La madre del mio amico nelle mani degli scafisti

Il mio amico è di Zuwara, la città famosa oramai per la sua lunga tradizione nel traffico degli esseri umani dalla Libia verso l'Europa. "Io, mia madre proprio non me la immagino in un centro di accoglienza in Italia" dice non trattenendo una smorfia di dolore. L'immagine di sua madre che mendica per l'Italia dà fondo anche alle sue ultime riserve di sarcasmo sul panico che sta inghiottendo letteralmente la Libia.
Nancy Porsia, la Repubblica ...
Francesco Grignetti, La Stampa
17 febbraio 2015

"Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan". Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole. ...

Redattore sociale
18 02 2015

Il racconto di Ahmed Kashbur cooperante del Cesvi in Libia. Scuole trasformate in dormitorio, 7 mila persone senza casa, combattimenti in 3 quartieri. È il risultato delle battaglie tra esercito e jihadisti. Alla disperazione della popolazione si aggiunge il dramma dei migranti

BENGASI (Libia) - Il suono di una sirena interrompe per un attimo la conversazione telefonica con Ahmed, pochi istanti di silenzio, poi il suo respiro riprende e così il racconto su ciò che sta succedendo a Bengasi, in Libia. “La vita da queste parti è un bene da tenersi ben stretto”, sussurra. Da mesi ormai i combattimenti sono concentrati in 3 quartieri della città sotto il controllo delle milizie estremiste. Ahmed Kashbur ha 51 anni è libico e da 4 anni lavora come operatore per il Cesvi, una ong italiana che si occupa di cooperazione e sviluppo delle popolazioni bisognose in diversi Paesi del mondo e che dal 2011 opera in Libia per portare aiuti umanitari, soprattutto con operatori locali. Attualmente, Ahmed è il coordinatore del progetto della ong nella città libica, e insieme a un gruppo di 16 cooperanti garantisce assistenza medica e finanziaria alla popolazione e ai migranti in difficoltà che arrivano a Bengasi da altri Paesi africani. “Ci sono più di 7 mila sfollati che a causa dei combattimenti hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, sono circa 500 famiglie – racconta Ahmed –. Per ora sono accampate in una quarantina di scuole che sono state riadattate a centri d’accoglienza”.

L’esercito del governo di Tobruk il 15 ottobre aveva lanciato un’offensiva per riprendere il possesso della città, dopo che i jihadisti ne avevano occupato l’80 per cento e messo in fuga i militari. Il risultato delle numerose battaglie è che oggi a Bengasi si vedono case e palazzi distrutti. “Durante la giornata capita che vada via la corrente elettrica per molte ore e questo genera il caos – continua Ahmed –. Si bloccano i forni, le pompe di benzina e altre attività, creando lunghe file in strada davanti ai negozi”. Da quando sono cominciati gli scontri molti luoghi pubblici sono stati chiusi e le persone tendono a limitare i loro spostamenti al necessario. “Hanno chiuso tutte le scuole per evitare che potesse accadere qualcosa ai bambini – dice Ahmed –. I miei figli trascorrono la maggior parte del tempo in casa. Questo non gli fa bene perché vivono con la paura”. Ad aumentare le preoccupazioni e i timori ci si mettono i continui rumori dei colpi di mortai o dei bombardamenti dell’aviazione sui magazzini di armi delle milizie. “Oggi si parla dell’arrivo dell’Isis – prosegue Ahmed – ma la verità è che qui gli estremisti c’erano già, solo che prima non facevano riferimento allo Stato islamico e adesso hanno iniziato a farlo. E poi non tutti quelli che combattono sono legati alla jihad molte fazioni lo fanno per accaparrarsi il controllo sui profitti legati al petrolio”.


Il dramma di trovarsi a Bengasi non riguarda solo i locali, a subire privazioni, maltrattamenti e sfruttamento sono anche le migliaia di profughi che ogni giorno arrivano da altri Paesi dell’Africa per potersi imbarcare su una nave e attraversare il Mediterraneo. Una volta qui, però, si ritrovano a vivere gli stessi incubi che si erano lasciati alle spalle. I pericoli, per questo flusso incessante di persone in cerca di un futuro migliore, non sono solo all’arrivo o alla partenza ma si annidano dietro ogni duna e villaggio che attraversano durante il loro cammino. Con l’aumentare delle tensioni nel Paese e le bande di mercenari che scorrazzano nel deserto, chi compie il viaggio spesso lo conclude stremato, mutilato a causa d’incidenti lungo il tragitto o non lo finisce affatto, perché catturato e usato come schiavo dai miliziani. Sono le scene e i racconti di guerra che vede e ascolta ogni giorno Ahmed, che ha deciso di combattere questo conflitto come operatore umanitario rimanendo nel suo Paese insieme alla famiglia.

