L'Espresso
26 10 2015
Giovani, preparati. E “intrappolati”. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi l’ha definita così, illustrando la Legge di stabilità - copyright rivendicato dal ministro Giannini -, la condizione dei professori universitari. Impantanati in percorsi aleatori. Invischiati in un sistema che non valorizza il merito. Condannati, prima di conquistare una cattedra, a invecchiare.
L’istantanea che il Miur consegna, ricavata dalla Banca dati dei docenti di ruolo 2014, è disarmante: su 13.263 professori ordinari, i titolari di cattedra in atenei statali con meno di 40 anni sono solo sei. E il trend è impietoso: l’innalzamento dell’età media, in Italia, prosegue da 25 anni. Dal 1988 al 2013 l’età è aumentata di sei anni, raggiungendo quasi i 52 anni: per gli ordinari la media è di 59 anni, 53 per gli associati, 46 per i ricercatori, secondo l’ultimo Rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario e della ricerca. E se la presenza delle donne è cresciuta, passando in 25 anni da 26 a 36 ogni 100 docenti (ma tra gli ordinari la percentuale è del 21 per cento), dal 2008 al 2013 la riduzione dei ricercatori ha penalizzato anche loro.
I magnifici sei, gli unici ordinari under 40, che “l’Espresso” è riuscito a individuare, sono tutti maschi. Tutti nati nel 1976. Insegnano a Palermo, a Sassari, a Napoli, a Messina e a Bologna, quasi esclusivamente discipline economico-giuridiche. Nella metà dei casi hanno seguito una tradizione di famiglia. All’unanimità ammettono: «Siamo solo i più fortunati».
Detto da Alessandro Baldi Antognini, che insegna Statistica all’università di Bologna e che di calcoli delle probabilità è un esperto, dà la misura dell’eccezionalità. «Turn over dei docenti bloccato; scarsi finanziamenti per nuove cattedre»: la spiega così, la trappola. Come l’ha evitata? «Con un valido dottorato di ricerca, durante il quale ho lavorato molto e ho fatto esperienze umane importanti. Ho avuto maestri veri, che hanno favorito esperienze internazionali›: un altro passepartout decisivo.
E anche all’estero i giovani sono una minoranza? «No. I contesti sono più dinamici, anche dal punto di vista contrattuale. Il reclutamento a tempo determinato, o finalizzato a singoli settori di ricerca, fa sì che ai vertici ci siano persone giovani. L’Italia dovrebbe favorire forme di finanziamento trasversale per attività di ricerca».
All’estero il quadro è diverso: se il Paese con i docenti più giovani è Cipro, con una percentuale di professori con meno di 40 anni del 50,7 per cento, anche la Germania ha quasi la metà dei suoi docenti al di sotto di quella soglia (49,2 per cento). Puntano sui giovani l’Olanda (43,4 per cento), il Belgio (30,2), il Portogallo (35,1), il Regno Unito (29,5). Nel confronto tra under 40 si collocano meglio di noi, secondo l’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 (il Mulino), praticamente tutti: l’Austria e la Finlandia (28 per cento), la Spagna (27,4), la Francia (25,9). Siamo il Paese coi docenti più vecchi.
E c’è chi fa persino peggio della media: La Sapienza di Roma, il più grande ateneo d’Italia e d’Europa: «L’età media degli ordinari nel 2015 è addirittura di 61,9 anni. E ancora più preoccupante è l’età media dei ricercatori: 52 anni», dice il rettore Eugenio Gaudio che, al contrario, può vantare una carriera lampo: «Ho avuto la ventura di vincere la cattedra a 38 anni. La Sapienza è un’università antica e prestigiosa, spesso il punto di arrivo di una carriera, ma è chiaro che quando l’età è così alta c’è un problema, che chiama in causa l’intero Paese: perché la produttività migliore è tra i 20 e i 40 anni. Dopo, si può essere ottimi docenti, con una formazione sedimentata ed esperienza in più: ma la carica innovativa e creativa è inevitabilmente diminuita».
Quella di Iunio Iervolino, ordinario di Tecnica delle Costruzioni alla Facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli, 39 anni, un cognome evocativo ma niente da spartire con l’ex sindaco («Mia madre insegnava latino e greco, mio padre era ingegnere. La sua perdita, da piccolo, è stata una delle motivazioni più forti ai miei studi»), si percepisce a distanza: «Sono competitivo, ho una volontà forte. Queste caratteristiche contano eccome», dice. Iervolino si occupa di terremoti, parla dall’Olanda e sta per volare in California. «L’ingegneria ha una grande tradizione in Italia. Non ho mai visto applicato un criterio di anzianità a scapito dei giovani. Certo mi ritengo un privilegiato. Perché la conseguenza di questo innalzamento dell’età è che i migliori vanno via, e l’ottima formazione si riversa altrove. Però, ho l’impressione che qualcosa stia cambiando. A prescindere dalle qualifiche, vedo molti giovani che fanno ricerca, viaggiano, collaborano. Se i giovani sono pochi, siamo penalizzati anche nell’accesso ai fondi: esistono bandi europei su progetti internazionali, destinati in ragione dell’età: perdiamo anche quelli».
I progetti di ricerca per ricercatori junior, finanziati dallo European Research Council, registrano il deficit: sono stati 127, a fronte dei 495 della Gran Bretagna, i 326 della Germania o i 314 della Francia. «La disponibilità a muoversi è fondamentale», aggiunge Luca Corazzini, ordinario di Economia Politica a Messina, dopo aver insegnato a Padova; nato a Modena, cresciuto a Pescara, residente sul Lago Maggiore. «Dopo la laurea in Economia alla Bocconi e il dottorato in Diritto internazionale ho ottenuto un PhD alla University of East Anglia di Norwich sotto la supervisione di Roberg Sugden. Ho trascorso cinque mesi all’Università di Miami. E ho frequentato laboratori sperimentali. Sono stati passaggi importanti», dice. «Ho scoperto la bellezza di fare ricerca in squadra. Certo, io sono passato da ricercatore ad associato in tre anni e ho ottenuto l’idoneità prima del blocco del reclutamento».
«I ripetuti cambi nelle modalità di reclutamento dei docenti hanno creato una situazione di incertezza», spiega Gaudio: «Oggi il prerequisito tecnico ai concorsi è rappresentato dalle abilitazioni. L’ultima è stata nel 2012. Ma anche conseguita quella, non è detto che si accederà a una cattedra. Ci sono ragioni sia qualitative che quantitative dietro un’età dei docenti così alta: da una parte i concorsi sono complessi, prevedono curriculum avanzati; dall’altra, le risorse sono scarsissime, al punto da rendere quasi impossibile l’accesso a una cattedra. Quest’anno, il Fondo di finanziamento ordinario che lo Stato trasferisce alle università, e che ne rappresenta la principale fonte di sostentamento, è lo 0,42 per cento del Pil: in Germania e in Francia è dello 0,90 per cento. La Sapienza è passata da 5.000 docenti a 3.800, e non è in grado di avviare il turn over».
In periodo di riforma della Pubblica Amministrazione sarebbe utile pensare all'inserimento della qualifica tra i requisiti richiesti e valutati nei concorsi pubblici. Un'occasione imperdibile per mettere al lavoro giovani di talento. Il ministro Marianna Madia è avvisata
Su questa premessa si innesta la novità annunciata da Renzi: 500 cattedre per docenti di elevato merito scientifico, selezionati con concorso internazionale, e finanziati da uno stanziamento di 50 milioni di euro per il 2016 e di 75 milioni di euro dal 2017. E un piano da 55 milioni di euro nel 2016 e altri 60 nel 2017 per mille ricercatori. Non solo: grazie alla “tenure track”, sistema che consente alle università di assumere ricercatori a tempo per due trienni, per poi promuoverli a professori associati se conseguono l’abilitazione entro il secondo triennio, energie nuove potrebbero accedere al primo scalino della docenza.
«Sono contento, specie dei nuovi ricercatori, perché la strada per avere docenti giovani è di allargare la base. Ma lo considero solo un primo segnale del Governo: di ricercatori ce ne vorrebbero 10 mila», interviene Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli e neopresidente della Crui, la conferenza dei rettori italiani: «Il modo per salvare l’università è mettere dentro i giovani migliori. C’è un profondo invecchiamento del corpo docente. Il reclutamento è bloccato. I finanziamenti sono ridotti: un miliardo e mezzo in meno in pochi anni. Il sistema piramidale, struttura naturale di organizzazione dell’università, funziona se la base dei docenti è ampia. Se si riduce diventa un cuneo soffocante, senza opportunità».
