Antropologia e sviluppo
24 12 2014
“Il maschio democratico che non prende una netta e manifesta posizione su quest’emergenza (femminicidio) è come il cittadino del Sud che non prende personalmente posizione contro le mafie, tranquillizzandosi all’ombra della propria onestà.” Roberto Mussapi
A volte accadono episodi eclatanti di violenza come l’assassinio, lo stupro, il pestaggio, ma molto più spesso la violenza è verbale, gestuale, psicologica, simbolica. L’accostamento della citazione di apertura con il fenomeno delle mafie è quanto mai pertinente, se si considera come queste vengano percepite in quanto piaga sociale e come ancora invece il femminicidio continui a essere considerato una questione da donne.
Secondo il report delle Nazioni Unite per il contrasto della violenza sulle donne, Il femminicidio è crimine di Stato a causa di pratiche discriminatorie nei confronti delle donne.
Voglio affermare qui con forza che a livello istituzionale occorre che a occuparsi di pari opportunità debbano necessariamente esserci persone femministe. Sembra un’ovvietà, dato che il femminismo è lotta per l’uguaglianza, ovvero esattamente il mandato delle pari opportunità. Eppure non lo è, se i fatti mostrano che – con uno slittamento di senso agghiacciante – si incaricano donne, ovvero femmine, invece che persone femministe, laddove il punto non è il sesso biologico, ma l’attivismo per uguali diritti.
Esiste un femminicidio culturale, politico, economico, istituzionale. Una violenza simbolica che coinvolge dominanti e dominate, che hanno incorporato modelli culturali al punto da non percepirli come tali (Bordieu). Non è un caso che i numeri delle donne uccise siano forniti da associazioni, e non da rilevazioni istituzionali, nonostante le uccisioni di donne operata da uomini in rapporti di prossimità con loro abbiano assunto una portata non inferiore a quella delle vittime di mafia, la percezione di questi delitti non è quella di crimine antisociale. Lo Stato, nonostante le legge lo preveda, non conta le cittadine ammazzate. L’unica rilevazione statistica è l’indagine ISTAT del 2007, riferita al 2006, che conteneva tutte le premesse di quel che possiamo raccogliere oggi.
Nominare le cose è espediente culturale universale per ordinare il mondo, eppure la nozione di femminicidio, ovvero l’uccisione di una donna in quanto tale, è entrata a piccoli passi nel nostro linguaggio, e non senza resistenze sia da parte di donne che di uomini.
Un certo modo di parlare, appreso nell’infanzia, che utilizza il maschile neutro, diventa per automatismo il modo di percepire il femminile come subordinato al maschile dominante. Ancora oggi in molte lingue europee utilizziamo il maschile plurale quale forma neutra per i gruppi che includono donne e uomini, mentre il femminile viene usato per quelli di sole donne. Il maschile neutro, di fatto, occulta nella percezione sia la presenza che l’assenza di donne. La presenza femminile viene dunque oscurata. Una mancata declinazione femminile si nota specialmente in caso di ruoli di potere. Di tutte le forme di “persuasione occulta”, la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose, affermava Bordieu.
In Italia l’Accademia della Crusca si sta prodigando per far entrare nel lessico comune parole che declinano per genere competenze e professionalità, esercizio a quanto pare relativamente semplice per mansioni ritenute poco autorevoli, ma difficoltoso allorquando le professionalità sono elevate. Così una Prefetta viene istituzionalmente nominata secondo la declinazione maschile “Prefetto”. Lo stesso per una Questora. E che dire dei professori universitari? Si è “professore” associato anche se donna.
L’importanza cruciale di un linguaggio non discriminatorio è rilevante, se consideriamo cosa accade nei fatti. Nonostante l’Italia sia uno Stato democratico con più della metà della popolazione di sesso femminile, il pensiero delle donne stenta a essere preso in considerazione. L’Osservatorio di Pavia ha monitorato che fra gli esperti intervistati nei Tg italiani solo il 10% è di sesso femminile (il restante 90% è di sesso maschile). Dentro le notizie sono state esplorate diverse questioni, fra cui la centralità femminile: solo nell’8% dei casi, le donne, come singole o come gruppo sociale, sono il focus dell’informazione. La televisione, prima agenzia educativa persino nelle case nelle quali è assente, ci mostra un mondo nel quale l’opinione di una donna è evento straordinario. Non un dettaglio, considerato poi cosa può comportare la scoperta che una donna ha una sua opinione, una sua volontà che prescinde dall’uomo abituato così diversamente.
