Ingenere.it
27 04 2015
Donne e uomini si diventa, anche a colpi di parole. Una rassegna di contributi teorici attorno alla stretta relazione tra il linguaggio e la dimensione materiale e fisica che coinvolge le persone e le cose.
Dario Minervini
Cosa distingue gli uomini e le donne? La domanda potrebbe apparire banale se non fosse che attorno a questo interrogativo numerose studiose - e qualche studioso - hanno sviluppato un dibattito scientifico particolarmente vivace. Il corpo, la relazionalità (più o meno affettiva), la razionalità (più o meno strumentale), il ruolo socialmente riconosciuto e legittimato, le parole e i discorsi con cui si rappresentano il maschile e il femminile. Queste sono solo alcune delle questioni che derivano direttamente dalla domanda sopra indicata. La rassegna di riflessioni teoriche attorno al concetto di performatività[1], che qui si propone, parte dalla sfera immateriale del linguaggio e del suo potere di 'fare' gli uomini e le donne e arriva alla dimensione materiale, quella fisica e tangibile delle persone e delle cose che le circondano.
Le parole non descrivono semplicemente il mondo, lo agiscono. Affermazioni come questa sono generalmente ricondotte alla teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin che nel 1962 pubblicò un volume dal titolo decisamente esplicito: How to Do Things with Words. Fra gli esempi indicati dallo stesso Austin per illustrare in che modo il potere delle parole potesse tradursi in azione vi fu quello di un prete che nel corso di una cerimonia nuziale afferma con tono fermo e deciso “vi dichiaro marito e moglie”. Se per un momento si prova ad immaginare questa scena abbastanza consueta vedremmo come una formula rituale, proferita da un soggetto investito di un’autorità riconosciuta, all’interno di un contesto regolato da norme condivise, performa la realtà.
Qualche tempo dopo, a partire dagli anni ’90, la filosofa femminista Judith Butler evidenziò come le parole agissero nella definizione di una specifica costruzione sociale, quella del maschile e del femminile. Il risultato fu quello di una rappresentazione negoziata e socialmente determinata dell’identità di genere. Questa volta era la stessa categoria del genere ad assumere una connotazione performativa, coincidendo con una serie di atti non esclusivamente linguistici espressi, interpretati ed incorporati dagli attori sociali. In questo quadro teorico, il tema del corpo e di come questo potesse essere linguisticamente rappresentato, costituì uno dei nodi centrali del ragionamento di Butler. Il corpo, infatti, appariva come parte integrante del processo di costruzione sociale del genere in quanto detto e agito, descritto e attivato nei diversi momenti e luoghi dell’esperienza quotidiana. La performatività si manifestava esattamente nel dire degli uomini e delle donne nella vita quotidiana, nella ripetizione nel tempo di questa rappresentazione culturale e sociale di come gli uomini e le donne sono e si comportano.
Più recentemente, a partire dal corpo e dalla sua materialità, sono state elaborate e teorizzate nuove rimodulazioni del rapporto fra performatività e genere. Annemarie Mol, ad esempio, evidenzia il ruolo del corpo nel supportare attivamente la costruzione sociale delle identità di genere associandosi ai discorsi, contribuendo ad attivare specifiche configurazioni socio-materiali. Queste argomentazioni vengono sviluppate all’interno di un campo disciplinare relativamente giovane, quello degli studi di scienze e tecnologie di cui Mol è una delle più autorevoli esponenti.
"Una vagina o un pene non devono necessariamente determinare l’essenza dell’identità di genere per essere significativi nella rappresentazione di se stessi in quanto donna o uomo. Fino a che punto siano rilevanti dipende dalla scena. Per strada non c’è bisogno di un pene per performare la mascolinità. Mentre è molto utile nella doccia condivisa di una piscina. Lì i genitali ci sono, sono in scena"[2]
Questo stralcio, provocatorio ed efficace al tempo stesso, è contenuto in un libro nel quale la studiosa restituisce, argomentandoli, i risultati del proprio lavoro etnografico sulle pratiche scientifiche di tipo diagnostico nel campo dell’arteriosclerosi. Le pagine descrivono in maniera dettagliata i modi in cui i corpi e la scienza medica si incontrano e le diverse dinamiche performative che di volta in volta possono manifestarsi. La materialità conquista una scena di primo piano e affianca l’attore esperto nella definizione della realtà (il titolo del volume è esplicito in tal senso: The body multiple. Ontology in medical practice). Guardare al corpo, e a come questo partecipa nel riconoscimento del maschile e del femminile, consente di mettere definitivamente in discussione l’idea che esista un’essenza naturale alla base del genere. Piuttosto la sfera naturale (biologica) e quella culturale (della rappresentazione sociale) contribuiscono insieme a performare il genere.
