La Stampa
17 09 2015
Il capitano della nazionale femminile dell’Iran rischia di non giocare la Coppa d’Asia per colpa del marito. Niloufar Ardalan è il popolare capitano della nazionale femminile di calcio dell’Iran, riuscita a qualificarsi per la fase finale della Coppa d’Asia che inizia giovedì in Malaysia. Ma non può raggiungere la squadra nel ritiro malese perché il marito le ha tolto il passaporto a seguito di una lite coniugale.
E’ il sito Internet iraniano Fararu.com a descrivere l’anomala situazione: la centrocampista di 30 anni probabilmente non si unirà alle compagne perché la legge della Repubblica Islamica consente ai mariti il diritto di impedire alle mogli di recarsi all’estero.
Ardalan ha reagito al veto del coniuge postando su Instagram un messaggio nel quale afferma che «questa legge deve essere modificata» perché «sono solo un soldato che si batte per issare la bandiera nazionale».
Maurizio Molinari
La Stampa
11 09 2015
La bandiera palestinese sventolerà al Palazzo di Vetro dell’Onu, a New York. L’Assemblea Generale ha approvato una risoluzione che dà all’Anp e agli altri Paesi con lo status di osservatore non membro - il Vaticano - il diritto di issare il proprio vessillo. La risoluzione è stata approvata con 119 sì, 8 no tra cui Stati Uniti e Israele, e 45 astenuti.
Il Vaticano si è però smarcato dall’iniziativa dell’Anp, e ha detto che la sua bandiera non sventolerà prima del discorso di Papa Francesco il 25 settembre.
«È un fatto simbolico, ma rappresenta un altro passo per solidificare i pilastri dello Stato della Palestina sulla scena internazionale», ha spiegato Riyad Mansour, l’ambasciatore dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) all’Onu. «Il quadro è cupo - ha aggiunto Mansour - il processo politico è morto, Gaza è soffocata. Questa risoluzione sulla bandiera è come una piccola luce volta a tenere viva la speranza per il popolo palestinese».
Sia gli Usa che Israele hanno espresso una forte opposizione: l’ambasciatore di Israele al Palazzo di Vetro, Ron Prosor, ha bollato l’iniziativa come «un palese tentativo di dirottare le Nazioni Unite». Mentre il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Mark Toner, l’ha definita «controproducente».
E si è smarcato dall’iniziativa palestinese l’altro Paese con lo status di osservatore all’Onu, il Vaticano: l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede al Palazzo di Vetro, ha ribadito di non essere un co-sponsor dell’iniziativa «perché abbiamo certamente diverse priorità», e di non aver ancora deciso se la sua bandiera verrà issata in futuro. «La questione è aperta, non posso dire quale sarà la posizione della Santa Sede in seguito», ha detto Auza. Quel che è certo, è che la bandiera del Vaticano non sventolerà prima del discorso di Papa Francesco all’Assemblea generale, il 25 settembre. «Non abbiamo alcuna intenzione di farlo», ha chiosato il Nunzio.
L’Anp ha ottenuto nel novembre 2012 lo status di osservatore non membro all’Onu. Ora le Nazioni Unite hanno a disposizione 20 giorni per attuare la misura, in tempo per la visita del presidente palestinese Abu Mazen, in programma per il 30 settembre.
La Stampa
10 09 2015
Quando ha visto quell’elefante alla catena, Samar Khan aveva due scelte: continuare la sua visita nello zoo o fare qualcosa. Lui ha deciso di non voltarsi dall’altra parte e cambiare il destino di quel pachiderma umiliato dalla crudeltà umana.
«Ero stupito e triste di vedere quell’elefante in piedi, sempre fermo in un unico posto per tutto il tempo. Sono rimasto lì per quasi 45 minuti, ma lui non si è mai mosso, con le zampe incatenate - racconta Khan dopo aver visitato uno zoo in Pakistan -. Muoveva la testa da sinistra a destra in modo continuo e non l’ha mai fermata. La prima cosa che ho pensato e che fosse stato drogato... era uno spettacolo pietoso».
Quell’elefante si chiama Kaavan ed era stato inviato allo zoo dal Bangladesh tre decenni prima, quando era solo un cucciolo. Da allora, ha trascorso gran parte della sua vita incatenato in un recinto, sempre solo, mostrando chiari segni di problemi psicologici.
