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Questioni di genere nel giornalismo italiano

  • Martedì, 03 Maggio 2016 07:46 ,
  • Pubblicato in L'Incontro
Questioni di genere nel giornalismo italianoMartedì 3 maggio, ore 14-17
Roma - Università Roma Tre, Aula B3 DAMS
Via Ostiense, 133b

Presentazione del numero speciale di Problemi dell'Informazione 3/2015.
Curato da Milly Buonanno.

Onu, un giorno per la stampa libera in tutto il mondo

  • Lunedì, 02 Maggio 2016 17:44 ,
  • Pubblicato in REPUBBLICA
Libertà di stampaArturo Di Corinto, La Repubblica
2 maggio 2016
    
Il 3 maggio si celebra in molte capitali il World Press Freedom Day. Mentre gli arresti degli operatori dell'informazione si susseguono nei paesi a rischio. E ovunque le pressioni aumentano. Anche sul web.

Tutta la verità

  • Venerdì, 05 Febbraio 2016 08:41 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO
Verità Tommaso Di Francesco, Il Manifesto
5 febbraio 2016

Temeva per la sua incolumità. Questa è la verità che per noi emerge e che vogliamo proporre e testimoniare sulla morte violenta al Cairo di Giulio Regeni, di fronte alle troppe reticenze ufficiose e ufficiali e alle gravi contraddizioni
Lorenzo Guadagnucci
28 09 2015

In inglese lo chiamano “Hate speech”, ma poiché in Italia siamo diventati specialisti della materia, è decisamente da preferire la locuzione italiana, “discorso d’odio”.

Di che si tratta? Ad esempio di frasi, slogan, affermazioni, pronunciati da personaggi pubblici e/o con ruoli di potere, che criminalizzano e stimolano astio e risentimento verso intere comunità o addirittura popoli.

Le cronache sono piene di casi del genere. Qualche anno fa, per fare un esempio concreto, durante la campagna elettorale per il Comune di Milano, comparvero alcuni manifesti nei quali si parlava del rischio che la città, in caso di vittoria del candidato Pisapia, divenisse una “zingaropoli”. La “paura per il rom” e il disprezzo per un’intera popolazione era in quel momento uno dei temi chiave della campagna elettorale, come lo è oggi del discorso pubblico di più di un leader politico. Per non dire di certe affermazioni riguardanti i profughi o gli immigrati di fede musulmana eccetera.

Dunque il discorso d’odio è moneta corrente, con la decisiva complicità del sistema mediatico, che ci ha abituati a dare voce – senza filtri – a qualsiasi slogan o affermazione, anche la più razzista, purché siano rispettate due banali condizioni: 1) che il discorso d’’odio sia pronunciato da personaggi – politici e no – titolati ad avere parola sui media; 2) che l’oggetto del discorso sia un gruppo, una minoranza, una comunità sottoposta, per consuetudine, a forme di discriminazione e pubblico disprezzo.

E’ partita in queste settimana una campagna che chiede ai giornalisti di non essere mai gli amplificatori di simili discorsi, com’è diventata invece consuetudine. In genere i cronisti e i giornali si riparano dietro il diritto/dovere di cronaca: se un uomo politico fa una certa affermazione, anche sgradevole o sgradita, quella è una notizia e quindi va riportata.

Vero, ma ci sono dei limiti da rispettare. Se un politico afferma che un certo popolo, un certo gruppo umano, è da disprezzare, perché dedito al furto, all’usura, allo stupro, alla delinquenza e così via, è possibile limitarsi a riportare quelle parole?

No, non è professionalmente lecito. Se un leader politico dice — facciamo un esempio non a caso – che gli ebrei sono un pericolo per la nazione, le notizie sono due: la prima, è l’affermazione in sé, come tutte le affermazioni fatte da un leader politico; la seconda, è che tale leader ha pronunciato un discorso d’odio, che fomenta razzismo. Il giornalista – in termini di etica professionale – deve tenere conto di entrambe le notizie e  non rendersi complice del discorso d’odio.

Può sembrare un discorso ovvio e una regola di semplice, ma non è così: basta pensare a quel che si è letto e sentito in questi mesi e anni. Per troppo tempo i media si sono adagiati in un ruolo passivo rispetto alla retorica politica in materia di migranti e minoranze, una retorica spesso violenta e discriminatoria che ha finito per diventare senso comune, degradando la qualità del discorso pubblico e anche della nostra convivenza civile.

La campagna #nohatespeech è coordinata dall’Associazione Carta di Roma, che cura l’applicazione del codice deontologico su migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Se questa campagna ha un limite, è il ritardo con il quale arriva, ma non è certo colpa di chi l’ha promossa.

Globalist
11 09 2015

Bloccare l'hate speech non è censura, ma un dovere professionale per chi fa informazione. È questo l'appello lanciato dalla campagna "#nohatespeech - giornalisti e lettori contro i discorsi d'odio" promossa dall'associazione Carta di Roma insieme alla European Federation of Journalists e Articolo 21, con l'adesione dell'Ordine dei Giornalisti, della Federazione nazionale della stampa italiana e dell'Usigrai e avviata con una raccolta firme su change.org. Un'iniziativa rivolta a giornalisti ed editori, ma non solo: per l'associazione si tratta di una "campagna di civiltà" che riguarda e coinvolge anche i lettori e gli ascoltatori. "Questa campagna è una goccia che scava la pietra - spiega Giovanni Maria Bellu, giornalista, presidente della Carta di Roma -. Spesso gli appelli hanno un obiettivo specifico, questo invece è più generale, è rivolto alle coscienze e alle responsabilità".

