LA STAMPA

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14 9 2010


La reding annuncia dure misure nei confronti di Parigi in seguito all'espulsione dei Rom
BRUXELLES?Il comportamento dei ministri francesi verso la Commissione europea è «una disgrazia» per l’Unione Europea. Lo ha detto la commissaria europea alla Giustizia, Viviane Reding, commentando la decisione di aprire la procedura di infrazione contro la Francia per la questione delle espulsioni dei Rom. La commissaria  ha inoltre assicurato che i tempi della procedura saranno molto rapidi: «Raccomanderò al presidente Barroso di procedere d’urgenza, così non perderemo tempo. Aspetto di poter procedere nelle prossime due settimane».??Le misure contro la Francia sono conseguenza della violazione del diritto europeo, per applicazione discriminatoria della direttiva europea sulla libera circolazione e dalla mancanza delle garanzie personali per le persone espulse.?«La mia pazienza sta finendo -ha concluso visibilmente furiosa la Reding- quando troppo è troppo, nessun paese piccolo o grande che sia può avere un trattamento speciale quando sono in gioco i diritti fondamentali».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201009articoli/58542girata.asp

IL PAPA "PENITENZA CONTRO I PEDOFILI"

  • Nov 30, -0001
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8 9 10


Benedetto XVI: "La Chiesa
non si rinnova con le strutture
ma con la conversione"
CITTÀ DEL VATICANO
Il rinnovamento della Chiesa, di fronte agli abusi del clero non si ottiene tanto «con cambiamenti delle strutture», quanto «con sincero spirito di penitenza e cammino operoso di conversione».
Lo ha affermato Benedetto XVI all’ udienza generale citando scritti di santa Ildegarda di Bingen, e sottolineando che questo è «un messaggio da non dimenticare». Il Pontefice ha poi inviato un messaggio ai fedeli del Regno Unito in vista del viaggio compirà la prossima settimana, dal 16 al 19 settembre. «Non vedo l’ora - ha detto Benedetto XVI parlando in inglese al momento dei saluti in lingua che concludono l’udienza generale del mercoledì - di incontrare i rappresentanti di molte diverse tradizioni religiose e culturali che compongono la popolazione britannica, così come i leader civili e politici. Sono molto grato a Sua maestà la Regina e a Sua grazia l’arcivescovo di Canterbury per ricevermi, e non vedo l’ora di incontrarlo».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201009articoli/58354girata.asp

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30 07 2010

DAMIANO CROGNALI

Tra le proteste di circa duemila manifestanti è entrata ieri in vigore nello stato dell’Arizona la SB1070, soprannominata la Legge anti-immigrazione. Lo sceriffo di Phoenix Joe Arpaio, tanto criticato dai contestatori della legge, quanto amato dalla sua città che lo rielegge ad ogni mandato e in carica ormai da oltre dieci anni, ha rivendicato la SB1070 come uno strumento ulteriore ed importante per la lotta all'immigrazione clandestina nella conferenza stampa indetta ieri, 29 luglio, primo giorno della legge. La Sb1070 ha perso tuttavia gran parte della sua potenziale criticità quando meno di 48 ore fa, il giudice della Corte Federale dell’Arizona Susan Bolton ne ha bloccato la parte che permetteva alla polizia di controllare qualsiasi persona sospettata di essere clandestina e arrestarla se fermata senza il permesso di soggiorno o in cerca di lavoro. 

La Corte ha addotto come motivazione il fatto che la politica estera è materia esclusiva del Governo Federale e non dei singoli stati. Ma l'Arizona, stato a maggioranza repubblicana, fortino elettorale del senatore John Mc Cain, candidato alla presidenza degli Stati Uniti contro Barack Obama, soffre più di altre zone degli Stati Uniti l'immigrazione clandestina, che spesso significa traffico di droga. Uno sterminato deserto che lo collega al Messico e che rende difficili i controlli lungo la frontiera ha fatto solo nell'ultimo mese sessanta cadaveri ritrovati. Attraverso questo deserto, tra i più duri al mondo, per chilometri e chilometri, carovane di disperati cercano di arrivare in Arizona per dare un futuro migliore ai propri figli. Chi nasce negli Stati Uniti, infatti, diventa automaticamente cittadino americano, anche se i genitori sono entrati illegalmente nel Paese. Questo vuol dire accedere a tutti i diritti di un cittadino americano, ma per gli abitanti dello Stato significa anche pagare più tasse per sostenerne le spese e la paura diffusa di aver ancor meno lavoro. Dall’altra parte, i manifestanti della giornata di ieri hanno urlato a gran voce che gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati. Ciò che spiccava immediatamente agli occhi era che la maggior parte delle persone accorse a protestare, davanti alla sede del Governatore dell’Arizona e al carcere di Phoenix, non fossero di origine messicana, bensì cittadini di madrelingua inglese che intonavano canzoni e slogan in spagnolo. 