«Il problema dell’università è come valorizzare il merito: la mancanza di risorse fa sì che anche i potenziali docenti - gli idonei - finiscano per rimanere troppo a lungo in una situazione di attesa. Serve passione. Ma anche la possibilità di contare, prima dell’eventuale chiamata, su altre remunerazioni». A parlare è Giovanni Perlingieri, 39 anni, professore ordinario di Diritto Privato alla Seconda Università di Napoli. Stesso nome del nonno, deputato della Costituente, e figlio del giurista Pietro Perlingieri: professore emerito di Diritto civile, ex membro del Csm, presidente delle Edizioni Scientifiche italiane.
Il diritto un destino di famiglia? «Ho una grande passione per questo lavoro, che ho respirato sin da bambino», replica: «Nascere in una casa come la mia significa aver convissuto con gli strumenti del mestiere: innamorarmene è stato naturale. In più, ho sempre avuto un grandissimo spirito di emulazione di mio padre. Ma un cognome pesante può essere anche controproducente: rischia di oscurare l’impegno personale. Che è stato, e continua ad essere, grandissimo».
Per il docente l’anello debole del sistema sono i dottorati. «Quelli interdisciplinari sono diventati una moda, ma se non hanno un oggetto ben individuato finiscono per non specializzare più. I dottorati dovrebbero essere davvero di qualità. Negli ultimi 40 anni si è fatto di tutto, invece, per peggiorarli. Anche il concorso nazionale ha creato l’anomalia di docenti selezionati senza più una prova orale, ma sulla base della valutazione dei soli titoli».
I dottorati drasticamente ridotti hanno creato una strozzatura nell’accesso», ribadisce Enrico Camilleri, professore di Diritto Privato a Palermo: «Ed è grave che così pochi giovani riescano ad accedere a una cattedra: io a 33 anni insegnavo negli Stati Uniti, ma sono un’eccezione. Tutte le volte che mi confronto con l’estero, mi rendo conto di quanto formi bene il nostro Paese. Tra gli ultimi abilitati ci sono moltissimi giovani: se arriveranno le risorse, avranno la possibilità di essere chiamati; ma se non accadrà, la situazione peggiorerà. Perché ci sarà un arretrato che andrà a infoltire la prossima lista di idonei».
Camilleri, curriculum con esperienze di studio a Londra, Monaco, Chicago, Pechino, è stato compagno di corso, a Palermo, di un altro docente che non ha ancora raggiunto gli “anta”: Simone Pajno, ordinario di Diritto Costituzionale a Sassari. Professore associato da quando di anni ne aveva addirittura 28, anche Pajno ha seguito le orme familiari: il nonno era procuratore della Repubblica a Palermo; il padre, Alessandro Pajno, è consigliere di Stato e docente di Diritto amministrativo alla Luiss. «Ho ricevuto consigli da lui, certo: ma non li ho seguiti», dice.
«Mi ritengo però più fortunato di altri. A partire dalla sede dell’insegnamento: Sassari è un’università aperta, che mi ha dato la possibilità di interagire con importanti studiosi di diritto costituzionale ma dove non si è mai strutturata una vera e propria scuola tradizionale. Il fatto che molti docenti, nel giro di qualche anno, si siano trasferiti altrove ha creato un clima di scambio, ma anche un territorio vergine, senza vincoli di tradizione accademica. La situazione accademica dei giovani è lo specchio di ciò che accade nel resto della società. Credo che sia un danno per il Paese: non tanto perché la carica di creatività si riduca negli anni. Ma perché, col tempo, perdiamo intelligenze che lasciano l’università o si trasferiscono all’estero».
Al recupero dei cervelli punta l’iniziativa legislativa: «Cerchiamo le eccellenze scientifiche, i migliori nel mondo, l’alta velocità del merito», ha detto il ministro Stefania Giannini. Tra risorse stanziate e meccanismi di reclutamento, ossigeno in arrivo: «Me lo auguro. Ma non ho molta fiducia nel “tenure track”, perché dipende dall’età di ingresso nel sistema», nota Manfredi: «Negli Usa funziona perché i ragazzi cominciano presto il dottorato. Essendo un sistema lungo almeno sei anni, se inizi a 30 anni puoi diventare associato entro i 40. Altrimenti, non cambia nulla».
Sabina Mainardi
L’Espresso
29 09 2015
Italia Paese di santi, navigatori e Neet. Arriva anche dall'Ue, numeri alla mano, la conferma che a pagare la crisi sono soprattutto i più giovani. Con la probabilità che quella dei 15-24enni diventi la nuova generazione perduta.
Secondo un report dell'Eurofound , agenzia dell'Ue che si occupa di politiche sociali e lavoro, cresce il rischio di “povertà ed esclusione sociale”. Un'espressione che non significa solo mancanza di lavoro ma anche di partecipazione. Perché chi è escluso sopporta maggiori privazioni economiche, ha meno fiducia nelle istituzioni e non è coinvolto nella vita politica. Una condizione che riguarda un quarto dei giovani europei e che è più diffusa oggi rispetto al 2008 in 20 Paesi Ue su 28.
L'Italia non se la passa meglio. Tutt'altro: il rischio tocca poco meno del 30% dei giovani. Fanno peggio solo Irlanda, Croazia, Lituania, Ungheria, Lettonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Se per alcuni di questi Paesi, si fanno sentire una scolarizzazione più modesta o condizioni sanitarie peggiori, per l'Italia la responsabilità dell'esclusione sociale è più univoca: manca il lavoro, almeno quanto la fiducia di un avvenire migliore.
Il record dei Neet
Nel 2014, periodo preso in esame dall'Eurofound, la disoccupazione giovanile in Italia ha toccato il 42,7%. La media Ue è pari alla metà e si avvicina al tasso che l'Italia contava nel 2008. In altre parole: la disoccupazione tra gli under 24 è raddoppiata nell'arco di appena sette anni. Colpa della crisi, certo. Ma non per tutti: nello stesso periodo, la media dei 28 Paesi Ue è aumentata di soli sei punti percentuali.
Il fatto che ci sia qualcuno che “sta peggio di noi” (Croazia, Spagna e Grecia) non è una consolazione. Anche perché l'Italia non si fa mancare un primato: è il Paese con il record di Neet: il 22,1% dei giovani non studia né lavora. Un primato ottenuto con distacco: per entrare nel ristretto club degli Stati con “very high rate” (insieme a Irlanda, Bulgaria, Grecia e Spagna) bastava il 17%. La media Ue si ferma al 12,4%.
Sull'essere Neet pesa la disoccupazione. Ma ancor di più il mercato del lavoro nel suo complesso. L'Italia è, alle spalle della Grecia, il Paese con la più alta incidenza di disoccupazione di lungo termine: il 60% dei senza lavoro non ha un impiego da almeno un anno. Insomma: chi esce dal mercato non riesce a rientrarci. E così perdere il lavoro non è un momento di passaggio da un'impiego all'altro ma una sosta. Spesso prolungata.
Essere escluso per così tanto tempo, afferma l'Eurofound, deve essere motivo di “profonda preoccupazione per l'Ue” perché “può causare conseguenze che si protrarranno per tutta la vita in termini di scarsa occupazione, salari e vita sociale”.
Lo scontro tra generazioni
Se non fosse abbastanza chiaro, gli analisti sottolineano che “i giovani tra i 16 e i 24 anni costituiscono oggi il gruppo con il maggiore rischio di esclusione sociale” e vedono allargarsi sempre di più la forbice con gli over 65. Ossia con i loro padri, zii e nonni.
Disoccupazione, stasi e un confronto generazionale impietoso con chi ti sta accanto sono gli elementi di una bomba sociale pronta ad esplodere: si parla di 13,7 milioni di Neet e 27 milioni di giovani a rischio di esclusione sociale in tutta Europa.
È la stessa Ue, nel suo Youth Report 2015 , a lanciare l'allarme: “I tassi di povertà sono più elevati per i giovani che per la popolazione in generale”. Un divario socioeconomico che espone le nuove generazioni “al rischio di povertà a lungo termine” e non esclude la prospettiva di una “radicalizzazione violenta”.
© Riproduzione riservata 25 settembre 2015
l'Espresso
24 09 2015
«Per secoli si è discusso se l’omosessualità fosse una malattia. Ora scopriamo che la vera malattia da curare è l’omofobia». Non usa mezzi toni Emmanuele Jannini, sessuologo all’Università di Roma Tor Vergata e presidente della Società italiana di andrologia e medicina della sessualità, nel riassumere senso dello studio pubblicato su “The Journal of Sexual Medicine”.
Con Giacomo Ciocca e altri colleghi delle Università di L’Aquila, Firenze, e Roma La Sapienza, Jannini ha sottoposto a oltre 550 studenti universitari italiani un test che misura i livelli di omofobia e altri questionari che individuano vari aspetti della personalità. Scoprendo che l’omofobia non è così rara come forse ci si poteva aspettare in un gruppo di giovani universitari, e che, come invece era ampiamente previsto, è più diffusa fra i maschi.