Ogni anno lo zoo attira circa un milione di visitatori, molti dei quali probabilmente passano di fronte al recinto di Kaavan, ma nessuno ha fatto qualcosa. Nessuno tranne Samar Khan. Una volta tornato nella sua casa in California, l’uomo ha lanciato una petizione su Change.org diffondendo sul web quello che aveva visto e chiedendo a tutti di contribuire a regalare una vita migliore per Kaavan. La risposta è stata travolgente: nel giro di pochi giorni, più di 30mila persone, da ogni parte del mondo, hanno firmato la petizione.
Così la voce di Khan non era più la sola a protestare, non era facile ignorarla: Capital Development Authority, l’ente governativo di Islamabad deputato alla supervisione dello zoo, ha deciso di liberare Kaavan dalle sue catene e ha ordinato ai gestori dello zoo di rispettare gli standard internazionali di tutela degli animali in cattività.
La battaglia però non è finita: Khan vuole che Kaavan venga definitivamente liberato in un santuario che gli permetta di vivere sereno. Per questo ha attivato una nuova petizione che quasi 40mila persone hanno firmato. Tutti voglio vedere Kaavan libero.
twitter@fulviocerutti
La Stampa
10 09 2015
Quando a fine mese il presidente dell’Anp, Abu Mazen, sarà a New York per partecipare all’Assemblea Generale annuale dell’Onu, troverà ad accoglierlo, fuori dal Palazzo di Vetro, la bandiera palestinese.
L’Assemblea Generale è chiamata stasera alle 21 italiane a votare sul diritto dell’Anp, che dal 2012 ha lo status di «osservatore permanente», di issare la sua bandiera e basterà la maggioranza assoluta (metà più uno) dei 193 Stati membri. Lo stesso varrà per la bandiera pontificia, in quanto la 'Santa Sede' condivide la medesima posizione della Palestina alle Nazioni Uniti ma sin dal 1964.
Contro la bandiera palestinese sono schierati Stati Uniti e Israele. Grande attenzione per come voteranno i Paesi Ue. Scontato il sì per la bandiera della Santa Sede che accoglierà a sua volta Papa Francesco quando sarà nel grattacielo sull’East River di Oscar Niemeyer, il 25 settembre, quando terrà un’attesissimo intervento.
La Stampa
04 09 2015
C’è un’altra faccia dell’Europa che affronta l’emergenza dei profughi siriani. Non è quella della polizia ceca che marchia con un numero i migranti, nè quella delle forze dell’ordine ungheresi che transennano la stazione di Budapest per impedire a chi fugge dalla Siria di raggiungere la Germania. È la faccia di oltre 15 mila cittadini che stanno chiedendo al governo islandese di fare di più per aiutare quelle persone che bussano alla nostra porta. Come? Facendo tutti insieme la propria parte, mettendo a disposizione il proprio tempo e anche la propria casa per prestare soccorso e assistenza, e superando così la quota di 50 rifugiati che spetta all’Islanda.
Il movimento si chiama Syria Calling ed è nato su Facebook per iniziativa di un gruppo di comuni cittadini e in poco tempo ha raccolto migliaia di adesioni: «Non tutti offrono le loro case» spiegano gli organizzatori «ma questo spazio può essere usato per fare pressioni sul governo e condividere idee e informazioni per fare di più». La loro forza è una semplice email per invitare il ministro del welfare Eygló Harðar a rivalutare le quote per l’accoglienza dei siriani: «Nel 1973 - si legge nella lettera rivolta a Harðar - abbiamo accolto 4 mila sfollati dall’arcipelago di Vestmannaeyjar a causa di un’eruzione vulcanica. Allora tutti hanno aiutato».
La scadenza per raccogliere i messaggi rivolti al ministro è per venerdì 4 settembre ma il messaggio, recapitato da circa il 4% della popolazione, è arrivato già forte e chiaro al governo islandese, che ha annunciato una rivalutazione delle quote per l’accoglienza dei richiedenti asilo.
Francesco Zaffarano
La Stampa
03 09 2015
Le guerre in corso nel mondo arabo obbligano 13,7 milioni di bambini a rinunciare alla scuola. Ad affermarlo è un rapporto dell’Unicef in cui si documenta come i conflitti in Siria, Iraq, Yemen, Libia e Sudan abbiano allontanato dalle aule il 40 per cento del totale dei bambini in età scolare. «Un’intera generazione viene privata della basi dell’istruzione» afferma il rapporto, documentando attacchi a studenti ed insegnanti come anche la distruzione di edifici scolastici.
