La Stampa
11 06 2015
Dopo le polemiche, le dimissioni. Il premio Nobel britannico Tim Hunt ha lasciato il suo incarico di professore ad honorem alla University College London (Ucl) dopo aver detto che le donne nei laboratori costituiscono un «problema».
A dare le notizie delle dimissioni è stata la Bbc. Il Nobel 2001 per la medicina aveva lasciato di stucco il pubblico ad una conferenza di medicina mondiale, sottolineando che è meglio non aver donne nei laboratori perché «ci innamoriamo di loro, si innamorano di noi e quando le criticate, si mettono a piangere». Il polverone non si è placato nemmeno dopo le sue scuse.
Questa mattina è arrivato il comunicato dell’Università. «L’Ucl conferma che Sir Tim Hunt si è dimesso dal suo ruolo di professore onorario alla Facoltà di Scienze a seguito dei commenti che ha fatto alla conferenza mondiale dei giornalisti scientifici il 9 giugno. La nostra università è stata la prima ad ammettere studentesse donne dando a loro pari dignità che agli studenti maschi. E la nostra istituzione crede che questo esito (le dimissioni, ndr) siano compatibili con la politica di eguaglianza di genere che stiamo portando avanti».
Tim Hunt, 72 anni è stato premiato con il Nobel nel 2001 per i suoi studi sulla divisione cellulare. Il polverone non si è placato nemmeno dopo le sue scuse: «Sono veramente dispiaciuto per quello che ho detto», ha riferito ai microfoni della Bbc Radio 4, aggiungendo che «è stata una cosa veramente stupida fare parlare in quel modo in una conferenza dove erano presenti tanti giornalisti».
La Stampa
04 06 2015
L’Ottocento piomba in redazione con una notizia che sembra uscita da un romanzo di Dickens. I carabinieri di Petilia Policastro, provincia di Crotone, hanno denunciato venti genitori i cui figli non frequentano da mesi la scuola dell’obbligo. Altro che Europa a due velocità. In Italia le velocità, e le lentezze, risultano molte di più. I bambini calabresi che non perdono tempo con l’alfabeto sono figli di poveri agricoltori oppure di ricchi mafiosi. I primi sostituiscono i libri di scuola con il lavoro nei campi, i secondi bivaccano nei bar di paese per imparare l’arte dell’intimidazione e del ricatto.
Sui genitori mafiosi c’è poco da dire, anche se ci sarebbe molto da fare, per uno Stato degno di questo nome. Non me la sento invece di gettare la croce addosso ai genitori contadini, convinti in buona fede che lo sviluppo delle facoltà mentali dei figli non offra loro la minima possibilità di riuscita nella vita. Cos’altro potrebbero mai pensare, se le strade del Sud sono solcate da torme di giovani intellettuali disoccupati e frustrati, che nel migliore dei casi emigrano e nel peggiore intristiscono? Qualsiasi nobile discorso sul ruolo sociale della scuola, e sull’istruzione come strumento per trasformare un suddito in cittadino, collassa di fronte alla prosa della realtà quotidiana, rappresentata da una dura lotta contro l’appetito. Alla fine le due anomalie, dei contadini e dei mafiosi, si tengono insieme in un abbraccio mortale. Uno Stato che tollera al suo interno uno Stato parallelo non può dare altro lavoro che la miseria e altra istruzione che la distruzione.
Massimo Gramellini
La Stampa
29 05 2015
Una madre cattura con il cellulare l’abbraccio tra sua figlia Maliyah (a sinistra) e un’altra piccola ospite dell’ospedale oncologico di Pittsburgh, in Pennsylvania. Poi lo posta su Facebook. La foto fa il giro del mondo, toccando corde arrugginite ma ancora vibranti in molti cuori non completamente sfibrati dal cinismo.