Al bar dell’università dell’Arizona, una delle più prestigiose e antiche degli Stati Uniti, fondata nel 1885, c’era a servire il caffè una studentessa universitaria messicana che parlava poco e male lo spagnolo, madrelingua dei suoi genitori. In questo Stato è difficile riconoscere un messicano da un cittadino originario dell’Arizona. Puoi incontrare un ragazzo che ha i tratti di un immigrato ma che non si è mai mosso dagli Stati Uniti, oppure un ufficiale della polizia dai tratti yankee, che scopri nato in Russia ma ormai diventato cittadino americano e che difende a gran voce una legge contro l’immigrazione. Un sondaggio pubblicato ieri sull’Arizona Republic, il giornale più diffuso dello stato, mostrava come il 55 per cento della popolazione fosse a favore di questa riforma. Ma il giornale, dichiaratamente repubblicana, sottolineava come oltre il 60 per cento della gente appoggerebbe qualsiasi riforma pur di regolare l’immigrazione. Ciò che realmente manca, sembra essere una azione in tal senso. La maggioranza degli abitanti dello Stato ha appoggiato la scelta di una legge anti-immigrazione della governatrice repubblicana Jan Brewer, in scadenza di mandato e in corsa per la rielezione, perché ha sperato così di smuovere le acque a Washington, dove i democratici, che godono della maggioranza del voto degli ispanici si sentono invece le mani legate durante l’anno delle elezioni per il rinnovo di Congresso e Senato federale.

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21 7 2010


Il ragazzo finge di essere ebreo.
Condannato a 18 mesi di carcere
ALICE CASTAGNERI
GERUSALEMME Si erano conosciuti a Gerusalemme nel settembre del 2008. Lui, 30 anni, le aveva detto di volere una relazione seria. Lei si era fidata di quel ragazzo ebreo che forse le avevo promesso l'amore. La loro storia sarebbe potuta finire con un lieto fine e invece non è andata così. Sabbar Kashur, infatti, ha sempre mentito su tutto. Per prima cosa sulla sua identità. Non un ebreo, ma un arabo. Questa la menzogna più grande che le ha raccontato. La ragazza, però, ignara di ogni cosa ha fatto sesso con Sabbar. Ma, una volta scoperte le sue origini, ha deciso di sporgere denuncia per violenza sessuale. Conclusione: il giovane è stato condannato a 18 mesi di carcere per "stupro con inganno".
Come riporta il Guardian, Tzvi Segal, uno dei giudici che si sono occupati del caso, ha detto che il rapporto è stato "consensuale", ma ha aggiunto che, anche se non si è trattato della "classica violenza", la donna è stato stuprata. Se, infatti, avesse saputo la verità non avrebbe mai acconsentito alla relazione. Per il giudice il sesso c'è stato perchè ottenuto con le bugie: «Sapendo che aveva di fronte un arabo e non un ebreo alla ricerca di una storia d'amore, non avrebbe accettato». Il verdetto della Corte è stato severo: niente comunità, ma una pena più dura. «Siamo obbligati a proteggere i cittadini dai criminali che ingannano le loro vittime, corrompendone corpo e anima. Quando viene a mancare la fiducia tra le persone, la Corte deve schierarsi dalla parte degli innocenti. Dobbiamo salvaguardare il loro benessere ed evitare che siano manipolati ed ingannati», ha detto Segal.
Dopo il verdetto in Israele è scoppiata la polemica. Gli arabi costituiscono il il 20 per cento della popolazione, ma le relazioni sentimentali con gli ebrei sono davvero rare. C'è ancora poca integrazione e gli arabi vengono discriminati. Qualcuno insinua che se fosse successo il contrario non sarebbe andata a finire così: «Se un ragazzo ebreo avesse mentito e fatto sesso con una musulmana cosa sarebbe accaduto?». Intanto a Gerusalmme è stata fatta una proposta di legge che richiede ai cittadini israeliani di giurare fedeltà allo Stato di Israele e alla sua natura ebraica. Molti musulmani avrebbero serie difficoltà a dichiarare lealtà ad uno Stato che li esclude. La norma sta ricevendo numerose critiche. Dan Meridor, deputato del governo Netanyahu, è fortemente contrario: «La maggioranza non deve ricordare alla minoranza che è una minoranza».