Ma soprattutto che è favorita da una serie di precise caratteristiche psicologiche. Sono tendenzialmente più omofobe le persone con livelli più alti di psicoticismo, un aspetto della personalità caratterizzato dalla paura, che porta ad atteggiamenti di ostilità e rabbia e in alcuni può essere un prodromo di vere e proprie psicosi; o con meccanismi di difesa immaturi (le strategie con cui affrontiamo minacce e difficoltà); o che hanno difficoltà nel rapportarsi agli altri per quello che gli psicologi chiamano "uno stile di attaccamento insicuro".
«In poche parole, emerge che gli omofobi sono soprattutto maschi insicuri, da un lato paurosi e dall’altro immaturi» riassume Jannini. «Se vogliamo è un po’ una scoperta dell’acqua calda, ma nessuno scienziato finora l’aveva dimostrato. Questo identikit coincide bene con un aspetto peculiare dell’identità di genere maschile che è quello della fragilità, dell’incertezza. Sappiamo che di default una persona si sviluppa secondo un modello femminile: solo se nel feto si attiva un complicato processo genetico e ormonale lo sviluppo viene dirottato per generare un corpo e un cervello maschili. L’identità di genere maschile è estremamente fragile e ha bisogno di continue conferme. A questo si aggiunge che un po’ tutti, per varie ragioni, tendiamo a confondere l’identità di genere e l’orientamento sessuale: è invalsa l’idea che il gay è effeminato, un “mezzo uomo” (mentre peraltro i dati scientifici dicono l’opposto: il pubblico si sorprende sempre quando a una conferenza mostro che i gay hanno in media genitali più grossi e livelli di testosterone più alti, oltre che un’attività sessuale molto più frequente). Così di fronte a un “maschio effeminato” l’omofobo va in crisi perché sente minacciata la sua stessa identità di genere, si risveglia in lui la paura di non essere abbastanza maschio».
Per decenni, come è noto, anche nel mondo della psicologia sono state accettate teorie non dimostrabili che consideravano l’omosessualità una patologia. Finché, a metà Novecento, non si è provato a definire in concreto quali caratteristiche psicologiche distinguessero un omo da un eterosessuale. E si è constatato che non ce n’erano. Provare a distinguere fra i due con test di personalità o altri test psicologici era un po’ come cercare test che distinguano un tifoso dell’Inter da uno del Milan: l’unico modo è fare domande legate direttamente alle preferenze, sessuali o calcistiche. Così l’omosessualità è stata derubricata dai manuali di psicopatologia, e la ricerca ha iniziato a spostarsi sull’altro fronte: non ci si chiede più perché una persona è omosessuale, ma perché provi ostilità, paura, disgusto verso l’omosessualità. Una domanda cui questo studio contribuisce ora a rispondere.
«Naturalmente questo non vuol dire che gli omofobi siano tutti psicopatici» precisa Jannini. «Ma qualche problema ce l’hanno. Noi per la prima volta diciamo che, se c’è da cercare dei segni di malattia, questi vanno cercati nell’omofobo. Hanno segni che indicano una debolezza del sistema psichico, quindi è più facile trovare un malato psichiatrico lì che altrove».
Altrettanto naturalmente, non tutte le persone con queste caratteristiche diventano omofobe. «Incertezza, paura, e soprattutto debolezza, sono fattori di rischio che rendono assai più sensibili ai messaggi omofobi che possono venire dalla società, dalla famiglia, dalla scuola, dalla battuta estemporanea in classe alle pressioni sistematiche di certe predicazioni religiose».
In quest’ottica, sostiene Jannini, per prevenire o moderare l’omofobia serve un’educazione sentimentale e sessuale che insegni fin da piccoli a non aver paura di se stessi, delle proprie emozioni e delle differenze con gli altri. «Un’educazione che è finalmente prevista nella riforma scolastica, la “Buona scuola”: per la prima volta c’è un richiamo importante alla tolleranza e al rispetto della differenza, e si mette in evidenza una serie di comportamenti che vanno respinti, inclusa l’omofobia. Ed è assurdo che ci sia chi si oppone vedendo in questa educazione una fantomatica “ideologia del gender”. Che non può esistere perché, anche se davvero ci fossero manipoli di cospiratori che congiurano per creare un esercito di gay e di lesbiche nelle scuole, nessuno saprebbe dirgli come farlo. Non si conosce alcun modo per modificare l’orientamento sessuale di una persona, bimbo o adulto, che sia con l’educazione scolastica o con le cosiddette terapie riparative per “curare” i gay. Se i cospiratori del gender pensassero di riuscirci facendo giocare i maschietti con le bambole e le femminucce con i soldati, resterebbero molto delusi».
Giovanni Sabato
L’Espresso
21 09 2015
Migranti all'esterno del Cara. Foto di Antonello Mangano Il viaggio dal Ghana, lo sbarco a Lampedusa, il trasferimento al centro di Mineo. Marcus, lo chiameremo così, sembra un migrante come tanti. Invece lo Stato italiano lo ha trasformato in un fantasma senza diritti. Avrebbe dovuto ricevere almeno tre documenti. Non ne ha avuto nessuno. Adesso, se vuole lavorare, può farlo solo da schiavo.
SE LO STATO FAVORISCE IL CAPORALATO
Siamo a Mineo, Sicilia orientale. Il Cara – acronimo di “Centro di accoglienza per richiedenti asilo” - è fuori dal mondo. Per raggiungere Catania in auto ci vuole un'ora. Il posto più vicino è il paese. Vicino per modo di dire: undici chilometri di cammino in salita. E quando arrivi trovi un posto da cui emigrano anche gli italiani.
Tutti i migranti del Cara hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Per avere una risposta passano da uno a due anni. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Non è stata predisposta una commissione all’interno, la più vicina è a Siracusa. Così, rispettare i termini di legge è impossibile.
Che fare durante tutto questo tempo? La direttiva europea prevede che dopo sei mesi un richiedente asilo abbia un permesso temporaneo. In questo modo può lavorare regolarmente. Eppure non viene consegnato. Per ottenerlo bisogna fare ricorso, denunciano gli avvocati.
Dunque si può scegliere tra il limbo e i caporali. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo. «C’è un caporalato diffuso, pazzesco e impressionante», denuncia Elvira Iovino del Centro Astalli di Catania.
Antonella Elisa Castronovo è una dottoranda di ricerca dell’Università di Pisa che ha condotto uno studio nella zona. «I risultati hanno mostrato implicazioni molto significative nel mercato del lavoro locale», spiega all’Espresso. «Il caporalato non esisteva nella zona, è stato letteralmente introdotto col Cara». Il suo studio è stato pubblicato da una rivista scientifica internazionale, l’Open Journal of Social Sciences.
Tra i testimoni che ha intervistato, tra gli altri, ci sono alcuni sindacalisti del luogo: «Gli “affricani”, ed è quello che accade nel Cara di Mineo, si fanno trovare alle sette del mattino in un determinato posto, passa il tizio locale, recluta alcuni lavoratori, li porta a lavorare in campagna e gli dà 3 euro l’ora o 10 euro al giorno» dichiara uno di loro. «I richiedenti asilo sono pagati ancora meno degli immigrati “economici”», dice un altro intervistato.
Anche la Cgil conferma: «Nell’area del Calatino gli immigrati del centro di accoglienza sono facili vittime dei caporali», dice all’Espresso Salvatore Tripi, segretario della Flai regionale.
CARA MINEO, I NUMERI MISTERIOSI
Quanti sono gli ospiti di Mineo? “Circa tremila”. La capienza nominale sarebbe di 1800 posti. Gli avvocati dell’ Asgi denunciano l’«omessa comunicazione dei provvedimenti con il quale il Questore dispone l’accoglienza». In più non viene consegnato l’attestato nominativo e non è disposta neppure la cessazione dell’accoglienza. L’unico documento, con valore legale pari a zero, è il badge. Un pezzo di carta rilasciato dall’ente gestore.
Migranti all'esterno del Cara. Foto... Migranti all'esterno del Cara. Foto di Antonello Mangano
Numerose associazioni – tra queste il Centro Astalli di Catania – hanno denunciato il traffico dei badge. Chi va via lo lascia a un connazionale. Per cui vengono assistiti i “presenti-assenti”. In mancanza di documenti, il migrante non ha accesso all’assistenza sanitaria e al gratuito patrocinio di un legale. C’è materiale per denunce alle istituzioni europee, ai tribunali italiani e alla Corte dei conti. Ogni migrante vale 30 euro al giorno. Che si moltiplica per un numero incerto.
Gli avvocati dell’Asgi hanno presentato numerosi ricorsi contro queste violazioni. E hanno inviato una lettera al Ministero dell’Interno. Senza ricevere risposta. Anche la nostra richiesta di replica – al momento della pubblicazione dell’articolo - ha avuto la stessa sorte.