Gli studi sviluppati nell’ambito degli studi di scienza e tecnologia aprono ad altre dimensioni analitiche e complicano lo scenario. Karen Barad ridimensiona ulteriormente il potere di definizione della realtà da parte del linguaggio decentrando la capacità umana di agire sino ad attribuire alla performatività una natura che lei stessa definisce post-umana (Barad 2003). Barad nega che il linguaggio degli uomini possieda in sé il potere di rappresentare la realtà delle cose in maniera autonoma dalla realtà stessa. La concezione asimmetrica del rapporto fra il domino delle parole e quello della realtà 'reale', afferma Barad, è il risultato di una specifica acquisizione epistemologica ed ontologica di tipo storico-sociale e non deve essere confusa con un’inevitabile operazione logica necessaria alla speculazione scientifica. Un’alternativa può essere quella di vedere come le cose e le persone co-costruiscano la realtà. Su questo punto Barad richiama oltre a Butler un’altra importante studiosa di 'questioni di genere', Donna Haraway. Entrambe, infatti, evidenziano l’importanza di guardare al modo attraverso cui i soggetti diventano corpi culturalmente connotati (Haraway 1997), ovviamente anche in termini di genere. Questo processo performativo che associa i soggetti e le entità materiali, le parole e le cose, è un processo profondamente politico.
L’agire politico in riferimento alla dimensione biologica ci porta immediatamente a Michel Foucault. Nello sviluppo del discorso sulla performatività post-umana Barad prende in prestito diversi concetti dal filosofo francese fra cui quello di dispositivo. Proprio parlando di scienza e di tecnica, infatti, si evidenzia come questi siano i luoghi d’elezione in cui i dispositivi (tecniche e tecnologie di misurazione, strumenti diagnostici, regole e procedure di diritto, etc.) vengono attivati. I dispositivi non consentono semplicemente di trasferire su una lastra l’immagine di una massa tumorale o di materializzare l’agire di un delinquente in una sentenza, ma sono letteralmente corresponsabili - anche in termini etici - di ciò che contribuiscono a performare. Per queste ragioni la performatività appare distribuita ma questo non esclude la responsabilità che cose e persone esprimono nelle dinamiche di inter-azione. Se, ad esempio, si considerano alcuni artefatti nei quali è possibile rintracciare uno specifico 'copione' di genere è possibile registrare sia la riproduzione tradizionale della divisione sessuata dei ruoli che le pratiche di ridefinizione degli stessi. Un’immagine efficace può essere quella di una bambina che gioca con suo padre calciando una palla rosa che riporta le immagini delle più famose principesse del mondo delle fiabe. Quella che è stata appena descritta è una scena nella quale una configurazione socio-materiale è oggetto di negoziazione fra le parti in causa e performa una realtà per certi versi alternativa a quelle che consideriamo usuali (il gioco 'maschile' del calcio, le decorazioni 'femminili' della palla).
Tuttavia le situazioni legate all’identità di genere appaiono decisamente più problematiche. L’esempio appena riportato è adeguato a rendere conto di un aspetto particolarmente rilevante: le asimmetrie fra soggetti e materialità coinvolti nelle dinamiche performative. Se è vero che la performatività è il risultato di una negoziazione distribuita, è altrettanto vero che all’interno di questa dinamica vi sono responsabilità, capacità e pesi specifici differenti. Nel caso del genere, ciò appare difficilmente contestabile: i generi non hanno tutti le stesse possibilità performative, e uomini e donne non sempre condividono gli stessi spazi di possibilità. La questione dell’asimmetria e del potere è stata presa in seria considerazione da quella che potremmo definire un’alleanza scientifica e politica fra stidi di genere e studi di scienza e tecnologia. L’incontro di queste sensibilità disciplinari ha dato vita a un progetto che partendo dalla decostruzione dei vincoli linguistici e delle rappresentazioni socioculturali ha incluso la materialità come dimensione costitutiva e dinamica nei e dei processi performativi del genere. La sfida posta da questa alleanza è quella di minare alle fondamenta quell’immaginario che ancora oggi non sfugge alla tentazione di riportare i modi di essere del genere all’interno di ciò che si considera 'naturale' e per questo eticamente ammissibile, oltre che moralmente dovuto.