Discriminare è percepire l’altro come qualcuno a cui manca qualcosa. Chi discrimina è incline all’oggettivazione della persona, privata così della propria essenza umana e della propria personalità.
Il mancato riconoscimento di una piena umanità della donna raggiunge il suo apice con il fenomeno della colpevolizzazione della vittima. Generalmente la morte induce le persone a una sorta di santificazione del defunto, ma la regola cambia quando a morire è una donna uccisa, magari da un uomo a lei familiare. Questo perché la de umanizzazione permette di giustificare l’aggressività sull’altro.
Una ricerca di G.T. Viky-D. Abrams (2003), ha sottoposto immagini varie di donne e uomini, tra le quali anche alcune oggettivate e sessualizzate. E’ stato osservato che le immagini oggettivate e sessualizzate di donne ottenevano una maggior percezione de umanizzata, avvicinandole all’animalità. La reazione riguardava però solo le immagini di donne, suggerendo che l’oggettivazione e la sessualizzazione sia denigratoria solo per le donne. Insomma, mentre un uomo a dorso nudo rimane persona, altrettanto non accade per una donna poco vestita. Questa visione rimaneva invariata a prescindere dal genere dei partecipanti alla ricerca ai quali le immagini erano state sottoposte. Per le donne la de umanizzazione deriva dalla mancata identificazione, per gli uomini la de umanizzazione va di pari passo con l’attrazione sessuale. Si apra un qualsiasi giornale, si accenda la tv e si traggano le debite conclusioni a riguardo. Media, stereotipi culturali, educazione e politiche di uguaglianza sono gli ambiti concreti di prevenzione della violenza.
In merito alle politiche di uguaglianza un esempio pratico è la constatazione del mancato sguardo di genere. Secondo i criteri di assegnazione, il regolamento dell’agenzia territoriale per la casa di Cuneo prevede quali categorie speciali: anziani, famiglie di nuova formazione, disabili, emigrati, profughi. Non mi risulta che le donne vittime di violenza siano considerate categoria speciale, né lo siano le madri single, o le donne separate. Questo nonostante ricorrenti raccomandazioni internazionali a sostenere l’autodeterminazione delle donne per un’efficace azione a prevenzione e contrasto della violenza. Gli ambiti nei quali metter mano a una revisione dei criteri e dei sistemi di pensiero attraverso i quali si esprime l’efficacia dell’azione amministrativa sono diversi. Si pensi alla questione della genitorialità e della famiglia, a quali modelli di riferimento incorporati possano intralciare l’umanità dell’intervento dei servizi sociali, appesantiti da strutture culturali lontane dalla realtà delle nuove famiglie, di nuove madri e nuovi padri, di famiglie allargate non regolamentate culturalmente.
Una concreta strategia di intervento coordinata contro la discriminazione delle donne è un vantaggio sociale per tutti…
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23 12 2014
ILARIA RAVARINO
A un mese dall'ufficializzazione dei giochi elettronici competitivi non ci sono numeri ufficiali, ma in Italia gli e-sportivi sono soprattutto maschi. Eppure esiste una squadra, la Mad Kitties, che prova a battere colleghi e sessismo, che non manca nel mondo dei gamers
Finito il turno al call center Michela torna a Bergamo per allenarsi. Lo fa da anni per quattro ore al giorno, tutti i giorni. E prima di un match importante ha un modo tutto suo di prepararsi: ascolta musica, “punk hardcore e metal”, e fa training autogeno. “La convinzione di farcela è la spinta più forte quando affronti una partita - racconta a pagina99 - mentre il maggiore ostacolo è la paura”. Michela è un'atleta. Solo che la sua disciplina, il gioco elettronico competitivo, in Italia è diventata ufficialmente uno sport da meno di un mese.
Fondatrice 24enne del team delle Mad Kitties, giocatrici professioniste dello “sparatutto” Call of Duty, Michela alias “Banshee” - insieme alle colleghe Chiara, Blonde e RinoaHeart, tutte supportate dal management dell'associazione Personal Gamer - fa parte della piccola percentuale (il 10%) di player donne nel videogioco professionale italiano. “Il gaming – spiega Michele Bertocchi, responsabile nazionale di Giochi Elettronici Competitivi (Gec), divisione dell'ente sportivo Asi affiliato al Coni – è una disciplina molto democratica: contano solo risultati e numeri. Giocatore o giocatrice fa lo stesso. L'importante è che il player sia forte e vinca”. Chiunque abbia talento può diventare un campione. E neanche l'handicap fisico rappresenta una barriera, come dimostra il caso di Massimiliano “MacsHG” Sechi, terzo miglior giocatore di Diablo II in Europa nonostante una forma di focomelia lo costringa sulla sedia a rotelle.