Tutti i giorni insieme ai suoi colleghi s’incontrano nella casa adibita a quartier generale e da lì, si muovono tra le strade della città alla ricerca di profughi da soccorrere. Vanno nei luoghi in cui molti ragazzi lavorano o si ritrovano in attesa di trovare un impiego, parlano con loro, si fanno raccontare le loro storie, il motivo della loro partenza e dove vogliono andare. Cercano di fornirgli informazioni, lasciano i loro contatti e li esortano a rivolgersi a loro per qualsiasi cosa. “Molti profughi che arrivano a Bengasi vanno a vivere in edifici abbandonati vicino alla zona industriale dismessa – spiega Ahmed – da qui si spostano verso il mercato ortofrutticolo in cerca di lavoro”. Qui si occupano della raccolta della frutta, del trasporto di cassette o fanno le pulizie nelle abitazioni dei loro datori di lavoro. Tutto per raccogliere il denaro necessario a comprare un biglietto per il viaggio su una delle tante “carrette del mare”. Se questo è il destino che attende chi riesce a sopravvivere al deserto, c’è chi da quell’odissea arriva in condizioni di salute precarie e inadatte a svolgere qualsiasi tipo di lavoro. “Ci sono persone che a causa di incidenti occorsi loro durante il viaggio arrivano paralizzate o menomate – continua Ahmed – Noi cerchiamo di aiutarle come possiamo, inserendole in un percorso d’assistenza. Dopo il ricovero in ospedale o un intervento cerchiamo loro una sistemazione, da connazionali che abitano qui o in qualche centro per disabili, facendoci carico delle spese necessarie per cure e visite mediche”.

Da un po’ di tempo però sempre meno persone riescono ad arrivare in città. A causa della guerra molti migranti restano bloccati nel sud della Libia. “Questo ha fatto abbassare il prezzo per pagarsi il viaggio – continua Ahmed – e quelli che si trovavano già qui hanno deciso di partire”. C’è chi rischia la traversata da Bengasi, un incubo di 5 giorni in preda al freddo e alle onde. Mentre altri attraversano la Cirenaica in direzione di Tripoli, da lì il viaggio verso Lampedusa è più corto e in 12 ore puoi sperare di arrivare sulle coste italiane. “Di solito chi viene in Libia lo fa per partire e aspetta i mesi di luglio o agosto – spiega Ahmed –. Ma con l’inasprirsi della guerra in tanti hanno deciso di rischiare e imbarcarsi subito”. Una tragedia a cui l’Occidente assiste come spettatore incurante di quelle che sono le miserie e le disgrazie dei popoli della sponda sud del Mediterraneo.

La voce di Ahmed si fa sempre più sottile, la connessione comincia a saltare e le sue parole si confondono somigliando sempre più a un rumore metallico. In un ultimo strepito si sente la risata di bambino, è uno dei cinque figli di Ahmed che anche oggi, come ormai da troppo tempo, è rimasto in casa a giocare perché la sua scuola è diventata un dormitorio per chi non ha più una casa. (Dino Collazzo)

La guerra in Libia è un regalo al califfo

  • Mercoledì, 18 Febbraio 2015 11:46 ,
  • Pubblicato in Flash news

Limes
18.02.2015

Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più. Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.

Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).

Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.

Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili.

Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.

In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».

Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.

Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.

Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan.

Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”.

Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».

Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.

Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”.

In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati.

Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.

 

 

I corpi scissi dell'Isis

  • Mercoledì, 18 Febbraio 2015 09:16 ,
  • Pubblicato in ZeroViolenza
Monica Pepe, Zeroviolenza
18 febbraio 2015

"Il tempo della globalizzazione è il tempo di una violenza che non si limita a uccidere, ma che penetra e ferisce corpo e anime". Arjun Appadurai

Quanto accade in alcuni Paesi arabi come in alcune capitali europee, sublima ogni modernità, reale o presunta, mettendo a profitto l'istinto primordiale della violenza.

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