Riferimenti bibliografici
Austin, John L. (1968) How to Do Things with Words. Oxford: OUP, 1962.
Barad, Karen. (2003) "Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter", Journal of Women in Culture and Society, vol. 28, no. 3, pp. 801-831
Butler, Judith. Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. New York: Routledge, 1990.
Haraway, Donna (1997). Modest Witness @ Second Millennium.Female Man Meets Onco Mouse. New York: Routledge.
Mol, Annemarie. (2002) The body multiple. Ontology in medical practice, Durham-London, Duke, University Press.
NOTE
[1] In questo breve contributo si richiamano alcune riflessioni teoriche sul genere che hanno fatto riferimento alla performatività, ovvero a quel complesso di dinamiche che danno una forma, un significato e un ruolo sociale agli uomini e alle donne.
[2] Mol 2002: 39, traduzione dell'autore
Ingenere
20 04 2015
Attraverso il linguaggio si trasmettono diversità e diseuguaglianze sociali. C'è ancora da fare per muoversi oltre il sessismo delle parole.
Fabio Corbisiero Elisabetta Ruspini
Il delicato e complesso rapporto tra generi e linguaggi è stato discusso a dicembre in un convegno dal titolo “Genere e linguaggio. I segni dell’uguaglianza e della diversità”[1]. All’evento sono intervenuti studiosi e studiose di scienze sociali, linguistiche e psico-pedagogiche provenienti dall’Italia e dall’estero, rappresentanti politici e attivisti/e del mondo associativo locale e nazionale.
In tutti gli interventi è stata riconosciuta la necessità di un impegno costante di lotta non solo al sessismo nei linguaggi, ma contro le vecchie e nuove esclusioni che hanno origine dal mancato riconoscimento, dalla de-legittimazione o dall’occultamento di intere realtà sociali considerate non conformi alle norme sociali prevalenti. In tal senso, un approfondimento è stato riservato alle relazioni e alle forme familiari omossessuali rappresentate dall’Associazione Famiglie Arcobaleno.
Il convegno, che si è sviluppato in tavole rotonde e sessioni parallele, dense per il numero e la rilevanza dei contributi offerti, ha visto una straordinaria, attiva e non consueta partecipazione di giovani studenti e studentesse. Dalle loro voci è emerso che la definizione delle comunità dei parlanti e gli usi linguistici che le caratterizzano, nonostante i loro innumerevoli medium, sono ancora spazi sociali e culturali di ri-produzione delle disuguaglianze di genere. Anche se positivamente è stato osservato che i nuovi medium comunicativi, di cui dispone la generazione dei Millennial, offrono straordinarie e inimmaginate possibilità di conquista e costruzione di spazi di partecipazione, il rischio che diventino ambiti segreganti non è superato. Le parole dell’eterosessimo (questo è il nome di una delle tavole rotonde organizzate) producono persistenti distinzioni sociali, non ultime quelle legate agli orientamenti sessuali che sconvolgono le rassicuranti, comprensibili e scontate visioni binarie del sesso e del genere.
Le appartenenze di genere e di orientamento sessuale creano comunità e gruppi sociali che nei linguaggi trovano strumenti di espressione per le proprie soggettività individuali e collettive, i cui confini sono permeati anche da altri fattori di differenziazione sociale. È il caso, per esempio, dell’uso di gerghi in alcuni gruppi sociali, nei quali il gergo stesso, che costituisce dapprima uno strumento di autoprotezione per gli appartenenti, finisce per contaminare la lingua dominante attraverso l’introduzione di item o espressioni lessicali nella lingua egemone della comunità di riferimento. Ciò è particolarmente vero nel caso di usi linguistici direttamente legati alla costruzione sociale del genere. Esiste una dimensione discorsiva e collettiva di questi processi che, oltre a porre in discussione le categorie del genere e dei generi, attacca il monologismo e la unidimensionalità del sé, troppo spesso costretti, anche dal carattere normativo e performativo degli usi linguistici.