Oggi il Buongiorno è questa immagine. Non c’è niente da aggiungere. Solo da condividere. Da quell’abbraccio affiora ciò che rende una vita degna di essere vissuta. Chiamatelo senso, chiamatelo amore, chiamatelo Dio. Al suo cospetto, ogni preoccupazione o aspirazione quotidiana assomiglia al paesaggio che le bambine osservano dalla finestra dell’ospedale: qualcosa di deperibile e secondario, in fondo inessenziale. Quell’abbraccio contiene già tutto. Il resto, a cominciare da queste, sono soltanto parole.
Massimo Gramellini
La Stampa
21 05 2015
La disavventura aeroportuale di colui che fu Formigoni sta deliziando senza tregua i sadici frequentatori della Rete.
Nel video, ripreso a Fiumicino da un solerte passeggero, il senatore di Aviazione e Liberazione attinge alla sua esperienza di attaccabrighe televisivo per esprimere al funzionario Alitalia tutto il suo disappunto per il fatto che l’ultimo aereo per Milano abbia avuto l’ardire di non aspettarlo.
Il commovente episodio rivela l’antichità del protagonista. Formigoni non si rende conto che, nell’era dei telefonini, nulla di pubblico può restare impunito, e infatti i giovani scafati alla Renzi parlano ormai tutti con la mano sulla bocca come i calciatori.
Non si rende nemmeno conto di essersi sempre spacciato per cattolico presso i suoi incomprensibili elettori e inanella insulti da fare impallidire un cine-panettone. Poi non si rende conto che, nonostante da qualche tempo abbia attenuato le smargiassate in tv e le tonalità delle camicie, rimane uno dei simboli più detestati della Casta, per cui termina lo sproloquio con una sfumatura di arroganza: del genere «lei non sa chi ero io».
Ecco, soprattutto non si rende conto che ormai non è più nessuno. Lo dimostra la reazione dell’Alitalia (da lui definita, con linguaggio da Crociato, compagnia «italo-araba») che con malcelato fastidio ha emesso un breve comunicato per sbugiardare Formighini come fosse un insetto molesto ma in fondo innocuo.
Se fosse stato ancora Formigoni, gli avrebbero regalato un aereo o almeno una divisa da steward.
La Stampa
19 04 2015
«Siete lenti, la gente vuole prendere il treno in fretta, fatevi da parte». Questo si sono sentiti dire un gruppo di sette ragazzi portatori di sindrome di Down mentre erano in fila alla biglietteria della stazione di Conegliano, in Veneto. I giovani, di età compresa tra i 24 e 31 anni, sono stati costretti a prendere il regionale successivo, quasi due ore dopo. Giunti a Mestre, lo spiacevole bis. «Non posso farvi il biglietto per Venezia, perderei solo tempo», avrebbe detto un operatore di Trenitalia. Lo stesso dipendente, invece di stampare i biglietti ai ragazzi, si è poi rivolto all’accompagnatrice: «Lasci perdere, mi ascolti. Ho più esperienza di lei: questi ragazzi non sono in grado di imparare. Se fate voi il biglietto per loro fate un favore alla comunità».
Un sabato di ordinaria discriminazione. Che la Onlus- la sezione marchigiana dell’Associazione Italiana Persone Down - ha deciso di denunciare pubblicamente diffondendo anche le foto dei giovani coinvolti. «I ragazzi dovevano comprare i biglietti da soli perché questa azione faceva parte del percorso di autonomia che stanno seguendo: avrebbero fatto un weekend a Venezia coi nostri operatori e volontari», racconta la coordinatrice Eliana Pin. Che si dice amareggiata e indignata: «Sono troppe le persone che si prendono il diritto di giudicare il nostro lavoro, senza conoscerlo e senza sapere che per praticarlo ci vogliono dei titoli di studio, degli aggiornamenti e dei corsi continui, oltre che esperienza». Oltre il danno, la beffa: per legge i ragazzi disabili dovrebbero saltare la fila. «Ma loro si sono messi in coda - conclude Eliana - chiedevano solo di essere trattati come tutti gli altri passeggeri».