In Italia gli e-sports si rivolgono a un bacino di 31 milioni di videogiocatori, che non senza fatica il Gec sta provando a disciplinare facendo da aggregatore di un mondo frammentato in decine di fenomeni locali. “Cerchiamo di tenere insieme i circuiti, di incrociare le graduatorie regionali, di disciplinare gli atleti e gli organizzatori dei tornei”, racconta Bertocchi. Il tesseramento non solo gli permette di contare i professionisti, ma anche di tutelarli e soddisfare i presupposti burocratici per fargli muovere i primi passi nell'agonistica. “La burocrazia - considera - è il nostro maggior problema”.
Tra le tutele, prima di tutto, la salute. Quella fisica, visto che il Coni offre agli e-sportivi un accesso facilitato alle proprie palestre, e quella mentale. “Un giocatore di pallacanestro non può tollerare troppe ore di allenamento perché il suo fisico, dopo tre ore, comincia a stancarsi. Al videogiocatore questo non succede. Un ragazzo può andare avanti anche per 16 ore senza pause. Il Gec incentiva invece i professionisti a giocare di meno e meglio, un massimo di 4-6 ore al giorno”. E il problema del doping, che esiste nell'e-sport “come tanti altri problemi degli sport tradizionali, incluse le partite truccate”, non è ancora stato risolto.
A un mese dall'ufficializzazione del gioco elettronico competitivo, Gec non divulga i numeri del tesseramento degli e-sportivi italiani. Ma un identikit lo si può già tentare: maschi fra i 16 e i 25 anni (il più piccolo ne ha 12, il più grande 35), equamente distribuiti tra Nord e Sud del paese, con una prevalenza di giocatori di Fifa nel meridione e di First Person Shooter nel settentrione.
Le donne sembrano essere ancora pochissime. E non tutte le player, nelle dirette delle loro partite in onda su Twitch (la piattaforma di streaming online acquistata da Amazon per 970 milioni di dollari), si fanno apprezzare per il talento. Secondo il Gec “c’è senz'altro un problema di retaggio maschilista, ma anche un concorso di colpa. Non per niente Twitch di recente ha imposto la censura dello streaming di chi non rispetta i canoni di decenza nell'abbigliamento. Alcune delle streamer più popolari giocavano indossando solo abbigliamento intimo, attirando commenti diversi dal tifo. L'obiettivo di un professionista non deve essere fare show, ma allenarsi e vincere”.
Del resto, come ampiamente raccontato dal fenomeno del #gamergate, la base dei videogiocatori flirta volentieri con il sessismo. "Una ragazza che decide di entrare nel mondo dei videogame va incontro a pregiudizi e molta maleducazione - racconta Katia "gengarqt" Barjaoui, studentessa universitaria da sette mesi nel team Atrax Esports di League of Legends - il problema è nella mentalità italiana, ancora molto chiusa. La soluzione è ignorare questi comportamenti e andare avanti".
Ma la diffidenza brucia, soprattutto se si ha talento: "Magari i colleghi maschi ammettono che sei più forte della media - spiega Banshee - ma nella squadra non ti ci vogliono. Perché in fondo c'è questa idea del cameratismo al maschile, del team di soli uomini. Cosa che nel resto d'Europa non accade. I team fuori dall'Italia sono misti, e ci sono delle ragazze fortissime”.
A Sasha Hostyn, alias Scarlett, campionessa canadese di Starcraft 2, il New Yorker ha recentemente dedicato un dettagliato ritratto definendola “la migliore atleta nella giovane storia degli e-sport”. Una professionista che - al pari dei fortissimi colleghi coreani o cinesi - di e-sport riesce a vivere, arrivando a guadagnare anche 30.000 dollari l'anno, sponsorizzazioni escluse. “Io tutto quel che ho guadagnato con la mia carriera l'ho subito speso - racconta Michela -, perché in Italia di questo sport ancora non si vive. Farlo per lavoro mi piacerebbe, ma devono cambiare tante cose”. Gli sponsor, prima di tutto. “In Italia la situazione è drammatica. All’estero ci sono tornei organizzati da colossi come Coca Cola o Red Bull e team sponsorizzati dalla Samsung. Da noi è difficile trovare un'azienda disposta a scommettere sugli e-sports”. E dire che in America e in Cina, dove proprio in questi giorni a Shanghai ha aperto una nuova scuola per e-sports, il fenomeno muove miliardi di dollari.