Il 'PERIODO DI RIFERIMENTO'
L’avvocato Filippo Finocchiaro difende alcuni richiedenti asilo di Mineo. Mi introduce nel suo studio a due passi dal grande mercato all’aperto di Catania. Prende i faldoni. Ognuno racconta di pezzi di vita sottratti ai migranti. Il legale ribadisce che i suoi assistiti non hanno ricevuto nessun documento.
«La risposta tipica ai miei ricorsi è che il decreto di accoglienza non è stato notificato per “l’elevato numero di migranti sbarcati nel periodo di riferimento”» dice. La colpa quindi è dell’emergenza. Ma perché non è stato consegnato neppure il permesso di soggiorno? «Non risulta che il suo assistito abbia mai richiesto a questo ufficio un appuntamento», risponde la Questura di Catania.
l'Espresso
18 09 2015
Ci sono i libri, i film e le serie tv, ma non solo. La mafia, con le storie dei suoi protagonisti e di chi ha cercato di combatterla, è un tema che è stato spesso tradotto anche in disegni e nuvolette. Proprio a questa narrazione attraverso i fumetti è dedicata la mostra "Mc Mafia", al museo di Roma Trastevere (Piazza di Sant’Egidio, 1/b) dal 22 settembre al 4 novembre, e poi dal 4 dicembre al 14 febbraio al Museo del fumetto di Cosenza.
«Da sempre le mafie – spiega Luca Scornaienchi, curatore della mostra e responsabile artistico del Museo del Fumetto di Cosenza – hanno ispirato la produzione di opere culturali. Mc Mafia rappresenta uno sguardo inedito, una lunga sequenza di tavole, schizzi e illustrazioni originali sulle mafie e l’antimafia nella storia della letteratura disegnata».
La rassegna, pensata dall’Associazione daSud, è divisa in tre sezioni che vanno dalla satira al giornalismo d'inchiesta alla narrativa pura, e mette insieme 90 opere originali di oltre 40 autori distanti tra loro per provenienza e stili che permettono di ricostruire come il fenomeno sia stato raccontato negli anni e come sia cambiato l'immaginario collettivo.
l'Espresso
17 09 2015
È giovedì mattina. «Buongiorno, il consultorio familiare di Larino?». «Sì, dica». «Una mia amica deve fare un'interruzione volontaria di gravidanza. Siamo molto preoccupate». «Eh ma deve andare a Termoli». «Abbiamo bisogno del certificato medico». «No, no, noi non lo facciamo il certificato, non abbiamo il ginecologo. Ma, insomma, se vuole passare qui, possiamo invitare la signora a riflettere. A cambiare idea». No, grazie.
«Buongiorno è il consultorio di Brescia?». «Il consultorio Cidaf, sì». «Una mia amica ha bisogno di un'interruzione volontaria di gravidanza». «Noi non le facciamo queste cose». «Scusi?». «Non le facciamo. A parte che siamo in chiusura, ma soprattutto abbiamo l'obiezione di coscienza, per cui si rivolga ad altri, si rivolga al pubblico». «Ma voi siete un consultorio accreditato, vi ho trovati indicati sul sito web del ministero della Salute». «Ripeto: siccome è una scelta, i consultori Cidaf sono cattolici, e fanno l'obiezione di coscienza. Ne trova parecchi altri». «Mi può dare almeno un numero?». «Lo cerchi su Internet». E appende.
No, non è andata dappertutto così. Una ginecologa di Salò è disponibilissima, attenta, dà indicazioni chiare al telefono e si rende subito raggiungibile per un appuntamento. A Conegliano Veneto lo stesso: un'operatrice aiuta con attenzione e senza pregiudizi. A Jesi? Aprono solo dopo mezzogiorno.
A Milano entriamo in un consultorio cattolico accreditato dalla Regione. Sede: dentro una chiesa, a due passi da uno dei più noti ospedali della città per reparto di maternità. Al primo piano, due donne. Chiediamo indicazione per la pillola dei cinque giorni dopo. Nessuna reazione ostile, anzi: sorridenti indicano un medico che in un certo ospedale dà EllaOne senza problemi. In farmacia? Non si sa mai se accettano di fornirla senza opporsi.
Questa è l'Italia che festeggia i 40 anni della legge sui consultori familiari. Anniversario in sordina, passato sotto silenzio il 29 luglio a fronte di un'applicazione reale piena di vuoti. A cominciare dalla presenza sul territorio: ne mancano circa mille rispetto agli standard previsti come obiettivo (uno ogni 20mila abitanti), con in testa il record negativo della Lombardia e delle regioni del Nordest.
Dove governa Roberto Maroni infatti i consultori sono solo 209, meno della metà di quanti dovrebbero essere. In Veneto sono 99: su 250 che avrebbero dovuto aprire secondo la legge. Va peggio in Friuli Venezia Giulia e in Provincia di Trento, dove ne sono presenti solo un terzo del previsto. Il primato va però alla provincia di Bolzano, dove i consultori pubblici sono zero: tutti privati.
E non è una questione atavica. Al contrario. La situazione è peggiorata, adesso, rispetto al 2004, anno della prima rilevazione del ministero della Salute ad oggi reperibile. Un deficit di servizio pubblico che lascia buon gioco al privato, quasi tutto cattolico. Al livello nazionale si contano 283 consultori privati d'ispirazione religiosa, tra Cfc e Ucipem, le principali organizzazioni del settore. Non va diversamente nel resto d'Italia. Le eccezioni? Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta, che di consultori pubblici ne hanno addirittura di più del dovuto.
ALL'ORIGINE DEI CONSULTORI
C'è anche un fronte che s'apre in retrovia: e non è la battaglia sui numeri - quanti consultori, quanti indirizzi per 20mila abitanti -. È una battaglia sul come. Sul cosa. A cosa servono i consultori familiari? A cosa dovrebbero servire? Che attività dovrebbero garantire alle ragazze?
«Io c'ero», racconta Lisa Canitano , presidente dell'associazione Vita di Donna : «Io c'ero quando parlare di contraccezione e pianificazione familiare era un tabù, quando le donne non andavano dal medico se non per il parto e non sapevano cosa fosse un pap test».
«Io c'ero», continua: «quando i consultori nacquero con l'obiettivo indispensabile di dare un servizio laico, gratuito, accessibile e collettivo alle giovani, dell'Italia dalla sanità ancora cattolica». Insiste su questi tre punti, la fondatrice di Vita di Donna, una rete di riferimento in Italia per la salute femminile: laici, accessibili, collettivi.
Laici: perché se un luogo pubblico deve dare risposte, le dovrebbe dare a partire dalla scienza, dalla cura, e non dalla fede. Per questo la normalità di situazioni come quella lombarda, dove tutti i consultori privati accreditati sono cattolici (tutti, tranne uno), o come quella del Lazio, dove la decisione del governatore Nicola Zingaretti di impedire l'obiezione al loro interno è stata per ora sospesa dal Tar, è stonata rispetto allo spirito della legge del 1975.
«Verso chi si rivolge a noi sospendiamo qualsiasi tipo di giudizio», raccontano le operatrici del "Cemp", un ente privato, laico, di Milano, che segue centinaia di mamme e giovani donne da due generazioni: «Le scelte personali vanno sempre rispettate, e accompagnate nel modo migliore per la salute della persona. Senza imporre soluzioni». Ma come racconta il carotaggio telefonico de l'Espresso, non sempre funziona così.
L'AVANZATA DEI CENTRI PER LA VITA
Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l'interferenza c'è, eccome. Mediamente in Italia circa un ginecologo consultoriale su quattro è obiettore di coscienza. In Sicilia salgono a due su tre e sono circa la metà in Basilicata, ma non se la passano meglio le donne di Toscana, Marche e Valle d'Aosta, dove le percentuali variano tra il 30 e il 44 per cento.
C'è poi il buco nero della Lombardia, che nell'era Formigoni era solita non trasmettere il dato al ministero. Non pervenuto anche il Molise. Insomma: sono evidenti le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza. In alcune regioni, infatti, il rapporto tra colloqui per l'Ivg e il successivo rilascio del certificato, mette in luce delle anomalie. Eclatante, fra tutti, il caso Marche: dove viene rilasciato un solo certificato per ogni 12,3 donne che lo hanno chiesto.
Un caso patologico rispetto alla normale proporzione tra quante sono inizialmente intenzionate ad abortire e quante arrivano in fondo a questa scelta. L'Espresso si era già occupato del caso della " bacheca degli orrori ": il volantino affisso in un consultorio pubblico di Jesi per iniziativa del Movimento per la vita.
E infatti in molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l'accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.
I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l'altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti "contributi pubblici vari". Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.
UN SERVIZIO PER CHI?
Poi ci sono gli altri principi. L'essere gratuito, accessibile e collettivo: «Oggi viviamo un paradosso», spiega Lisa Canitano: «I consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Ora tutti insistono per occuparsi di "prevenzione", "corsi pre parto" e simili. Ma se arriva una ragazza che sta male, che ha delle perdite, la mandano in ospedale. In ospedale, al pronto soccorso».