«Sono Down, mica scemo», dice Michele, 25 anni, uno dei novanta ragazzi seguiti dalla Onlus. Stando alla denuncia dell’Associazione, però, qualcuno ha preferito discriminare la comitiva. Trenitalia si dice pronta a condannare quanto accaduto. «Se gli approfondimenti confermeranno tali atteggiamenti irrispettosi e offensivi non mancheremo di sanzionarli, come previsto dalle proprie norme interne», si legge in una nota inviata dalla compagnia.
La Stampa
15 05 2015
«L’orrore, l’orrore» diceva, prima di morire, Kurtz il misterioso personaggio creato da Joseph Conrad in “Cuore di tenebra” nel vedere l’orrore di sé stesso nella propria civiltà. E cosa avrebbe detto allora di un gruppetto di studenti della Harding Charter Preparatory High School in Oklahoma, una della scuole più prestigiose degli Stati Uniti?
Ebbene in questo istituto è accaduto un fatto che ha scosso l’opinione pubblica ed è stato riportato da diversi giornali, “Daily Mail” in primis. Otto studenti si sono filmati mentre, dietro ai banchi del loro laboratorio di anatomia, facevano danzare i corpi morti di altrettanti gatti, diretti da un nono studente davanti a loro. Il video è poi finito sulla pagina Facebook di uno degli studenti e da lì, in un attimo, ha fatto il giro del mondo.
A rendere il tutto ancora più raccapricciante è la musichetta sulle cui note vengono fatti ballare i cadaveri, in realtà destinati alla dissezione per il corso di anatomia. Si tratta di “Meow mix”, jingle di una nota pubblicità di alimenti per animali. Gli studenti sorridono, si divertono, la musica sciocca e ripetitiva crea un’atmosfera a dir poco macabra, con i corpi dei gatti che, sincronizzati, si toccano “danzando” da destra a sinistra. Alla fine del filmato lo studente ’regista’ alza un cartello con la scritta “Piccolo and the Pussycats” (Piccolo e le Pussycats).
Leslie Piccolo è il nome di un insegnante di scienze della scuola ma non è chiaro se fosse presente al momento in cui è stato registrato il video e non ha ancora rilasciato dichiarazioni in merito.
Sulla scia del filmato la Peta (People for Ethical Treatment of Animals) ha chiesto che venga bandita la dissezione di animali nelle scuole e ha aggiunto, parlando con i giornalisti del “Daily Mail”, di aver inoltrato numerose lettere all’amministrazione dell’istituto senza però aver ricevuto risposta. Nonostante il no comment della scuola la Peta ha proseguito nell’accusa, sostenendo che il video violi le linee guida dell’educazione scientifica che prescrivono di trattare gli animali eticamente e con rispetto. Non solo, l’associazione animalista ha anche aggiunto che la dissezione degli animali in classe può causare disagio psicologico per tutta la vita e indurre un minore rispetto nei confronti degli animali.
Secondo i dati della Peta, negli Stati Uniti oltre dieci milioni di animali vengono uccisi ogni anno per la dissezione e il gruppo si sta battendo perché, almeno nelle scuole, vengano usati metodi alternativi come i programmi informatici. «I programmi interattivi di dissezione – ha spiegato Justin Goodman, responsbile Peta per le indagini di laboratorio – hanno dimostrato che è possibile insegnare materie come biologia e anatomia risparmiando tempo, denaro e vite animali. Inoltre possono essere più efficaci perché consentono agli studenti di ripetere la dissezione più volte».
Claudia Audi Grivetta
La Stampa
08 05 2015
In Italia abbiamo una legge sull’inclusione scolastica che attribuisce a qualunque ragazzo, con qualsiasi disabilità, uguale diritto a frequentare la stessa scuola dei suoi coetanei. Una legge straordinaria che ci riempie d’orgoglio rispetto altri paesi d’Europa, dove ancora persiste l’idea che per i disabili debbano esserci scuole a parte. Proprio perché la scuola è nelle cronache di questi giorni e molti insegnanti sono in subbuglio per il riconoscimento di loro diritti, forse è il caso di raccontare la storia di Chiara, una ragazza con sindrome di Down che frequenta un liceo di Roma.