La natura virtuale del terreno di gioco non deve confondere: il talento degli atleti è reale. “A parte la connessione internet, che fa la differenza, il resto è abilità del singolo. L'hardware del giocatore è come la racchetta per un tennista o le scarpette per un calciatore. Tecnicamente il talento del player ha qualcosa in comune con quello degli stenografi”, spiega Bertocchi. Una come Scarlett, scrive il New Yorker, è in grado di compiere su Starcraft una media di 100 azioni al minuto.
“Sono anche indispensabili velocità di reazione e coordinazione occhio-mano: per chiudere una finestra sullo schermo si possono perdere due o tre secondi, che in una partita sono preziosi. E infine occorre una spiccata propensione alla strategia e al decision making”. Motivo per cui, per il capitano delle Mad Kitties, “una ragazza può dare un grande apporto a un team maschile. Non credo nelle quote rosa, ma nei fatti: ci sono studi che dimostrano che le donne hanno una capacità di concentrazione maggiore degli uomini e migliori riflessi. I colleghi maschi dovrebbero smettere di sentirsi invasi in un campo che ritengono loro”.
E magari unire le forze, per permettere all'Italia di scalare almeno i ranking del maggior campionato europeo. Dove a stravincere è il paese che per primo ha scommesso sugli e-atleti senza badare al genere: la Germania.
Il Fatto Quotidiano
23 12 2014
Ospito volentieri sul mio blog le riflessioni di Lorenzo Gasparrini che ringrazio.
Battiato, Benigni, Bizzarri. Un insulto, una metafora, una sineddoche: tre sessismi diversi, ma egualmente odiosi e ingiusti. E che, detti da persone del mondo dello spettacolo, le cui parole hanno grande risonanza, fanno molto danno a tutti e tutte.
Battiato: “Ci sono troie in parlamento”, la storia è ormai famosa. Come è ormai altrettanto famoso il banale argomento, usato da Battiato come da milioni di uomini che abitualmente usano insultare così persone di tutti i generi, che “ho solo parlato di un malcostume politico, non parlavo certo di donne. Io non sono mai stato sessista e chi mi conosce lo sa bene”.
Rimane il fatto, incontrovertibile e inattaccabile da qualsiasi buona intenzione, che per insultare si è scelto un termine che non ha corrispettivo al maschile. Non ce l’ha perché nella storia patriarcale e maschilista della nostra società, solo la condotta sessualmente libera delle donne – anche nel senso della prostituzione mirata a ottenere benefici – è oggetto di insulto. Quella maschile no, infatti per quest’ultima non c’è la parola. Non si insulta un uomo di potere perché, di fronte a una donna che glielo vuole estorcere tramite il sesso, cede o concede una parte di quel potere. E’ questo, per l’appunto, il sessismo della parola “troia”, usato nel senso di Battiato: la colpevole è sempre lei, perché quel comportamento è definito come femminile; anche se si vuole intendere i parlamentari maschi, li si definisce “schifose donne”.
Né Battiato né nessun altro può cambiare la storia dei rapporti tra uomini e donne depositata nel nostro linguaggio. Stupisce che un maestro delle parole come lui, sedicente “mai stato sessista”, non si renda conto di questa banale inattaccabile realtà, che con le sue stesse parole ha ratificato ancora una volta.
Benigni: se si spiega la costola di Adamo con la parità dello stare al fianco, allora quel fianco non deve voler dire protezione. Perché se dici che qualcuno nasce da te per essere protetto, stai instaurando una gerarchia, nella quale tu sei grande e forte e proteggi il piccolo e debole, che sarebbe nato da te. E se questa storiella la usi per spiegare il rapporto tra uomini e donne, è sessismo – cosa confermata da una rapida e facile verifica dell’originale. Sessismo neanche tanto nascosto: che parità è quella tra uno che genera un altro da proteggere? Al massimo è una concessione: è paternalismo.
Il quale paternalismo, non a caso, viene da un testo sacro nel quale i protagonisti sono tutti uomini, tranne una donna che partorisce vergine un figlio non del suo compagno. La realtà è che, per quante storie ci vogliamo inventare, tutti e tutte nasciamo dal corpo di una donna. Sarebbe il caso di ricordarsene anche quando si va in tv a fare divulgazione – o a pretendere di farla.