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DURO TIROCINIO PER LE NEO-GIORNALISTE AFGHANE

  • Nov 30, -0001
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05 07 2010

Vivo nella provincia dell'Afghanistan occidentale dove sono nata. Ho terminato i miei studi—metà in Iran come immigrata, e metà nel mio paese colpito dalla guerra—e ho sempre covato il desiderio di diventare scrittrice e giornalista. Il mio sogno è sempre stato quello avere in mano un microfono e intervistare la gente.
Ma nella mia provincia non c'erano donne che lavoravano nel mondo dell'informazione. Le donne della mia città hanno imparato a tollerare parecchi problemi, perchè in genere manca un buon livello d'istruzione.

Dopo aver finito il liceo, ho iniziato a cercare lavoro. Ho sentito che un quotidiano stava cercando un reporter, quindi ho fatto domanda. I miei amici ridevano di me, ma gli ho risposto che sarebbe stato un successo.

Ho sostenuto un colloquio con una gentile signora, che poi mi ha richiamato per una seconda intervista, e dopo una settimana, mi ha telefonato dicendo “Vorremmo assumerti come giornalista freelance.” All'epoca non sapevo cosa volesse dire 'giornalista freelance', ma sentivo che si trattava della decisione giusta e ho accettato il posto.

Sono diventata giornalista, ma senza esperienza e attrezzatura adatta. Il primo giorno sono andata a fare un'intervista e mi sono trovata in difficoltà perchè non avevo un registratore e nemmeno una macchina fotografica per scattare una foto. Ho preso appunti su un taccuino; dovevo scrivere molto veloce per non dimenticare niente. Dopo aver terminato le interviste, tornavo a casa per organizzare gli articoli. Non avevo un computer, ma solo carta e penna, perciò all'inizio ho scritto tutti gli articoli a mano. Poi qualcuno nell'ufficio di mio padre mi ha ha fatto usare il suo computer, così andavo a trascrivere gli articoli per poi inviarli ai redattori.


Sono andata avanti così per circa 6 mesi, senza un'attrezzatura adeguata. Ma sono riuscita a superare il periodo di prova e poi ho ricevuto una mail che diceva: “Abbiamo un registratore per te.” Ero così felice. Dopo qualche giorno, mi hanno dato anche una macchina fotografica e un computer, e più avanti sono riuscita ad avere la connessione a internet a bassa velocità a casa. A quel punto ho capito che se affrontiamo al meglio i problemi della vita possiamo superarli.

Sono stata l'unica persona proveniente dall'Afghanistan a prendere parte al Programma per giornalisti Edward. R. Murrow negli Stati Uniti, insieme a 170 giornalisti di vari Paesi. Ero la partecipante più giovane. Ho raggiunto questi obiettivi perchè ho preso di petto ogni problema e ho continuato a lavorare sodo.

Ovviamente essendo una donna afghana, ho ancora problemi nel mio ambiente sociale. Dopo quattro anni, vengo criticata parecchio per il mio lavoro. Qualcuno che non capisce niente ha cercato in ogni modo di fermarmi, ma ho resistito, perchè ho capito che non sto facendo niente di male; scrivo e lavoro come giornalista per il mio Paese e il mio obiettivo è quello di sostenere le altre donne. Grazie al mio lavoro, sono riuscita a portare dei cambiamenti positivi per le donne della mia provincia; ora parecchie tra loro vogliono lavorare per qualche ONG invece di cercare lavoro solo come insegnanti in scuole femminili.

Dobbiamo andare avanti e non arrenderci mai. Questo è il mio consiglio: continuate a guardare avanti. Ad ogni passo c'è il rischio di inciampare, ma non preoccupatevi e insistete, prima o poi vi troverete nel posto giusto.