Nel complesso sono almeno novemila le scuole divenute inagibili a causa dei danni subiti o della destinazione ad altri usi, come basi militari o centri di addestramento per milizie. L a situazione più grave è in Siria dove, dall’inizio della guerra civile nel marzo 2011, il 25 per cento delle scuole è stato chiuso, privando dell’istruzione 2 milioni di alunni. «L’impatto distruttivo dei conflitti in corso si abbatte sui più piccoli in tutta la regione - afferma Peter Salama, direttore regionale di Unicef in Medio Oriente e Nord Africa - non solo per i lutti e la demolizione delle scuole ma soprattutto per la disperazione di una generazione che vede infrante le speranze per il futuro». Il rapporto cita anche attacchi alle scuole palestinesi in Cisgiordania. Sul fronte dei profughi l’emergenza investe Turchia, Giordania e Libano: mancano fonti, strutture e insegnanti per fare fronte alla necessità di istruzione per chi fugge da Siria e Iraq.
Maurizio Molinari
La Stampa
28 08 2015
Fabbriche abbandonate, rifiuti pericolosi nascosti o interrati, cumuli di scorie ammassati dove capita e bonifiche che non sono mai state effettuate. E nel Torinese scatta l’allarme ambientale. L’ultima scoperta è stata fatta dalla Guardia di Finanza di Torino, a San Gillio, piccolo paese immerso nel verde che dista meno di una ventina di chilometri dal capoluogo. In una vecchia officina meccanica e di stampaggio di materiali a freddo, dichiarata fallita nel maggio 2006, i baschi verdi hanno rinvenuto e sequestrato 450 tonnellate di rifiuti speciali pericolosi. Tra questi ci sono ben 12 tonnellate di lastre di eternit. Gran parte di queste sono rimaste come copertura dello stabilimento, altre sono state accatastate su un’area di circa 5mila metri quadrati che confina con un palazzo abitato. Ma, come hanno evidenziato gli investigatori: «Nessuno si è mai lamentato di nulla».
I baschi verdi e i tecnici dell’Arpa hanno anche scoperto sei quintali di oli esausti da decontaminare, stoccati in bidoni non sigillati. Per questo gli inquirenti stanno anche cercando di capire se i veleni si siano infiltrati nel terreno e negli scarichi per il recupero delle acque piovane. I militari del «Nucleo operativo pronto impiego» hanno poi sequestrato 430 tonnellate di masserizie provenienti da lavori di demolizione dell’edificio e denunciato per deposito incontrollato di rifiuti l’amministratore unico della società immobiliare proprietaria del sito. Solo un mese fa, a Givoletto, un altro Comune della zona, la finanza aveva scoperto una «bomba ecologica»: acido cloridrico, acido solforico, cloruro ferrico, acque di galvanica, solfati, oli esausti e vernici poliuretaniche. Veleni abbandonati nella zona industriale, nel cortile di una ditta fallita lo scorso anno.
Al termine delle attività di rilevazione gli investigatori hanno recuperato rifiuti chimici pericolosi e corrosivi per circa 170 tonnellate oltre a 90 tonnellate di rifiuti speciali accumulati in maniera disordinata in un’area di circa 6 mila metri quadrati. I finanzieri hanno identificato e denunciato cinque italiani per deposito incontrollato di rifiuti e inquinamento ambientale. All’origine di questi scempi all’ambiente ci sarebbero i costi di smaltimento dei rifiuti, considerati troppo esosi da qualche imprenditore.
Gianni Giacomino
La Stampa
27 08 2015
Addio all’icona della lotta dei diritti degli afroamericani. E simbolo della marcia di Selma. È morta all’eta di 104 anni Amelia Boynton Robinson, l’attivista che sulla sedia a rotelle e mano nella mano con il presidente Barack Obama ha attraversato il ponte del «Bloody Sunday», quello di Edmund Pettus, in occasione dei 50 anni della marcia di Selma.
È stata una leader coraggiosa e dedicata alla battaglia per i diritti civili. Per la maggior parte dei suoi 104 anni, Amelia si è impegnata in un principio semplice: tutti meritano il diritto di voto”, afferma il presidente americano, Barack Obama, sottolineando che «50 anni fa, Amelia ha marciato a Selma e il calmo eroismo di coloro che hanno marciato ha aiutato ad aprire la strada al Voting Rights Act», con il quale veniva concesso il voto agli afroamericani. «Ma ha continuato a marciare per il resto della sua vita, per assicurarsi che la legge fosse rispettata e le barriere buttate giù. L’America è fortunata. Onorare un eroe americano come Amelia richiede seguire il suo esempio».
Robinson ha trascorso interamente la sua vita a battersi per i diritti degli afroamericani: «Era una persona amorevole e che incoraggiava gli altri, ma i diritti civili erano la sua vita’’ afferma il figlio, Bruce Boynton, annunciando la scomparsa della madre, avvenuta in ospedale dove era ricoverata da luglio. Prima donna afroamericana a candidarsi per il Congresso in Alabama, Robinson aveva invitato nel 1965 Martin Luther King a unirsi alla marcia per reclamare il diritto di voto per i neri.