Non ha senso, sostiene la ginecologa. E lo stesso vale per le malattie sessualmente trasmesse : chi se ne dovrebbe occupare? «Il pronto soccorso, anche qui? Non è un uso sbagliato del servizio?», risponde lei: «Non dovrebbero occuparsene i consultori? Certo che sì! Ma non vogliono, evitano "l'utenza difficile": le immigrate con gravidanze non seguite da subito? Le mandano in ospedale». Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l'Espresso: l'80 per cento delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere.
«L'altro giorno», conclude la Canitano: «mi ha chiamata una ragazza di Venezia: aveva bruciori e un problema alla vagina. Era sola. Non c'erano dottori al centro, e non aveva i 250 euro per pagarsi la visita al ginecologo privato. Cosa doveva fare? I consultori non si prendono più le loro responsabilità». Anche perché spesso non hanno nemmeno i medici necessari: in 7 regioni i ginecologi sono in media meno di uno per centro. In altre otto regioni non si va sopra l'uno e mezzo. Il che significa non poter garantire sempre il servizio.
Il paradosso sta lì: nella distanza fra bisogni e realtà. Quell'ideale di apertura, accessibilità e possibilità di condivisione, che era il cuore della legge, si è frammentato in alcuni casi di fronte a nuove attività, come quelle familiari (previste per decreto in alcune regioni) e la prevenzione, a volte non sanitaria, concreta, ma solo teorico-formativa. E non è solo una questione di preservativi, pillole, spirali - dove può andare oggi una ragazza a farsi mettere la spirale seguita da un medico? - o interruzioni volontarie di gravidanza.
QUELLO CHE SERVE
È anche un problema più ampio. «Nel nostro ospedale facciamo 10mila ecografie all'anno. Diecimila», spiega Paolo Scollo, primario di ginecologia dell'ospedale di Catania e presidente della Società italiana ostetricia e ginecologia- Sigo : «È uno spreco: questo è un servizio che per le maternità non a rischio potrebbe benissimo fare il consultorio. Ma lì non hanno gli strumenti. E così ricade su di noi».
Lo stesso per le situazioni più complicate, come quelle legate all'emarginazione: «Ho fondato un servizio di emergenza per donne immigrate: un ambulatorio, dentro l'ospedale, dove le donne possano venire e avere tutti gli esami e avere l'assistenza necessaria in un solo giorno, seguite in modo professionale, anche se sono sbarcate da poche ore», racconta il primario.
«All'inizio eravamo aperti un solo giorno a settimana», continua: «Ora tre. E fra i nostri pazienti ci sono anche molte italiane indigenti. Per le quali venire a Catania per le visite è un costo, ma così sono sicure di non essere lasciate in attesa. È considerato un'eccellenza ora, ma per noi è uno sforzo, in periodo di tagli poi, e su un servizio di frontiera in cui il consultorio potrebbe aiutare moltissimo».
In alcune regioni si pensa proprio a questo: integrare i "fronti di contatto" con le donne all'interno di poliambulatori dove si possano fare subito gli esami necessari. «In Sicilia l'abbiamo fatto con la riforma dei punti nascita della nuova legge sanitaria», (quella dell'assessore Lucia Borsellino), continua il presidente della Sigo: «Dove sono stati soppressi perché troppo poco attivi, il consultorio sarà portato all'interno dell'ospedale per offrire le attività di assistenza alla gravidanza pre e post parto».
Lorenzo Di Pietro e Francesca Sironi
L’Espresso
16 09 2015
giovedì mattina. «Buongiorno, il consultorio familiare di Larino?». «Sì, dica». «Una mia amica deve fare un'interruzione volontaria di gravidanza. Siamo molto preoccupate». «Eh ma deve andare a Termoli». «Abbiamo bisogno del certificato medico». «No, no, noi non lo facciamo il certificato, non abbiamo il ginecologo. Ma, insomma, se vuole passare qui, possiamo invitare la signora a riflettere. A cambiare idea». No, grazie.
«Buongiorno è il consultorio di Brescia?». «Il consultorio Cidaf, sì». «Una mia amica ha bisogno di un'interruzione volontaria di gravidanza». «Noi non le facciamo queste cose». «Scusi?». «Non le facciamo. A parte che siamo in chiusura, ma soprattutto abbiamo l'obiezione di coscienza, per cui si rivolga ad altri, si rivolga al pubblico». «Ma voi siete un consultorio accreditato, vi ho trovati indicati sul sito web del ministero della Salute». «Ripeto: siccome è una scelta, i consultori Cidaf sono cattolici, e fanno l'obiezione di coscienza. Ne trova parecchi altri». «Mi può dare almeno un numero?». «Lo cerchi su Internet». E appende.
No, non è andata dappertutto così. Una ginecologa di Salò è disponibilissima, attenta, dà indicazioni chiare al telefono e si rende subito raggiungibile per un appuntamento. A Conegliano Veneto lo stesso: un'operatrice aiuta con attenzione e senza pregiudizi. A Jesi? Aprono solo dopo mezzogiorno.
L'ingresso del consultorio privato...
L'ingresso del consultorio privato accreditato a Milano
A Milano entriamo in un consultorio cattolico accreditato dalla Regione. Sede: dentro una chiesa, a due passi da uno dei più noti ospedali della città per reparto di maternità. Al primo piano, due donne. Chiediamo indicazione per la pillola dei cinque giorni dopo. Nessuna reazione ostile, anzi: sorridenti indicano un medico che in un certo ospedale dà EllaOne senza problemi. In farmacia? Non si sa mai se accettano di fornirla senza opporsi.
Questa è l'Italia che festeggia i 40 anni della legge sui consultori familiari. Anniversario in sordina, passato sotto silenzio il 29 luglio a fronte di un'applicazione reale piena di vuoti. A cominciare dalla presenza sul territorio: ne mancano circa mille rispetto agli standard previsti come obiettivo nel 1975 (uno ogni 20mila abitanti), con in testa il record negativo della Lombardia e delle regioni del Nordest.
Dove governa Roberto Maroni infatti i consultori sono solo 209, meno della metà di quanti dovrebbero essere. In Veneto sono 99: su 250 che avrebbero dovuto aprire secondo la legge. Va peggio in Friuli Venezia Giulia e in Provincia di Trento, dove ne sono presenti solo un terzo del previsto. Il primato va però alla provincia di Bolzano, dove i consultori pubblici sono zero: tutti privati.
E non è una questione atavica. Al contrario. La situazione è peggiorata, adesso, rispetto al 2004, anno della prima rilevazione del ministero della Salute ad oggi reperibile. Un deficit di servizio pubblico che lascia buon gioco al privato, quasi tutto cattolico. Al livello nazionale si contano 283 consultori privati d'ispirazione religiosa, tra Cfc e Ucipem, le principali organizzazioni del settore. Non va diversamente nel resto d'Italia. Le eccezioni? Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta, che di consultori pubblici ne hanno addirittura di più del dovuto.
ALL'ORIGINE DEI CONSULTORI
C'è anche un fronte che s'apre in retrovia: e non è la battaglia sui numeri - quanti consultori, quanti indirizzi per 20mila abitanti -. È una battaglia sul come. Sul cosa. A cosa servono i consultori familiari? A cosa dovrebbero servire? Che attività dovrebbero garantire alle ragazze?
Il consultorio? E' un miraggio
Pochi. Fondi e personale insufficienti. Aperti solo raramente. Difficilmente accessibili. Un'indagine svela le carenze dei centri di assistenza alle donne
«Io c'ero», racconta Lisa Canitano , presidente dell'associazione Vita di Donna : «Io c'ero quando parlare di contraccezione e pianificazione familiare era un tabù, quando le donne non andavano dal medico se non per il parto e non sapevano cosa fosse un pap test».
«Io c'ero», continua: «quando i consultori nacquero con l'obiettivo indispensabile di dare un servizio laico, gratuito, accessibile e collettivo alle giovani, dell'Italia dalla sanità ancora cattolica». Insiste su questi tre punti, la fondatrice di Vita di Donna, una rete di riferimento in Italia per la salute femminile: laici, accessibili, collettivi.
Laici: perché se un luogo pubblico deve dare risposte, le dovrebbe dare a partire dalla scienza, dalla cura, e non dalla fede. Per questo la normalità di situazioni come quella lombarda, dove tutti i consultori privati accreditati sono cattolici (tutti, tranne uno), o come quella del Lazio, dove la decisione del governatore Nicola Zingaretti di impedire l'obiezione al loro interno è stata per ora sospesa dal Tar, è stonata rispetto allo spirito della legge del 1975.
«Verso chi si rivolge a noi sospendiamo qualsiasi tipo di giudizio», raccontano le operatrici del "Cemp", un ente privato, laico, di Milano, che segue centinaia di mamme e giovani donne da due generazioni: «Le scelte personali vanno sempre rispettate, e accompagnate nel modo migliore per la salute della persona. Senza imporre soluzioni». Ma come racconta il carotaggio telefonico de l'Espresso, non sempre funziona così.