Nessun processo, ma solo una riflessione su quanto, in casi come il suo, la scuola sia il luogo in cui una famiglia si gioca concretamente l’equilibrio tra serenità e disperazione. Nella voce della mamma di Chiara ancora si avverte l’umiliazione che ha dovuto sopportare durante l’ ultimo incontro del GLH (gruppo di lavoro handicap). Doveva essere un incontro in cui si sarebbero dovuti far i bilanci dell’attività inclusiva e gettare le basi per il lavoro futuro, come da regolamento e come la legge, vale la pena di ripeterlo-tra le più illuminate del mondo-prescrive.
Questo era già un periodo difficile per la sua ragazza, cui è legata da un rapporto quasi simbiotico ma che si è complicato, dopo che da quasi un anno sta combattendo con una grave malattia.
Per Chiara l’anno scolastico è iniziato con vari problemi, purtroppo fanno parte anche questi della prassi: la classe è stata dimezzata, la maggior parte dei suoi compagni non c’è più, l’insegnante di sostegno con cui aveva consolidato un rapporto trasferita in altra sede. Poi l’arrivo di nuovi sostegni e assistenti, come al solito senza nessuna particolare competenza a trattare la sua disabilità. Chiara, a detta della madre, inoltre soffre molto per essere stata messa a sedere in un banco da sola, accanto alla cattedra, mentre tutti i compagni sono seduti alle sue spalle: “Lei capisce di non far parte della classe. Si parla d’integrazione ma sta soffrendo come un cane, si sente emarginata e allontanata. Non è possibile che si faccia finta che lei non esista, perché capisce e ci sta male.”
Per la donna insomma quel GLH (se ne fanno due all’anno) era atteso come l’occasione per confrontarsi con i suoi problemi di fronte all’intero staff di persone che, con varie competenze, hanno in carico la figlia. E’ stata invece una doccia fredda. Non riesce a ricordarlo senza che le venga da piangere: “L’insegnante di storia e filosofia, che parlava a nome della scuola, ha iniziato dicendo che quest’anno le sono state tolte ore della sua materia, quindi lei aveva solo tre ore per insegnare. Si è lamentata che la classe non rende molto, perché mia figlia disturba e per colpa sua gli altri ragazzi rendono poco.”
Quello che più ha ferito la madre è che tutti i presenti sono restati in silenzio, quasi quella fosse una convinzione generale. Solo la psicologa ha provato a obiettare, ma la prof quasi stizzita le ha dato sulla voce, dicendo che tutti sono bravi a parlare in teoria, ci provino loro ad avere una persona in classe che disturba. Lei deve finire il suo programma e l’anno prossimo gli altri studenti hanno la maturità…
La madre ammutolita ha iniziato a inorridire quando, per dimostrare apertura, la professoressa ha spiegato come lei, in fondo, si fosse anche prestata ai bisogni della disturbatrice. “Chiara, ha sue particolari insicurezze - prosegue nel suo racconto - ha un problema a percorrere il corridoio che la porta in classe, quindi ha necessità di essere tenuta per mano. La professoressa ha detto che lei mai avrebbe permesso a Chiara di toccarla, ma siccome negli ultimi tempi aveva saputo del mio stato di salute ha aggiunto, sempre con me presente, che le aveva concesso di prenderla sotto braccio, proprio perché aveva un problema a casa.”