INDAGATO PER STALKING FA STRAGE DELLE EX

  • Nov 30, -0001
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1/7/2010

 
- CARROZZIERE OSSESSIONATO DALLE DONNE: NE HA UCCISE DUE NEL GIRO DI UNDICI ORE
 Follia omicida tra Torino
e Cremona, poi il suicidio:
in Lombardia aveva 7 denunce
FEDERICO GENTA, MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO
Undici ore, per regolare i conti con la vita. Con le donne che, a suo modo di vedere, lo avevano deluso e ferito. Undici ore per rubare due vite. Stessa arma, otto proiettili sparati prima nel Torinese, a Riva di Chieri, dove ieri alle 7,30 ha ammazzato l’ultima fiamma, Maria Montanaro, 36 anni, che gli aveva detto addio appena quattro giorni fa. Gli altri li ha esplosi in provincia di Cremona, a Rivolta d’Adda. Un agguato quasi in stile mafioso. All’uscita da una curva, poco lontano da uno dei parchi preistorici più famosi d’Italia. Ha affiancato con la sua auto quella di Sonia Balcone, donna amata e perseguitata per anni. Lei stava tornando dal lavoro. Lui le ha sparato. Poi si è avvicinato e le ha tirato il colpo di grazia in testa. L’ultima pallottola l’ha tenuta per sé. Gaetano De Carlo, 54 anni, si è ammazzato in un prato della campagna tra Milano e Cremona, a Corneliano Bertario. L’hanno trovato un’ora dopo due ragazzi che stavano passeggiando a cavallo tra i boschi della a zona. Accanto al cadavere l’arma, una 7,65. In tasca e sulla sua auto, una Honda Civic grigia, parcheggiata poco lontano, decine di post-it gialli, con frasi al limite tra i delirio e la richiesta di perdono.
È finita così, alle 18,20 di ieri la giornata di follia di Gaetano De Carlo, carrozziere, originario di Terzigno, nel napoletano e residente a Vailate, nel Cremonese. Era stato anche sposato, aveva avuto un figlio. Ma quel rapporto era presto affondato. «Era ossessionato dai suoi amori finiti; era un tipo violento un po’ romantico» racconta chi lo conosce.
In questa storia di sangue e passione di morte e follia, però, c’è molto di più. C’è la violenza che Gaetano avrebbe manifestato in modo ossessivo nei confronti di Sonia. Si erano lasciati almeno sette anni fa. Da allora era stato un tormento continuo. Lei, nel frattempo si era rifatta una vita, si era sposata, da cinque anni era madre. Ma lui la tormentava ancora, la minacciava. E così Sonia lo aveva denunciato: sette volte almeno. Gaetano De Carlo era stato rinviato a giudizio. Gli era stato revocato il porto d’armi. Avrebbe dovuto essere processato. «Anni da incubo, con la paura anche di uscire di casa e trovarselo davanti» dicono adesso i parenti di Sonia. E qualcuno già punta il dito: «Dovevano fermarlo prima».
Prima amato e poi respinto: era una costante nelle relazioni di quest’uomo. Se dopo Sonia e prima di Maria ci siano state altre donne nessuno, per ora, è in grado di dirlo. Se ci sono state altre donne minacciate o impaurite, anche questo per ora è ancora un mistero. Di certo lui si era creato una nuova vita con un’altra donna a Torino. È durata un anno. Gaetano veniva spesso in Piemonte dove viveva sua madre e ancora risiedono alcuni familiari. Aveva conosciuto la ragazza di Riva di Chieri, tramite una parente. Che bella che era Maria Montanaro: artista per passione, grafico per professione. Su Facebook le foto di lei raccontano di un’esistenza intensa. Sul web, però, aveva pochi amici: appena undici. In bacheca non c’è una parola su Gaetano. Di lui parlava solo con le persone fidate.
L’aveva fatto poche ore prima di morire con Cinzia Aiemme. Erano andate in gelateria e poi si erano confidate. Cinzia adesso è sconvolta: «Mary aveva paura che lui l’ammazzasse. Si erano lasciati per il carattere aggressivo di lui. Era geloso, troppo, la controllava di continuo, non voleva che parlasse con nessuno». Sabato lei gli aveva detto addio. Lui l’aveva presa malissimo. Le telefonava, le mandava sms in continuazione. Era il suo modo di tentare di fare pace. Prima di perdere la testa. L’ultimo sms, hanno accertato a Torino i carabinieri del colonnello De Vita, è arrivato nella notte. Niente di minaccioso, quasi una preghiera: «Torniamo insieme, riproviamoci ancora una volta». Niente da fare.
All’alba lui è salito in auto ed è andato a Riva di Chieri. Ha atteso lì davanti a quel gruppo di villette a schiera con un fazzoletto di giardino, tanti appartamenti e un solo monolocale, quello di Maria. Lui ha aspettato che lei aprisse la porta, per far uscire il suo cane e la gatta, ed è entrato. L’hanno sentita gridare. Poi hanno sentito tre spari e un’auto che sgommava. Mentre la portavano in ospedale lei ha avuto ancora la forza di sussurrare: «È stato Gaetano». Poi s’è spenta. Lui già guidava come un pazzo verso Cremona. A saldare i conti con il resto del mondo. Gli hanno trovato in tasca un post-it: «Non potevo farne a meno».

