato, e l'ho inviata a tutti" coloro che ricoprono un ruolo nell'associazione e nell'organizzazione del Premio, "ho ringraziato a voce per tutto il buon lavoro che è stato fatto". Ma ora, argomenta Luciana Riccardi Alpi, "anche i medici mi chiedono di chiudere con questa cosa, soprattutto il mio cardiologo mi dice di fare basta. Ogni volta che devo andare a parlare di Ilaria ho l'ansia". Quanto al Premio, "dopo 20 anni l'Italia sa tutto quello che è successo a Ilaria e a Miran Hrovatin. Lo sa, abbiamo fatto dibattiti, trasmissioni, film: mio marito è morto senza sapere la verità e forse anch'io". Quanto alla lettera, scritta il 21 novembre, il cui testo, fotocopiato, è stato inviato per posta in una busta priva di mittente, "non capisco questo gesto meschino: non l'ho capito. Mi dispiace per questo, mi fanno pietà, quella brutta - chiosa la signora Alpi -: la trovo una cosa molto meschina".
Corriere della Sera
18 12 2014
Amilcare G. Ponchielli se lo portò nel buio la sclerodermia, male contro cui ingaggiò una battaglia durata anni.
Era il 2001 e Amilcare, nato nel 1946, era nel fiore degli anni. Anche negli ultimi mesi, pur sapendo che la malattia stava vincendo, era lui che illuminava e consolava gli altri, non il contrario.
E fino all'estremo palpito di vita rimase inflessibile, a volte aspro, nella difesa strenua della sua missione su questa terra: dare valore all'immagine, metterla al centro del metodo giornalistico, non vederla ridotta a orpello per occhi distratti o (ed è peggio) imbarbariti. ...