La storia di Chiara è difficilmente raccontabile come un caso eccezionale, quelli che le tv rincorrono perché esprimono episodi limite di cui va ghiotto chi si nutre delle tragedie altrui. Nessun atto di violenza fisica, bieco bullismo, molestia da parte di compagni sadici. Solo il resoconto della banalissima sofferenza di sentirsi umiliati, una sensazione ricorrente in quei genitori che di disabili che incappano nel disprezzo, a malapena trattenuto, di persone che per dovere istituzionale dovrebbero prendersi in carico i loro figli “imperfetti”. In ogni possibile occasione invece fanno capire che, se fosse per loro, “quella roba” non avrebbe la dignità sufficiente per sedere sui banchi della classe. Una storia tragicamente banale, ma fatalmente ricorrente quando un insegnante dimostra, se non con parole esplicite con atteggiamenti eloquenti, che occuparsi di nostro figlio non faccia parte delle proprie mansioni.
”E’ Naturale che Chiara spesso si agiti, ogni tanto digrigni i denti, spesso si annoi e chieda di uscire dalla classe, ma come si può pensare che stia attenta per quasi un’ora a discorsi che non capisce e sentendosi totalmente ignorata, come se fosse un estranea…”. È evidente che Chiara possa sopravvivere anche senza aver mai sentito parlare della Critica della Ragion Pura. Il problema non è che il suo passo sia diverso rispetto ai suoi compagni multitask e vispissimi, la presa in giro è che la scuola, sulla carta obbligata ad accoglierla, e poi non abbia “risorse umane” capaci di gestire la sua diversità, che dovrebbe essere trasformata in una grande occasione per la sua classe, piuttosto che una barriera all’ apprendimento.
Non accadrebbero episodi simili se l’inclusione non fosse solo un buon proposito, se gli insegnanti di sostegno avessero seriamente studiato per aiutarla a vivere al meglio anche i propri limiti. Se ogni insegnante curriculare si ricordasse che fa parte essenziale del suo lavoro anche l’onere di occuparsi degli studenti con maggiore disagio. Un disabile non può essere considerato la patata bollente che ci si rimpalla di mano in mano, altrimenti l’esperienza scolastica per ragazzi come Chiara resterà sempre, ad onta delle buone leggi, un’area di parcheggio in cui fermarsi più tempo possibile, nell’ attesa di essere messo alla porta perché adulto e quindi destinato a passare a lunghe giornate da solo o, se va bene, in qualche centro di raccolta differenziata per umani non convenzionalmente programmati nell’ uso del cervello.
Gianluca Nicoletti
La Stampa
06 05 2015
Condanna a morte per quattro degli uomini che hanno partecipato al brutale assassinio di Farkhunda, la 27enne afgana massacrata il 19 marzo scorso da una folla inferocita con la falsa accusa di aver profanato il Corano. Lo ha deciso un giudice afgano, riferisce l’agenzia Pajhwok.
Il tribunale di primo grado di Kabul ha stabilito che i quattro (Zain-ul-Abedin, Mohammad Yaqoob, Mohammad Sharif e Abdul Bashir) sono stati i principali istigatori della folla che ha linciato Farkhunda vicino alla moschea Shah Do Shamshera, e che per questo meritavano la pena capitale.
Alla sbarra, in totale, sono finite 49 persone, tra cui 19 poliziotti. Oltre alle quattro pene capitali il giudice ha deciso anche condanne a 16 anni di reclusione per altri 8 imputati.
La donna fu attaccata da una folla inferocita, bastonata a morte e poi finita da un’auto che le passò più volte sul corpo, dopo che alcuni sconosciuti l’avevano accusata di blasfemia per aver dato alle fiamme un libro sacro all’Islam. Il suo cadavere fu quindi trasportato sulla riva del fiume Kabul e incendiato.
Ma una inchiesta ha appurato che l’accusa era totalmente falsa e che la giovane, prima di essere attaccata, stava rimproverando alcune persone, fra cui un mullah, di loschi affari nella vendita di amuleti nella moschea.
Al termine della seduta il giudice Safiullah Mujaddedi ha ricordato che gli imputati hanno diritto di fare ricorso contro la sentenza alla Corte d’appello.