Bizzarri: “Addio a una figa spettacolare”. Strano che un uomo non capisca che essere denotati dai propri genitali non fa piacere. Eppure “coglione” e “testa di cazzo” raramente sono accettati come complimenti. Però a una donna essere chiamata come una sola parte del proprio corpo, quella destinata al sesso e alla riproduzione, dovrebbe suonare come un apprezzamento. Si chiama sessismo anche questo, e anche in questo caso non contano le intenzioni, e anche in questo caso non è difficile capire perché. Io posso decidere che in una bastonata ci metto tanto amore, ma quello che la riceve non sente l’amore, sente la bastonata; anche se nel mentre gli dico “io ti amo!”. Chissà che avrebbe pensato Virna Lisi, mito della storia del cinema mondiale, del fatto che un uomo di spettacolo per ora un pochino meno rilevante di lei la chiamasse tramite il suo organo sessuale, e pretendendo di farle così cosa gradita.
Battiato, Benigni, Bizzarri. E’ evidente che loro, gli autori, anzi i pronunciatori di quelle parole, non sanno niente di sessismo, non si ritengono sessisti; ed è normale. Sono tre “normali” uomini, cresciuti – pur in periodi e contesti diversi – in una “normale” società sessista e maschilista, come quella in cui viviamo. Non è colpa loro se usano abitualmente un linguaggio che rispecchia lo squilibrio di potere vigente tra i generi, squilibrio mantenuto efficace anche dal linguaggio quotidiano.
Nati in un mondo che educa da piccoli alla discriminazione sessista, cresciuti in un mondo di “cose da uomini” e “cose da donne”, adulti bombardati da media ipocriti e devoti, per marketing, al potere vigente – e come pretendere che sia facile per gli uomini capire cos’è il sessismo? Non ne hanno colpa.
Un po’ meno normale è che non lo vogliano capire, quando glielo si fa notare. Preferiscono non informarsi, per poi doversi assumere una responsabilità; questo comportamento, senza dubbio, è tutta colpa loro.
A prezzo di fior di morti ammazzati per secoli, il razzismo lo si è capito, per esempio, e l’antisemitismo pure, e la discriminazione verso i disabili anche; a fatica, ma dopo innumerevoli battaglie civili si è data una bella ripulita pure al linguaggio. Però quella sessista pare proprio una discriminazione più scomoda da capire; perché se gli studi, le ricerche e le statistiche che la confermano ci sono da pochi decenni, invece di morte ammazzate perché donne ce ne sono moltissime, e anche da parecchi secoli. Però ancora ci si difende dicendo “io no”, o “i problemi sono altri”, oppure sostenendo che chi ti fa notare il sessismo è un/una moralista, un/una bacchettone/a, o – peggio ancora! – un/una femminista.
Battiato, Benigni, Bizzarri – e tanti altri: guardate che a furia di insultare la propria intelligenza, va a finire che quella s’offende e se ne va. E con tutte le ragioni.
La Stampa
07 11 2014
Una delle cose che non perdonerò mai a Berlusconi è di averci costretto per vent’anni a solidarizzare con una categoria, i magistrati, che era sempre stata una delle più invise ai cittadini comuni, forse con qualche ragione (fatti salvi gli eroi e le persone perbene, presenti in ogni mestiere). Quando il potere burocratico rilascia le sue caratteristiche fragranze Supponence e Arrogance produce decisioni come quella del Tribunale Supremo (Supremo!) di Lisbona, che ha drasticamente ridotto il risarcimento danni alla signora cui un errore medico – la recisione di un nervo – aveva tolto per sempre la possibilità di trarre godimento dall’attività sessuale. La motivazione dei parrucconi portoghesi è che la signora ha già avuto due figli e compiuto cinquant’anni, «età in cui la sessualità non ha più l’importanza che aveva da giovani».
L’olezzo di queste parole è percepibile anche a migliaia di chilometri di distanza. L’allusione ai figli lascia intendere che la signora ha già svolto il compito riproduttivo per cui le femmine sono state create dalla biblica costola. Mentre il riferimento ai 50 anni, messo per iscritto da un consesso di maschi ultracinquantenni, significa che oltre le colonne d’Ercole della menopausa la donna non è più programmata per ricevere piacere e nemmeno per darne, come ben sanno i coetanei dei giudici, che infatti vanno a cercarlo nelle amanti più giovani. Perché invece il maschio gode e fa godere a tutte le età: lo ha stabilito lo stesso Tribunale (Supremo!) in un’altra sentenza che non ha ridotto il risarcimento a un sessantenne con problemi di erezione a causa di una errata operazione alla prostata.
Massimo Gramellini