L'AVANZATA DEI CENTRI PER LA VITA
Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l'interferenza c'è, eccome. Mediamente in Italia circa un ginecologo consultoriale su quattro è obiettore di coscienza. In Sicilia salgono a due su tre e sono circa la metà in Basilicata, ma non se la passano meglio le donne di Toscana, Marche e Valle d'Aosta, dove le percentuali variano tra il 30 e il 44 per cento.
C'è poi il buco nero della Lombardia, che nell'era Formigoni era solita non trasmettere il dato al ministero. Non pervenuto anche il Molise. Insomma: sono evidenti le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza. In alcune regioni, infatti, il rapporto tra colloqui per l'Ivg e il successivo rilascio del certificato, mette in luce delle anomalie. Eclatante, fra tutti, il caso Marche: dove viene rilasciato un solo certificato per ogni 12,3 donne che lo hanno chiesto.
Un caso patologico rispetto alla normale proporzione tra quante sono inizialmente intenzionate ad abortire e quante arrivano in fondo a questa scelta. L'Espresso si era già occupato del caso della " bacheca degli orrori ": il volantino affisso in un consultorio pubblico di Jesi per iniziativa del Movimento per la vita.
"Vedevo il barattolo riempirsi del mio bambino fatto a pezzi". Inizia così un testo fotocopiato che stava in bella mostra nel consultorio pubblico del comune marchigiano, inviato all'Espresso da una lettrice. Che denuncia: «Così lasciamo spazio ai fanatici»
E infatti in molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l'accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.
I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l'altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti "contributi pubblici vari". Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.
UN SERVIZIO PER CHI?
Poi ci sono gli altri principi. L'essere gratuito, accessibile e collettivo: «Oggi viviamo un paradosso», spiega Lisa Canitano: «I consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Ora tutti insistono per occuparsi di "prevenzione", "corsi pre parto" e simili. Ma se arriva una ragazza che sta male, che ha delle perdite, la mandano in ospedale. In ospedale, al pronto soccorso».
Non ha senso, sostiene la ginecologa. E lo stesso vale per le malattie sessualmente trasmesse : chi se ne dovrebbe occupare? «Il pronto soccorso, anche qui? Non è un uso sbagliato del servizio?», risponde lei: «Non dovrebbero occuparsene i consultori? Certo che sì! Ma non vogliono, evitano "l'utenza difficile": le immigrate con gravidanze non seguite da subito? Le mandano in ospedale». Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l'Espresso: l'80 per cento delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere.
«L'altro giorno», conclude la Canitano: «mi ha chiamata una ragazza di Venezia: aveva bruciori e un problema alla vagina. Era sola. Non c'erano dottori al centro, e non aveva i 250 euro per pagarsi la visita al ginecologo privato. Cosa doveva fare? I consultori non si prendono più le loro responsabilità». Anche perché spesso non hanno nemmeno i medici necessari: in 7 regioni i ginecologi sono in media meno di uno per centro. In altre otto regioni non si va sopra l'uno e mezzo. Il che significa non poter garantire sempre il servizio.
Il paradosso sta lì: nella distanza fra bisogni e realtà. Quell'ideale di apertura, accessibilità e possibilità di condivisione, che era il cuore della legge, si è frammentato in alcuni casi di fronte a nuove attività, come quelle familiari (previste per decreto in alcune regioni) e la prevenzione, a volte non sanitaria, concreta, ma solo teorico-formativa. E non è solo una questione di preservativi, pillole, spirali - dove può andare oggi una ragazza a farsi mettere la spirale seguita da un medico? - o interruzioni volontarie di gravidanza.
QUELLO CHE SERVE
È anche un problema più ampio. «Nel nostro ospedale facciamo 10mila ecografie all'anno. Diecimila», spiega Paolo Scollo, primario di ginecologia dell'ospedale di Catania e presidente della Società italiana ostetricia e ginecologia- Sigo : «È uno spreco: questo è un servizio che per le maternità non a rischio potrebbe benissimo fare il consultorio. Ma lì non hanno gli strumenti. E così ricade su di noi».
Non se ne discute a scuola. Alle ragazze non ne parlano i ginecologi. Gli anticoncezionali costano troppo e i medici non sono preparati. Così l’ignoranza sessuale dilaga. "Nel Paese di verificano ancora 9 mila maternità in ragazze di età inferiore ai 19 anni, un numero altissimo. È evidente che c’è un problema di conoscenza"
Lo stesso per le situazioni più complicate, come quelle legate all'emarginazione: «Ho fondato un servizio di emergenza per donne immigrate: un ambulatorio, dentro l'ospedale, dove le donne possano venire e avere tutti gli esami e avere l'assistenza necessaria in un solo giorno, seguite in modo professionale, anche se sono sbarcate da poche ore», racconta il primario.
«All'inizio eravamo aperti un solo giorno a settimana», continua: «Ora tre. E fra i nostri pazienti ci sono anche molte italiane indigenti. Per le quali venire a Catania per le visite è un costo, ma così sono sicure di non essere lasciate in attesa. È considerato un'eccellenza ora, ma per noi è uno sforzo, in periodo di tagli poi, e su un servizio di frontiera in cui il consultorio potrebbe aiutare moltissimo».
In alcune regioni si pensa proprio a questo: integrare i "fronti di contatto" con le donne all'interno di poliambulatori dove si possano fare subito gli esami necessari. «In Sicilia l'abbiamo fatto con la riforma dei punti nascita della nuova legge sanitaria», (quella dell'assessore Lucia Borsellino), continua il presidente della Sigo: «Dove sono stati soppressi perché troppo poco attivi, il consultorio sarà portato all'interno dell'ospedale per offrire le attività di assistenza alla gravidanza pre e post parto».
L’Espresso
15 09 2015
inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi è a una svolta. I magistrati hanno ascoltato numerose persone e non solo i due testimoni “in divisa” che hanno raccontato le confidenze sulla notte dell'arresto di Stefano ricevute da alcuni colleghi . Le indagini, quindi, procedono spedite. Lo conferma anche l'incontro che si è tenuto in queste ore tra il procuratore capo Giuseppe Pignatone e la famiglia Cucchi. «C'è stato un lungo confronto su alcuni aspetti critici della perizia del processo che non evidenziava la frattura recente ora emersa dalla nuova perizia che abbiamo depositato», spiega a “l'Espresso” l'avvocato Fabio Anselmo.
In effetti non si escludono novità eclatanti. Le parole pronunciate pochi giorni fa dalla sorella di Stefano, Ilaria, fanno riflettere: «Quello che posso dire è che Stefano Cucchi è morto perché è stato pestato. E siamo in grado di dimostrare anche il fumo che è stato fatto nel processo e che non ha permesso di arrivare alla verità. Adesso questo fumo si sta diradando».
Insomma, nelle perizie presentate durante il processo qualche anomalia pare esserci. E la nuova radiografia portata ai magistrati dalla famiglia Cucchi sembra dimostrarlo. In quest'ultima, infatti, si può notare una frattura recente riconducibile alle botte subite dal giovane geometra romano. Ne sono certi i familiari e l'avvocato.
Ora spetterà ai magistrati valutare le differenze tra le perizie e le discordanze nella documentazione che sono state decisive finora per garantire l'impunità dei colpevoli. Ecco perché l'indagine sembra essere entrata nella seconda fase. Dopo aver accertato che Stefano Cucchi è stato picchiato, resta da capire perché i periti non avessero notato quella frattura recente.
A questo si aggiunge un particolare non di poco conto: già durante il processo un perito aveva sottolineato come ci fosse un nesso causale tra le percosse e la morte del ragazzo. Insomma, dopo i carabinieri che hanno riferito ai magistrati della preoccupazione per quel ragazzo “arrestato e ridotto male”, dopo la nuova radiografia che evidenzia una frattura recente sul corpo di Stefano, l'inchiesta sembra avviata verso conclusioni molto diverse da quelle emerse nel primo processo.
L’Espresso
14 09 2015
Un parroco può perdere il controllo delle parole? Quando a Tirrenia, tremila abitanti inzuppati dal mare alle porte di Pisa, vedono qualche rom in giro, una mano femminile preoccupata scrive a padre Marcello. Sulla pagina Internet da cui il prete comunica con i fedeli, la donna gli confessa di avere paura per sé e per i bimbi. E lui, padre Marcello, il parroco di San Francesco arrivato anni fa dalla Romania, risponde ad altezza d’uomo: «Avete un fiammifero?». «Per la benzina», aggiunge a quel punto un’altra parrocchiana, «offro io». No, non è razzismo, dirà il sacerdote quando la notizia esce su “La Nazione”: «Ho scritto quel post perché nella nostra chiesa mancano i fiammiferi nei candelieri e anche per invitare a stare attenti i miei parrocchiani a non aggiungere benzina sul fuoco. Ognuno», sostiene padre Marcello sul quotidiano toscano, «capisce quello che vuole». Appunto. «Gli italiani no, non sono razzisti...», butta lì Joseph Giuseppe Alabi, 59 anni, diploma da ragioniere e contratto a termine da aiuto cuoco. Joseph Giuseppe, africano del Togo, ti guarda con il sorriso simpatico in attesa di una reazione alla sua provocazione. E si corregge, sicuro dei venticinque anni da immigrato passati a lavorare nelle cucine da Roma a Padova: «Il razzismo è come la mafia: non si vede, ma è dappertutto».