Un appello che si rivolge in primo luogo a chi di comunicazione si occupa per professione. "Impedire la diffusione dell'odio non è solo un atto di responsabilità civile - spiega l'associazione -. È, per chi fa il giornalista, l'adempimento della regole-base della professione, quella che impone a tutti i giornalisti il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti". Ai giornalisti, infatti, la campagna chiede "di non restare passivi di fronte ai discorsi d'odio" perché non sono "opinioni".

"Trovando il loro fondamento nel razzismo, sono brutali falsificazioni della realtà - spiega l'associazione - e contraddicono non solo i principi basilari della convivenza civile, ma tutte le acquisizioni scientifiche. E' un dovere professionale confutare le affermazioni razziste, chiarire ai lettori e agli ascoltatori la loro falsità intrinseca". Una responsabilità, quella dei giornalisti, a cui non ci si può sottrarre, spiega Bellu. "Facciamo un esempio - continua -: se uno di noi si trovasse a raccogliere dichiarazioni su un'impresa di un navigatore solitario e ci venisse detto che l'impresa non può riuscire perché la terra è piatta, cosa dovrebbe fare un giornalista? La prende come opinione o gli dice che sta dicendo una sciocchezza perché la terra è semplicemente rotonda? Le affermazioni razziste non sono opinioni e non bisogna trattarle come tali".

Responsabilità che sono ancor più grandi quando gli attori dell'hate speech sono gli stessi politici. "I giornalisti devono registrare il fatto che è stata fatta una determinata affermazione - spiega Bellu -, ma questo non significa che devono lasciare passivamente il microfono sotto la bocca di uno che dice spropositi senza contestarli. Noi assistiamo a delle uscite dei politici, con affermazioni di puro odio che passano alla stregua di opinioni e si diffonde tra le persone l'idea che gli insulti siano delle opinioni".

Un tema, quello delle "opinioni", che torna attuale con la vicenda che ha coinvolto Giorgia Meloni e l'Unar. Dopo una lettera di raccomandazioni inviata dall'Ufficio antidiscriminazione alla deputata in cui si chiedeva di usare "messaggi di diverso tenore" in tema di immigrazione, per via di alcune dichiarazioni scritte sul web, Meloni ha accusato il governo di "censura", scatenando non poche polemiche.

Ma è proprio sulla scia di quest'avvenimento che sul web sono comparsi gli ultimi esempi di hate speech. A farne le spese, Cécile Kyenge, che in un articolo dell'8 settembre pubblicato dalle pagine online del Giornale difende l'operato dell'Unar denunciando anche le continue "minacce" e gli "insulti" ricevuti sul web. Insulti che non tardano ad arrivare anche in coda al suddetto articolo. "Negra ex clandestina", "Beduina", "quante banane al giorno ci costa?" "negra sempre più insopportabile", "si sciacqui la bocca con l'acido muriatico". Per Bellu, si tratta di un esempio eclatante su cui riflettere.

"Si tenta di far passare la lotta contro l'hate speech come una forma di censura - spiega -, mentre invece il concetto è semplice: se una persona dice che la Kyenge deve 'bere acido muriatico' come appare in fondo all'articolo del Giornale, chi parla di censura dovrebbe dimostrare che queste sono opinioni e libere manifestazioni del pensiero e non invece, come sono evidentemente, insulti".

Hate speech che, secondo i dati dell'Unar, è in continuo aumento, spiega Bellu, soprattutto sui social network. "E' una cosa di tutti i giorni - aggiunge -, lo incontriamo sempre e ovunque". Ed è per questo che l'appello è rivolto anche ai lettori e chiede di "isolare chi esprime discorsi di odio - spiega l'associazione -, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto". Lettori invitati, inoltre, a "segnalare alle redazioni i discorsi d'odio perché possano essere cancellati e perché i loro autori vengano privati della possibilità di nuocere e, quando è previsto dall'ordinamento dello Stato, denunciati all'autorità giudiziaria".

Contro l'hate speech, però, per Bellu serve una "regolamentazione a carattere europeo" che riguardi tutti i media. "Non è un caso che stiamo lanciando questa iniziativa con la Federazione europea dei giornalisti - spiega Bellu -. Deve essere così perché i messaggi online non hanno confini". Nel testo dell'appello, intanto, ci sono già poche ma chiare indicazioni per lavorare ad una ipotesi di regolamentazione. Come quelle riguardanti le testate giornalistiche e i proprietari e gestori dei social network, a cui si chiede di "attuare delle procedure di moderazione che consentano di sopprimere tempestivamente i commenti d'odio e di bannare i loro autori" e di "adottare procedure semplificate per sostenere le redazioni giornalistiche e gli utenti nel segnalare i discorsi d'odio ed escludere i loro autori dalla comunità della rete".

Un impegno, quello chiesto alle testate e agli editori, che però va oltre le questioni tecniche. "E' vero che c'è una difficoltà tecnica ad intervenire con adeguata tempestività sui commenti - spiega Bellu -. Ma quando un commento razzista c'è da due giorni, non può essere sfuggito". Per questo servono regole condivise, aggiunge Bellu. "Se io vedo che un organo di stampa in modo sistematico pubblica certi articoli, con una certa titolazione, negativa o evocativa, i commenti di odio prima o poi arrivano. Se poi glieli lascio, mi viene il dubbio che quei commenti facciano parte dell'articolo, con la differenza che non si ha il coraggio di utilizzare quelle espressioni e in modo subdolo si affida la parte più violenta a queste truppe di portatori d'odio. E questa è una grandissima responsabilità".

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