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IL GIALLO DELLA RAGAZZA DEL CARABINIERE

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29 6 2010


Scomparsa dopo aver troncato
la relazione clandestina
L'ultimo sms alla madre:
"Dormo fuori"
MARCO NEIROTTI
INVIATO A OLEGGIO (Novara)
E’ un giallo al rallentatore, tenuto al guinzaglio, questo che da ventitré giorni muove squadre nei boschi del parco del Ticino. Rallentato e al guinzaglio perché c’è chi conosce molto della scomparsa di Simona Melchionda, 26 anni, di Oleggio, impiegata in uno studio commercialista ad Arona, un amore tormentato appena vissuto, uscita di casa domenica 6 giugno dopo che dalla sua stanza veniva la voce alterata da una lite al telefono. Ultimo segno di vita un sms: «Dormo fuori», chissà se scritto da lei. Qualcuno sa e tace, però qualcuno continua a indicare - per sentito dire o per intervento di sensitivi - dove fare la prossima battuta senza esito. Come in tutti i casi del genere si raccolgono voci e testimonianze di chi conosce la persona, si prende atto che può essere un allontanamento volontario protetto dall’età adulta e dalla privacy, si cerca con i cani e si aspetta, mentre da un bar all’altro volano ipotesi credibili e supposizioni fantastiche ingigantite dal passaparola. Ma qui c’è una galleria di inquietudini, deposizioni in contrasto con la fuga, troppi segnalatori di un possibile cadavere. E a «Chi l’ha visto?» (tornata sull’argomento ieri sera) la famiglia ha diffuso sensazioni cupe, accennato alla sua vita, tanto che persone citate si sono affrettate a chiarire il loro ruolo nella sua vita.
Simona Melchionda, capelli biondi e occhi castani, alta un metro e cinquantasei, piercing sul labbro superiore, tatuaggio cinese sulla caviglia, «orme» di gatto sulla pancia, una stellina tra pollice e indice della mano sinistra, è persona gioviale, con amiche e amici del sabato sera. Vive con genitori e fratello a Oleggio, 13 mila abitanti, cittadina d’agricoltura e allevamento a metà strada tra Novara e il Lago Maggiore. Lavora ad Arona, in uno studio commercialista dove la descrivono ineccepibile, «va a lavorare con la febbre», per un piccolo ritardo avverte. Nella sua allegria era spuntato un affetto intenso, un uomo di 28 anni, carabiniere. A novembre avevano festeggiato il loro rapporto con un viaggio in Giamaica. Poi, secondo ricostruzioni sommarie, al ritorno lui aveva ritrovato l’ex fidanzata, scoprendo che sarebbe diventato padre. Iniziavano i giorni delle responsabilità e delle scelte, delle sofferenze e della chiarezza sul futuro. Sabato 6 giugno Simona partecipa con amiche a una festa reggae: «Alle 5 di mattina mi ha riaccompagnata a casa», dice una delle più care. La domenica è tranquilla. Ma la madre, Giovanna Cerra, nel pomeriggio la sente parlare al telefono, è tesa, le sente ripetere: «Lo sa che non deve chiamarmi» e poi - conferma il padre, Leonardo Melchionda - rumori secchi come calci e pugni, scatto d’ira sfogato contro qualcosa. «Tutto bene?», chiedono. «Tutto bene», tranquillizza.
Esce alle 23,30. Non usa la sua Nissan Micra, chiede in prestito alla madre la Punto Rossa. La donna assocerà telefonata e auto all’ex fidanzato: «A lui poteva riferirsi dicendo: non deve più chiamare. La Punto la usava quando usciva con lui per non essere riconosciuta». Si ferma qui, non fa illazioni. Lui rilascia una deposizione: «Io non l’ho chiamata». E la sua attuale donna aggiunge: «Gettano fango su di noi», passa a un contrattacco determinato: «Forse fa comodo dire che girava con un carabiniere. Andate a vedere chi frequentava ultimamente: la realtà è diversa».
L’ultima traccia è un sms partito domenica sera dal suo cellulare: «Dormo fuori». La madre lo vedrà la mattina dopo. In ufficio non arriva. Scatta l’allarme, l’indagine dei carabinieri del capitano Mele, comando provinciale di Novara. Martedì mattina la Punto viene ritrovata, in ordine, porte serrate, nel parcheggio di un centro commerciale a Pombia, cinque o sei chilometri di strada. Poi il telefono sarà spento sempre, il bancomat inutilizzato. Cominciano le battute di ricerca, l’interessamento di «Chi l’ha visto?». Qualcuno dice d’averla notata con amici il lunedì stesso davanti a una banca, vicino a una gelateria la sera: «Abbiamo salutato, ha risposto. Era allegra».
E infine, mentre si parla di killer o di messe nere nel Parco («la mattina ci sono i resti dei fuochi») il girotondo di segnalazioni non è più di chi l’ha avvistata, ma di chi indirizza uomini e cani in boschi dove chi indica la via non pensa a una comitiva al picnic ma a una tomba improvvisata. Un anno e mezzo fa, era la mattina del 31 ottobre 2008 a Ghevio, piccolo paese del Novarese, massacrò a coltellate il padre Luigi e rese in fin di vita anche la madre Franca. Un raptus d’ira scoppiato dopo le pressanti richieste dei genitori di usare i suoi soldi per far fronte a debiti e spese di famiglia. Da ieri Aldo Yari Vigorelli, 26 anni, ha lasciato il carcere: la Corte d’Assise di Novara l’ha assolto perché non imputabile e rimesso in libertà perché «non socialmente pericoloso». Lo ha fatto sulla base di due diverse consulenze, una del perito nominato d’ufficio e l’altra fornita dalla difesa dell’imputato, che hanno dichiarato il giovane incapace di intendere al momento del fatto. Forti dubbi su queste valutazioni erano state espresse dal pm Nicola Mezzina, che aveva chiesto 16 anni di carcere. Il difensore invece aveva chiesto il ricovero in una comunità di recupero, ma la Corte ha disposto un periodo di libertà vigilata e il divieto di dimora con la madre, sopravvissuta alla tragedia.