A tale proposito, durante il convegno non sono mancati i riferimenti alle forme più note di controllo e violenza, esercitate anche mediante il linguaggio, che caratterizzano le relazioni tra uomini e donne, ma anche tra soggetti che esprimono identità e orientamenti sessuali inediti. I linguaggi e i molteplici canali comunicativi che li esprimono – dai media tradizionali a quelli più nuovi, rafforzano le mascolinità egemoni e occultano, stigmatizzano e alimentano stereotipi sulla femminilità e sulle mascolinità non egemoni producendo una narrazione di queste identità del tutto funzionale alla sopravvivenza di rapporti di dominio. Se da un lato, emerge con sempre maggiore frequenza la volontà di capire se, e come, il modo in cui si nomina e si rappresenta socialmente la violenza di genere, può alimentare stereotipi, dall’altro non si può non osservare come questi stessi processi siano il risultato di rappresentazioni della mascolinità e femminilità fortemente ancorati al sistema di genere prevalente, strategicamente asimmetrico. Questa consapevolezza stenta però ad affermarsi nei singoli individui e viene ostacolata da rappresentazioni collettive in cui le gerarchie sociali costruite sul genere si complicano intrecciandosi con quelle basate sulle appartenenze etniche. Soprattutto in quest’ultimo caso, la lingua è il principale elemento di attribuzione del prestigio sociale o dell’esclusione di coloro che sono estranei/e, in primo luogo in quanto non appartenenti alla comunità dei parlanti della lingua dominante. È il caso delle donne migranti che vedono nell’apprendimento della lingua un fattore importante di integrazione sociale. Per le donne migranti imparare l’italiano simboleggia la possibilità di entrare in un sistema relazionale che concede riconoscimento sociale e, con esso, appartenenza e cittadinanza. Questi processi sono oggetto anche dei principali medium della comunicazione: il cinema, la televisione, la pubblicità, oltre che rappresentare le differenze, stanno rafforzando il loro ruolo di produttori di linguaggi di genere attraverso la creazione di format comunicativi sconosciuti fino a pochi anni fa.
Tali rappresentazioni collettive si confrontano, soprattutto per le generazioni più giovani, con i linguaggi usati nei luoghi della formazione rispetto alla loro capacità di costruire culture di genere. La scuola, a qualsiasi ordine e grado, le associazioni sportive, politiche e culturali e le altre istituzioni destinate alla formazione sono continuamente sottoposte alla necessità di interrogarsi sulle modalità attraverso le quali questi linguaggi intervengono nello sviluppo delle identità di genere dei/delle più giovani. Sempre più di frequente si stanno sperimentando gli usi linguistici di genere e strumenti formativi incentrati sul linguaggio e finalizzati alla costruzione di nuove culture di genere. Si tratta di un percorso complesso e in cui non mancano forti resistenze istituzionali
Le identità di genere chiamano in causa elementi fondanti degli orientamenti valoriali espressi dalla società italiana. Quand’anche si escludano persistenti stereotipi e pregiudizi sulle identità di genere, motivazioni religiose, etiche, morali sono solo alcuni dei fattori intorno ai quali si coagulano interessi individuali e collettivi che esprimono opposizioni rispetto ai processi di mutamento sociale. Non trascurabile in questo dibattito il ruolo assunto dalla scienza rispetto alle discussioni di bioetica, che interessa direttamente la definizione dei corpi come maschili e femminili, e le implicazioni che l’imposizione di questi confini può produrre nella costruzione delle identità di genere.
NOTE
[1] Il convegno si è tenuto al Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli. Il Convegno è stato promosso dalla Sezione “Studi di Genere” dell’AIS-Associazione Italiana di Sociologia, dall’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e dal C.L.A (Centro linguistico di Ateneo) in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale Lgbt, G.I.S.C.E.L (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), Arcigay “Antinoo” di Napoli. Preziosa è stata anche la collaborazione del Sindaco della città di Napoli e di alcuni assessori comunali e regionali impegnati, anche nella propria attività istituzionale, nella lotta contro le disuguaglianze basate sul genere e sull’orientamento sessuale.