Ecco l’Italia. Quella delle battute imprudenti, al massimo si fa sempre in tempo a correggerle. E quella dell’intolleranza militante, invisibile ma violenta nelle parole e da qualche mese anche nei fatti. In poco più di un anno, nove fra centri profughi e future strutture di accoglienza sono stati danneggiati o distrutti da attentati incendiari: dalla baita bruciata sulle montagne del Trentino all’auto in fiamme lanciata contro l’ex caserma Gasparro, nel rione Bisconte a Messina. In mezzo ai due estremi, una massa di italiani, cittadini, elettori ha cambiato idea e si riconosce oggi nell’identikit: «Non sono razzista, ma...». Un ripensamento, proprio quando i tedeschi e il loro governo sorprendono l’Europa e aprono i confini agli esuli, selezionando a modo loro la solidarietà: «Solo siriani, danke». Mentre da noi, al contrario, sta evaporando l’umanità che dal 3 ottobre 2013, giorno dei 366 profughi annegati a Lampedusa, aveva fornito consenso all’accoglienza.
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Da Perugia a Molfetta, chi accoglie i migranti
A dire "welcome" non sono soltanto i cittadini tedeschi, ma anche tanti italiani. Che da Nord a Sud contribuiscono come possono ad aiutare chi è appena arrivato
Nemmeno la foto simbolo del corpicino di Aylan al-Kurdi, il bimbo siriano di tre anni annegato durante la traversata dalla Turchia alla Grecia, sembra aver scalfito il cuore. Forse perché è una storia apparentemente lontana. Nelle ultime ore in cui il bambino scappato da Kobane era ancora vivo, molte redazioni dei giornali e dei telegiornali italiani decidevano di non pubblicare le foto di altri piccoli siriani ritrovati pochi giorni prima a faccia in giù sulla spiaggia di Zuwara, in Libia lungo la rotta per la Sicilia, molto più vicino a noi. Ma poi eccoli tutti a rincorrere la storia di Aylan, dopo la pubblicazione sui quotidiani inglesi. Stessi profughi, stessa tragedia, due misure.
Forse troppo dolore disturba gli italiani. È anche colpa dei numeri epocali dell’esodo: come spiegano i sociologi, non si può fingere che una pressione migratoria così massiccia, e per ora senza sosta, non provochi una reazione sociale. Ma non è questo l’unico fattore a risvegliare la xenofobia. Il governo e alcune sue prefetture nella loro azione dimostrano di muoversi senza piani condivisi, con provvedimenti dettati più dalla disperazione. Come la caccia, in questi giorni, del ministero dell’Interno a ulteriori ventimila posti letto da allestire a pagamento ovunque: case sfitte, hotel in crisi, capannoni, tendopoli. È giusto che quanti richiedono asilo ricevano la dovuta assistenza. Questo tra l’altro elimina il rischio, tra coloro che hanno perso tutto, di dover commettere reati per sopravvivere. Fra due, tre, cinque anni, però, cosa succederà? Senza una vera ripresa economica, per quanto tempo saremo in grado di garantire oltre settantamila pasti tre volte al giorno a un numero crescente di disoccupati stranieri senza nessun futuro?
Non dobbiamo meravigliarci se nei prossimi mesi, in contrapposizione ai cortei di leghisti, xenofobi e neofascisti, vedremo manifestare anche richiedenti asilo che non hanno più nulla da perdere. Come è accaduto nei giorni scorsi a Bresso, a Nord di Milano. Le condizioni del cibo sono spesso solo il pretesto. Insomma, una bomba sociale pericolosamente innescata.
È questo il tappeto altamente infiammabile su cui cresce il popolo dei “non sono razzista, ma”. Dove si incontrano? La pagina ufficiale di Matteo Salvini, europarlamentare e segretario della Lega Nord, è una delle piazze più affollate. L’abbiamo osservata come termometro di una nuova borghesia arrabbiata che non ha remore a esporsi su Facebook con foto, nome, cognome, professione, minacce o insulti. A questo punto bisogna avvertirvi che i lettori minorenni, come si usa per i film in tv, andrebbero accompagnati. Il linguaggio di una certa frangia politica è ormai da bollino rosso. Ma è proprio qui, su Internet, al di fuori del galateo, della decenza e a volte del codice penale, che viaggia il nuovo consenso.
Abbiamo escluso dalla ricerca i giorni con fatti di cronaca gravi: lì è ormai scontato raccogliere manifestazioni di odio contro tutti gli immigrati. Eccoli invece in giornate qualunque. Li provoca Salvini, dopo la protesta dei richiedenti asilo a Bresso: «Vogliono i documenti? Col cacchio. Sono ospiti a spese nostre e rompono pure i coglioni». È sempre la sua pagina ufficiale: in appena cinque ore raccoglie 26.460 “piace” e 2.967 condivisioni. Rispondono subito in centinaia con i loro commenti.
Ecco Teresa Luglini, viso pacifico, sorriso e occhiali da Reggio Emilia: «Li hanno accolti spalancando braccia e gambe? Bene. Tutti questi a casa di coloro che hanno aperto il culo». Bruno Collerio, impiegato di Milano, foto con moglie e figlia il giorno della laurea e gli auguri a Mussolini per il compleanno del Duce: «Salvini, fa qualcosa, questi si riforniscono di armi e per noi italiani è una strage». Carmine Cioffi: «Ammazzateli di botte e mandateli a casa loro». Andrea Riviero: «A casa ingrati parassiti». Alberto Lodi Rizzini, comandante dei vigili urbani in provincia di Mantova, ora in pensione: «Ributtiamoli tutti in mare». Michele Lecchini, imprenditore toscano: «Questi ci ammazzano tutti». Matteo Lancia, tifoso della Lazio: «Olio di ricino a tutti questi». Mauro Calogero, manager in una tv satellitare, fa un comizio: «Gli europei sono naufragati nel meticciato, sommersi da orde di immigrati afro-asiatici. La piaga dei matrimoni misti produce ogni anno migliaia di nuovi individui di razza mista... l’integrazione equivale a un genocidio».
Insulti che nessuno rimuove anche per la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Presidente più inutile della Storia», lancia Salvini. «Vorrei vedere se la Baldracca camminerebbe senza scorta di sera o di notte per strada e si trova davanti un branco di clandestini cosa farebbe», commenta nel suo italiano Brenda Wolsh, pseudonimo di una fan che nei messaggi si presenta poi come una ragazza di 19 anni di Caserta, Daiana F., con lavoro precario come colf. «Io vi ho chiesto di specificare se l’orgia vede solo la Boldrini come donna...», insiste Niccolò Re, 29 anni, giornalista ligure, replicando ad altri commenti: «Io ne facevo un problema terminologico. Orgia con una donna è gang-bang...».
Ce n’è anche per il premier, dopo il duplice omicidio di Catania per il quale è stato arrestato un richiedente asilo della Costa d’Avorio: «Renzi maledetto. Le bestie clandestine uccidono, violentano le donne, rapinano, rubano e tu, persona inutile, ostenti menefreghismo. Ti auguro che questi animali penetrino in casa tua di notte dalla tua famiglia...». È il livello del dibattito sulla pagina ufficiale del nuovo leader della Lega, un milione e 83 mila frequentatori abituali, più di Renzi e di Silvio Berlusconi. Quando vuole Salvini interviene: ma solo se gli danno del fascista o deridono i suoi sostenitori. Nel frattempo gli insulti ai profughi che protestano a Bresso guadagnano ancora consenso: in meno di 48 ore totalizzano 22.406 “piace”, 37.440 condivisioni, addirittura 7.030 commenti.
La differenza con i gruppi neonazisti tedeschi è che la Lega è stata un partito di governo e al governo ci vuole tornare. Allora immaginate cosa accadrebbe in Germania se un leader politico con un incarico istituzionale lasciasse sul suo sito un osanna a Hitler. In Italia niente. Questa è la vetrina ufficiale su Facebook di Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e presidente leghista della Regione Lombardia. «Hitler dove sei?», scrive sulla pagina Giancarlo Spinelli, che si presenta come chimico nucleare di Gorgonzola, provincia di Milano. E sempre lui: «Duce come ti rimpiango». Rosetta Maiorino sugli stranieri che protestano: «Sparargli e fuori dai coglioni». Paolo Mantovani: «Ma quando andiamo a legnare cazzo».