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29 6 2010


I cardinali: colpiscono proprio il Pontefice che vuole giustizia
GIACOMO GALEAZZI
CITTA' DEL VATICANO
Accerchiamento». L’allarme filtra dalla Segreteria di Stato e diventa parola d’ordine in Curia di fronte alla bufera-pedofilia in Belgio e soprattutto alla prospettiva da incubo che d’ora in poi negli Usa venga permesso alle vittime di abusi sessuali del clero di chiamare in causa direttamente il Vaticano. Nei Sacri Palazzi ci si interroga su chi dall’interno stia passando ai mass media e ai magistrati anti-abusi i documenti sulle violenze sessuali dei sacerdoti.
E mentre su entrambe le sponde dell’Oceano la Chiesa è sempre più nel mirino per i preti pedofili, il «repulisti» interno non si ferma, anzi «adesso è più che mai necessario arrivare fino in fondo e togliere le mele marce», assicurano nell’«inner circle» del Pontefice. Poi, «a lavoro finito, il caos delle polemiche lascerà spazio alla verità che distingue il bene dal male, il colpevole dall’innocente». Il Papa teme «la notte in cui tutte le vacche sono nere». La preoccupazione è che l’opera di pulizia nella Chiesa sia sovrastata dall’onda anomala del fango, dalla «caccia alle streghe».
Adesso la Corte Suprema americana pone alla Santa Sede la questione più delicata perché «a questo punto diventa impossibile fermare i procedimenti», ammettono alla terza loggia del Palazzo Apostolico. Lo scenario più temuto si sta realizzando, cioè la prospettiva che i sacerdoti vengano assimilati a «impiegati» del Vaticano e che quindi il «datore di lavoro» sia ogni volta chiamato in causa per chiarire se abbia coperto o no le violenze sui minori. E per risponderne, anche nei risarcimenti economici. Oltretevere allarmano più di tutto il libero accesso ai documenti curiali e la possibilità per i tribunali di sentire come testimoni i vertici della piramide pontificia. Insomma rischia di naufragare l’«exit strategy», comunicativa e legale, che finora ha sempre puntato a «differenziare» le responsabilità «in loco» delle diocesi da quelle della Santa Sede. A essere minacciata è la tesi difensiva secondo la quale «ogni vescovo è Papa in casa sua» e che dunque «la Chiesa non è una multinazionale».
Secondo il portavoce papale padre Federico Lombardi, in particolare, «il governo di Roma è un servizio all’unità della Chiesa, che offre indicazioni». Perciò, nella bufera-pedofilia, «non si possono imputare a Roma responsabilità concrete delle autorità locali». La maggioranza dei casi emersi «sono avvenuti trent’anni fa, mentre oggi la situazione è sensibilmente migliorata, in parte perché i criteri di selezione e formazione dei candidati al sacerdozio sono migliorati», precisa Lombardi. Il Papa «sta portando trasparenza» ed è «il paladino di come affrontare queste questioni, fin da quando era alla guida della Congregazione per la dottrina della fede, periodo nel quale, nel 2001, avviò una nuova legislazione».
La «tolleranza zero» di Joseph Ratzinger non si riduce a un anatema religioso. I vescovi dovranno denunciare le nefandezze del «clero infedele» ai magistrati. I preti pedofili andranno sempre portati davanti ai giudici. Nulla legittimerà l’omertà davanti alla «vergogna». L’ex Sant’Uffizio sta ultimando le linee-guida che obbligheranno tutti gli episcopati nazionali ad applicare la linea introdotta proprio da Ratzinger dopo decenni di sottovalutazioni e insabbiamenti (come per il fondatore dei Legionari, Maciel).
L’arcivescovo gesuita Ladaria sta per presentare al Papa il pacchetto di provvedimenti anti-abusi che prevede maggiore selezione nell’accesso ai seminari con test e valutazioni psicologiche, rimozione immediata dall’incarico dei preti sospettati, cancellazione della prescrizione per i reati contro i minori, denuncia automatica alla magistratura. Nel frattempo però le gerarchie ecclesiastiche si sentono accerchiate e, come dimostra la disputa tra i cardinali Schoenborn e Sodano, rispondono attribuendosi reciprocamente le responsabilità.


