I fatti sono presto detti: ieri alle 3.30 del mattino a Brescia, Mario Albanese, un camionista di 34 anni, ha aspettato che la ex moglie, Francesca Alleruzzo di 45 anni, rincasasse insieme all’attuale compagno della donna, Vito Macadino, di 56 anni, per freddarla a colpi di pistola uccidendo lei e anche l’uomo che l’accompagnava. Infine Mario Albanese è entrato in casa e in presenza dei tre figli avuti dalla donna che aveva appena ucciso – rispettivamente di 10, 7 e 5 anni – ha ucciso la figlia di 19 anni, Chiara Matalone, avuta dalla donna in una relazione precedente, e il fidanzato di quest’ultima, Domenico Tortorici, anche lui di 19 anni, che si trovavano a casa della madre di lei per una vacanza.
Infine, compiuta la strage, l’omicida avrebbe tentato di uccidersi, ma la pistola si sarebbe inceppata proprio nel momento in cui sarebbe stato fermato da un carabiniere, svegliato dai colpi di pistola e dalle urla, che lo avrebbe fermato e arrestato. L’uomo, che faceva regolare visite ai bambini, ha dichiarato che la donna “lo tradiva”, pur essendosi separato da lei da due anni, e tanto è bastato per far ricadere il movente sulla gelosia che, pur essendo sicuramente un fattore importante nella ricostruzione della storia, appare come elemento riduttivo per quanto riguarda un femmicidio che ha alla base ben altri moventi e che questa volta ha avuto come esito una vera e propria strage degli innocenti.
Come viene citato nel “Rapporto Ombra” elaborato dalla piattaforma italiana “Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW”, e presentato a luglio alle Nazioni Unite, il termine Femmicidio (femicide), facendo riferimento alla categoria di analisi proposta da Diana Russell nel 1992 nel libro Femicide: The Politics of woman killing, “nomina” la causa principale degli omicidi nei confronti delle donne: come “una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna“. Un assunto chiaro in quanto “Il concetto di femmicidio si estende aldilà della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.
Nel rapporto si indica anche che “in Italia a partire dall’inizio degli anni ’90 il numero di omicidi è fortemente diminuito, si sono ridotti a un terzo, ma il numero di omicidi in famiglia è raddoppiato. Il che vuol dire che sono diminuiti gli omicidi degli uomini sugli uomini e aumentati quelli degli uomini sulle donne”, un fenomeno che ci sembra testimoniato dall’aumento delle vittime che dalle 127 donne uccise nel 2010 sono passate alle 139 uccise nel 2011, mentre per il 2012 siamo già su una cattivissima strada. A questo poi si aggiunga l’inesistenza di dati esatti in quanto, all’aumento dei femmicidi, non è seguito, come in Francia e in Spagna, l’allestimento di un osservatorio istituzionale, quindi del ministero degli Interni, che prendesse in considerazione gli omicidi di genere dividendo gli omicidi diciamo “normali” da quelli che coinvolgevano “donne uccise in quanto donne”.
Per tutte queste ragioni, ma anche per altre, il femmicidio, che è una conseguenza estrema della violenza di genere in quanto totale controllo sulla donna, non può essere trattato dai media come se fosse un momento di pazzia isolata di un uomo che si sente tradito o abbandonato, perché è scorretto, superficiale e anche pericoloso. Citando ancora il Rapporto ombra: “I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.
Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femminicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie e meno del 10% dei femmicidi è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi”. Stando ai dati che vengono riferiti, il più delle volte pare che alla base della violenza in un contesto familiare, e l’omicido è un crimine che riguarda la violenza, ci siano sì un sentimento di “orgoglio ferito, di gelosia, di rabbia, di volontà di vendetta e punizione nei confronti della donna” ma è sempre riferito al fatto che la donna ha “trasgredito” il modello comportamentale che la “controparte” si aspettava da lei, un concetto che coinvolge modelli culturali altamente stereotipati legati a una cultura patriarcale e misogina.