Una marcia che poi è entrata nella storia americana come «Bloody Sunday»: Robinson era con altri 600 manifestanti sul ponte Edmund Pettus quando, insieme agli altri, è stata attaccata e picchiata dalla polizia. Una foto che la ritrae incosciente sul ponte quel giorno ha fatto il giro d’America, aumentando la consapevolezza e la forza del movimento per i diritti civili. La sua battaglia per il voto agli afroamericani è culminata con la partecipazione, come ospite d’onore, alla firma del “Voting Act Rights” da parte del presidente Lyndon B. Johnson.
La Stampa
27 08 2015
Nel giorno dell’uccisione di due reporter in diretta tv, in Virginia, paura anche nella cittadina di Sunset, in Louisiana, dove un uomo ha seminato il panico accoltellando due donne e dando vita a una sparatoria con la polizia prima di barricarsi nel minimarket di una stazione di servizio. Alla fine l’arresto, grazie anche all’uso dei gas lacrimogeni. Ma il bilancio finale è pesante: due morti, tra cui un poliziotto, e due feriti.
I testimoni raccontano una scena da film, con il sospetto vestito da Rambo che per sfuggire agli agenti ha sfondato la vetrina del negozio con la sua auto. All’inizio si era parlato di otto ostaggi, ma le autorità hanno poi spiegato come all’interno dell’esercizio commerciale c’erano in tutto tre persone, tra cui il proprietario e un cliente.
Tutto è cominciato in un appartamento poco distante, dove il killer - per motivi ancora sconosciuti - ha fatto irruzione aggredendo con un coltello due donne, sorelle del sindaco di una cittadina vicina. Una delle due è morta, l’altra versa in gravi condizioni. L’uomo ha poi ingaggiato una sparatoria con gli agenti intervenuti: uno di questi è rimasto ucciso. Quindi la fuga finita nel minimarket. La seconda persona ferita sarebbe una donna che era col killer.
Intanto il presidente Barack Obama in un’intervista ha commentato la scioccante uccisione in diretta tv dei due reporter in Virginia, sottolineando come in America l’impressionante diffusione delle armi da fuoco, grazie alla facilità con cui possono essere acquistate da chiunque, fa più vittime del terrorismo. Da tempo la Casa Bianca pressa il Congresso perché vari una stretta sulla vendita delle armi, in particolare rendendo obbligatori i cosiddetti “background check”: i controlli su chi acquista un’arma, per verificare se abbia precedenti penali o soffra di disturbi mentali. L’ultimo appello poche ore fa da parte del portavoce del presidente.
La Stampa
07 08 2015
Cosa farei se vedessi un uomo sul cornicione di un ponte con i piedi pronti al grande balzo? Jamie Harrington, dublinese di sedici anni, è salito sul ponte, si è seduto accanto all’aspirante suicida e gli ha gettato al collo solamente due parole: «Stai bene?». Per tutta risposta l’uomo si è messo a piangere. In tre quarti d’ora di monologo ha concentrato le miserie di una vita.
La sensazione di essere invisibile, inutile, inadeguato. Jamie gli ha lasciato finire il racconto e poi ha detto: «Stanotte non riuscirei a dormire se ti sapessi in giro da solo per la città. Chiamerò un’ambulanza perché ti porti in ospedale». L’uomo alla deriva si è lasciato trarre in salvo: più per non deludere il nuovo amico che per altro. Si sono scambiati i numeri di telefono. A tre mesi da quella notte lo smartphone di Jamie ha suonato e lui ha subito riconosciuto la voce: «Stai bene? Sono state quelle due parole a salvarmi».
«Com’è possibile che ti siano bastate due parole?», gli ha chiesto Jamie. «Immagina se per tutta la vita non te le avesse rivolte mai nessuno».
Stai bene. Nel comunicare col prossimo, persino con le persone amate, si preferisce usarne altre più intrusive. «Come è andata?», «Con chi sei stato?». E quando si chiede a qualcuno come sta è solo per recitare una formula di cortesia che spesso non prevede di prestare attenzione alla risposta. Eppure, se pronunciate a cuore aperto, quelle due parole pare facciano miracoli. L’uomo che voleva togliersi la vita ne ha appena creata una nuova, con la collaborazione decisiva di sua moglie. Dice che aspettano un maschio e che lo chiameranno Jamie.
Massimo Gramellini