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28 06 2010


BRUXELLES
Nuovo capitolo nella vicenda dei casi di pedofilia nella chiesa belga. La commissione creata dalla Chiesa per esaminare i casi di abusi sessuali sui minori in Belgio, guidata da Peter Adriaenssens, si è dimessa nella sua totalità. Lo si è appreso da fonti di stampa. Peter Adriaenssens, il presidente della Commissione incaricata dalla Chiesa di esaminare il dossier sugli abusi sessuali in cui sono coinvolti alcuni sacerdoti, ha gettato la spugna per primo. Lo scrive il quotidiano De Standaard in edicola oggi, sottolineando che la decisione dello psichiatra è arrivata dopo che la procura belga ha sequestrato tutto il materiale raccolto dalla Commissione istituita dalla chiesa belga. «Siamo stati utilizzati come esca», ha attaccato Adriaenssens aggiungendo che il sequestro del materiale dimostra la diffidenza di cui hanno dato prova le autorità giudiziarie. «Hanno agito in questo modo perché pensavano che potessimo tenere nascosta la verità, mentre la nostra intenzione era di lavorare in piena trasparenza», ha commentato Adriaenssens. 

Ieri, Papa Benedetto XVI ha criticato le perquisizioni disposte dalla magistratura belga «con modalità sorprendenti e deplorevoli» nelle sedi episcopali del Paese, nell’ambito delle indagini su presunti casi di pedofilia. In un messaggio rivolto al presidente della Conferenza Episcopale belga, l’arcivescovo André-Joseph Leonard, il Pontefice ha espresso la propria «vicinanza e solidarietà a tutti i Vescovi della Chiesa in Belgio per le sorprendenti e deplorevoli modalità con cui sono state condotte le perquisizioni nella Cattedrale di Malines e nella Sede dove era riunito l`Episcopato belga in una Sessione plenaria che, tra l`altro, avrebbe dovuto trattare anche aspetti legati all`abuso di minori da parte di membri del clero». «Più volte io stesso ho ribadito che tali gravi fatti vanno trattati dall`ordinamento civile e da quello canonico, nel rispetto della reciproca specificità e autonomia», ha continuato il messaggio, pubblicato sul sito internet della Santa Sede e nel quale Benedetto XVI auspica che «la giustizia faccia il suo corso, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e delle istituzioni, nel rispetto delle vittime, nel riconoscimento senza pregiudiziali di quanti si impegnano a collaborare con essa e nel rifiuto di tutto quanto oscura i nobili compiti ad essa assegnati».

Secondo il ministro della Giustizia belga, Stefan De Clerck, se la chiesa ha il diritto di istituire una commissione (presieduta da Adriaenssens), le vicende di pedofilia sono di competenza della giustizia «che ha preso in mano il dossier». De Clerck ha ribadito che, nel corso delle perquisizioni, i vescovi sono stati trattati in modo normale e ha definito «eccessive» le dichiarazioni del cardinale Tarcisio Bertone che ha paragonato le operazioni della giustizia belga a quelle degli ex Paesi comunisti.