C’è perfino la foto dell’ex ministro Kyenge con la scritta “Sono italiana anch’io” e sotto: «No, tu hai semplicemente rotto i coglioni», regalo inviato al governatore da Giovanni Dragotto di Cinisello Balsamo. Non si risparmia nemmeno l’ex assessore lombardo Davide Boni, messo in panchina dalla Lega in attesa che gli elettori dimentichino la bufera sulle spese pazze in Regione. Il 23 agosto tra la Libia e l’Italia affonda l’ennesimo barcone, 20 cadaveri recuperati, 170 dispersi. Nelle stesse ore Boni, attualmente amministratore delegato di una società di consulenze fiscali, pubblica su Facebook il fotomontaggio di un pescecane che si mangia un gommone carico di profughi africani. E la didascalia: «Nel Mare nostrum arrivano solo meduse tropicali, squali no?». Quella stessa mattina critica anche l’arrivo di quarantacinque profughi in un hotel a Mantova. E un fan aggiunge: «Spero che gli brucino l’albergo». Giocano con il fuoco. E non solo.
Massimiliano Bordignon, giornalista di Milano e qualche anno da emigrante a Toronto in Canada, il giorno della manifestazione a Bresso scrive la sua su come i profughi che protestano andrebbero trattati: «Ragazzi, qui bisogna organizzarsi e scendere in piazza. Bloccare questa gentaglia e fare capire alla polizia che non ci difende che sappiamo difenderci da soli». Difendersi da soli, in che modo? «Il mio appello era rivolto alla gente perché possa tornare consapevole e mobilitarsi di fronte al crimine, da qualsiasi parte venga, mentre uno Stato sempre più assente si limita al contenimento dei danni», spiega serio a “l’Espresso” Bordignon: «Lo dimostra l’azione nei confronti dei black bloc durante l’inaugurazione di Expo. Le persone devono poter pesare maggiormente sulle scelte politiche. La piazza deve tornare a essere il punto d’incontro di chi, senza restare chiuso in casa, abbia voglia di dire no senza farsi strumentalizzare».
Stessa agitazione per Antonio Ciraci, 50 anni, imprenditore in Lombardia: «Inizia una nuova stagione calda. Con l’apertura delle scuole ricordatevi di aumentare la sicurezza dei bambini e delle mogli a casa», scrive sarcastico qualche settimana fa: «L’aumento degli ormoni nei profughi, il cibo scadente somministratogli, le suite malandate, la garanzia scaduta sugli iPhone causerà troppo disagio e qualcuno di loro potrà manifestare la sindrome del macete. Si raccomanda di munirsi di porto d’armi e armi leggere. In bocca al lupo». Ma siamo davvero così in pericolo? «Le armi non sono la soluzione a questa situazione», risponde a “l’Espresso” l’imprenditore: «Penso però che prossimamente queste persone siano in grado di aggredirci a un semplice comando di qualche imam. Condivido l’uso delle armi a scopo difensivo, non offensivo. I bambini sono stati ripetutamente usati allo scopo di inculcare la commiserazione dei cosiddetti profughi». I bambini spesso muoiono. «Converrà con me», dice Antonio Ciraci, «che i rifugiati che stanno attraversando l’Ungheria sono ben diversi dai rifugiati in Italia».
Non è vero. Ma qualche preoccupazione sull’altissimo numero di stranieri che non hanno ottenuto asilo è fondata. La loro percentuale sul totale delle persone sbarcate è passata dal 29 per cento del 2013 al 50 per cento attuale. L’aumento dei respingimenti è legato all’arrivo di un maggior numero di cittadini africani da Paesi devastati dalla crisi economica permanente, ma non da guerre o dittature ufficialmente riconosciute dalle commissioni di valutazione. Sono ragazzi giovanissimi e costituiscono quella generazione con scarsa preparazione scolastica e nessuna formazione professionale che la Germania, la Francia, la Svezia rifiutano.
Significa così che la metà di quanti sono sbarcati negli ultimi mesi e continuano a sbarcare non riceverà nessun documento, se non il foglio di via: il ministero dell’Interno stima che, concluso il ciclo dei ricorsi ai tribunali amministrativi e al Consiglio di Stato da parte dei respinti, già quest’anno trentacinquemila persone ospitate tra il 2013 e il 2014 diventeranno clandestine. Mantenendo queste percentuali, a loro si aggiungerà la metà degli oltre centomila richiedenti asilo sbarcati quest’anno e così via. Scenario reso ancor più incerto dai numeri ereditati dalla precedente “Emergenza Nord Africa” e dai permessi di soggiorno nel frattempo scaduti e mai più rinnovati: oltre 262mila nel 2011, 166mila nel 2012, 145mila nel 2013 secondo l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali istituito dalla Presidenza del Consiglio, che nell’ultimo rapporto annuale ammette: «Non è dato sapere, tra gli immigrati non comunitari i cui permessi di soggiorno sono scaduti senza essere rinnovati, quanti si siano trattenuti in Italia».
Eppure nei Paesi da cui proviene o transita gran parte dei richiedenti asilo africani, come Gambia, Mali e Niger, l’Italia non ha nemmeno un ambasciatore che la rappresenti. E senza rapporti internazionali è impensabile tentare di rallentare le partenze, formare i futuri immigrati, rimpatriare chi non ha diritto all’asilo. Il piano, che in questi giorni ci viene chiesto anche dalla Commissione europea per poter accedere allo smistamento dei profughi tra gli Stati membri, semplicemente non esiste.
Torniamo in Veneto. Fabio Brasiliani, portavoce del comitato contro i profughi a Due Carrare, venti chilometri da Padova, annuncia che due africani arrivati in paese sono stati trovati positivi all’epatite B. Mostra perfino il referto medico di uno dei due, un ragazzo di 20 anni, che soltanto lui sa come ha avuto in violazione di ogni norma sulla privacy. Brasiliani però dimentica di spiegare che, come i due profughi, almeno 75 mila venetissimi concittadini sono portatori cronici della stessa forma di epatite: secondo le pubblicazioni dell’Istituto superiore di sanità, l’incidenza nella popolazione italiana è infatti dell’1,5 per cento. Lo scopo è tenere alta la tensione. Ricordate il muro di via Anelli a Padova? Quella barriera di ferro fatta costruire nel 2006 dall’allora sindaco di centrosinistra Flavio Zanonato per separare il quartiere degli immigrati dalle villette a schiera dei veneti.
Via Anelli, il quartiere fantasma di Padova
Sgomberarono tutti i palazzi per cacciare gli spacciatori, anche se alcuni stranieri erano proprietari della loro casa. Partito Zanonato, promosso ministro, in città ha vinto la Lega. Ma quei condomini dopo quasi dieci anni sono ancora vuoti: cento appartamenti abbandonati, diventati covo di ratti, piccioni e zanzare. «Chiamiamo, chiamiamo in Comune, ma non vengono più nemmeno a tagliare l’erba», protestano Gianni Borille e Pietro Minin, pensionati. E la casa agli italiani? Solo uno slogan.
Joseph Giuseppe, l’aiuto cuoco del Togo da venticinque anni in Italia, se ne sta seduto su una panchina del Giardino Cavalleggeri, centro di Padova. È il suo giorno libero. Osserva due ragazze e tre ragazzi nigeriani, giovanissimi, arrivati da poche settimane. Loro dormono nella caserma Prandina, qui accanto, trasformata in centro d’accoglienza. Si fotografano a turno con il telefonino e caricano gli scatti su Facebook, così gli amici in Nigeria vedranno dove sono arrivati. Risaltano le Nike nuovissime ai piedi di uno di loro. «È una vergogna per l’Europa e per l’Africa. Guarda questi ragazzi», dice Joseph: «Partono senza saper fare un lavoro. Si preoccupano di avere un paio di Nike, il telefonino. Ma nessuno sa, nemmeno loro, cosa faranno tra un anno. Intanto mettono le foto su Facebook, dicono che si sta bene e anche i loro amici partono. Quelli che arrivano dai Paesi dove non ci sono guerre vanno fermati e, se possibile, rimandati indietro. Nessuno di loro da qui racconterà agli amici che hanno lasciato la sofferenza in Africa per venire a soffrire in Europa».
Per caso, le piace Salvini? «No, per niente. Con lui si sa da dove si comincia, non dove si finisce. È un coltello a due lame. Ma i governi europei devono fare pressioni sui governi africani per fermare l’emigrazione, prima che sia troppo tardi». Stasera Salvini incontra i leghisti vicino a Padova, le va di andarlo a sentire? «No, se succede qualcosa a lui finisce che mi denunciano e perdo il permesso di lavoro». Ma perché? Andiamo insieme. «Perché sono nero e ho paura».