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22 6 2010




Nuova rogatoria dei pm:
vogliamo vedere conti e contratti
GUIDO RUTOLO
INVIATO A PERUGIA
Conti correnti, appalti, mutui, movimenti bancari. Se avessero potuto, li avrebbero già passati al setaccio, gli 007 della Procura di Perugia. Sono i «segreti» di «Propaganda Fide» che vorrebbero che affiorassero, per trovare conferme ai loro sospetti.
L’ipotesi da verificare è la seguente: milioni di euro dello Stato italiano finiti nelle casse gestite dal prefetto della Congregazione, il cardinale Crescenzio Sepe, in cambio di un affare davvero miracoloso: l’acquisto di una palazzina di tre appartamenti alle spalle di Montecitorio, in via dei Prefetti, a un prezzo stracciato. Pietro Lunardi, il ministro che autorizzò quei finanziamenti milionari, ha comprato quei tre appartamenti a tre milioni di euro - così è scritto nell’atto di compravendita, anche se poi l’ex ministro dice che li pagò quattro milioni di euro - mentre il suo valore di mercato oscilla tra i nove e gli undici milioni di euro.
E, dunque, nei fatti Lunardi avrebbe ottenuto una «stecca» di almeno cinque milioni di euro.
Torniamo alla rogatoria. I pm perugini Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi vogliono andare a colpo sicuro, sapendo cioè che cosa cercare. Nessun intento persecutorio contro il Vaticano. La rogatoria che partirà oggi per la Santa Sede, e che riguarda la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, è circoscritta, si riferisce al periodo in cui era prefetto della Congregazione il cardinale Crescenzio Sepe, indagato per corruzione aggravata dai magistrati perugini.
E riguarda in particolare i finanziamenti autorizzati dall’allora ministro per le Infrastrutture Pietro Lunardi. Stiamo parlando per esempio del decreto del 2005, quello che stanzia due milioni e mezzo di euro per i lavori di restauro e la creazione di una pinacoteca nel palazzo di «Propaganda Fide» di piazza di Spagna. Un finanziamento criticato dalla Corte dei conti. Sembra che le uniche spese effettuate per quei lavori ammontino a 180.000 euro, il costo dell’affitto dei ponteggi montati all’esterno per due mesi.
In quel decreto del 2005, che finanziava i progetti Arcus - la Spa dei ministeri delle Infrastrutture e dei Beni culturali - un altro milione di euro fu destinato ai lavori di restauro dei palazzi Lucchesi e Frascara della Pontificia università Gregoriana.
Ecco, la Procura di Perugia vuole analizzare i finanziamenti, gli appalti, i mutui, i conti correnti di Propaganda Fide. Per verificare l’ipotesi dell’esistenza della «stecca», del passaggio di «utilità», in questo caso capitali in cambio di discutibili operazioni immobiliari.
La rogatoria perugina parte il giorno in cui dal Vaticano filtra la notizia che la Segreteria di Stato ha avviato una indagine interna sui conti dello Ior. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone (che è anche presidente della commissione di viglilanza sulla banca vaticana), ha promosso un’ispezione interna allo Ior, per verificare la titolarità dei conti, con particolare attenzione a quelli riconducibili al Gentiluomo di Sua Santità, Angelo Balducci, l’ex Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici in carcere dal 10 febbraio scorso, e al resto della «cricca». Insomma, anche il Vaticano avverte il bisogno di controllare la presenza di movimentazione di capitali «anomali» nella sua banca.
E se la Procura ha già depositato al Tribunale dei ministri (di Perugia) la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro per le Infrastrutture, Pietro Lunardi, indagato per corruzione - mentre si annunciano novità nei prossimi giorni, per la posizione dell’ex ministro Claudio Scajola - , né da Lunardi né dallo stesso cardinale Sepe, al di là delle dichiarazioni di intenti, sono arrivati segnali concreti di disponibilità a essere sentiti. Nel giorno della conferenza stampa del cardinale Sepe, il suo legale si è limitato a sottolineare che i fatti contestati al cardinale «non hanno nessun rilievo penale». Lasciando assolutamente nel vago la disponibilità di andare dai pm perugini a difendersi dalle accuse.
In questa fase, la Procura non sembra interessata a convocare i due inquisiti eccellenti - l’ex prefetto della Congregazione e l’ex ministro delle Infrastrutture - impegnata invece a raccogliere altri elementi d’accusa, a verificare le ipotesi investigative.
La squadra di cinque ispettori della Banca d’Italia, intanto, sta controllando i conti correnti di tutti i protagonisti della inchiesta perugina. E’ la «cricca» sotto la lente degli 007, mentre si aspettano i risultati delle rogatorie con San Marino e il Lussemburgo (ambedue i Paesi stanno collaborando alle indagini). E gli esperti di Bankitalia stanno analizzando anche i conti di Guido Bertolaso, il capo del Dipartimento della Protezione civile indagato per concorso in corruzione, alla ricerca di movimentazioni «anomale».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201006articoli/56093girata.asp

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