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L'ESPRESSO

l'Espresso
17 07 2015

Una diffida delirante che prende di mira la riforma della scuola e lo spauracchio della teoria gender per difendere i bambini da «danni psicologici irreparabili».

Si chiama “Linea guida per i genitori” e contiene queste indicazioni: «Non firmare il patto di corresponsabilità educativo e leggere se il piano della offerta formativa contiene parole come educazione al rispetto delle diversità o educazione di genere o educazione sessuale (parole usate per non dire gender, ma che significano proprio quello), e se lo contiene vuol dire che i vostri figli saranno istigati all'omosessualità, che saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla, che potrebbero essere obbligati ad assistere a proiezioni di filmati pornografici, fino ad arrivare a correre il rischio di sentirsi obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso».

A diffonderlo è il gruppo La Manif Pour Tous insieme alla onlus antiabortista Pro-vita: formata da genitori e docenti si propone di difendere la vita fin dal concepimento e il matrimonio come unica unione tra uomo e donna.

Le due sigle sono tra gli organizzatori del family day del 20 giugno a Roma, mobilitati contro l’adozione da parte di coppie omosessuali, la fecondazione eterologa, le unioni civili e soprattutto i disegni di legge Scalfarotto e Cirinnà. Gli slogan erano in bella mostra sul palco: «Stop utero in affitto, stop gender, stop ddl Cirinnà».

E poi un attacco al mondo dell’istruzione dove faticosamente si cerca di introdurre l’educazione all’uguaglianza e alla parità di genere per fermare le discriminazioni e la spirale del femminicidio.

Fumo negli occhi per l’ala conservatrice del mondo cattolico che dalla piazza ha respinto con veemenza ogni piccolo passo verso la modernità: “Sterco del demonio, si vogliono insegnare giochi erotici ai bambini dell’asilo”.

A scatenare la reazione furiosa è il comma 16 della riforma del governo Renzi che ha “inglobato” il disegno di legge presentato dalla senatrice Pd Valeria Fedeli e che invece punta a prevenire la violenza di genere e le discriminazioni.

«Dal mondo cattolico non mi aspettavo una reazione così violenta, senza interlocuzione. Ma soprattutto dicono delle cose non vere», commenta la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli: «Con la Buona scuola e l’offerta formativa vogliamo l’educazione alla parità e l’introduzione nei vari livelli di istruzione della parità tra uomo e donna per superare stereotipi e discriminazioni di ogni genere. Prendono di mira la scuola ma nelle classi dobbiamo puntare su formazione e informazione e non opinioni strampalate».
E invece con la diffida si alimenta un crescendo di paure, allarmismi e facilonerie: «L’istigazione all’omosessualità, la masturbazione precoce e i rapporti carnali sono già accaduti nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!».

Vale la pena leggere altri passaggi del fac-simile da inviare entro l’estate via raccomandata: «I genitori diffidano il dirigente scolastico, gli insegnanti o qualunque altro soggetto a ciò incaricato, dall’effettuare lezioni basate su ideologie di genere o “gender”, senza l’autorizzazione e il consenso scritto da parte degli scriventi genitori.

Qualora dovesse accadere che nostro figlio sia coinvolto in qualsiasi tipologia di lezioni che potrebbe ledere la sensibilità del minore, i sottoscritti si attiveranno immediatamente per sporgere denuncia presso l’Autorità competente al fine di far cessare detta attività, per richiedere l’adozione degli opportuni provvedimenti nei confronti degli autori materiali delle suddette condotte e nei confronti di coloro i quali consentono lo svolgimento delle lezioni in questione, ed infine per richiedere a tutti i soggetti sopra descritti il risarcimento per i danni morali patiti dal minore».

Paure e caccia alle streghe che hanno alimentato anche la protesta in aula al momento dell’approvazione della buona scuola e le rassicurazioni del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini all’ala dei duri e puri di Ncd e Lega Nord impegnati nella difesa della famiglia.

«Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di Satana», recitava lo striscione srotolato dalla Lega Nord in aula per protestare contro l'introduzione prevista dalla riforma della scuola del duo Giannini-Renzi.

Il più accanito è Stefano Candiani‬, senatore del Carroccio che non risparmia critiche: «È vergognoso che in questa riforma non si parli di famiglia - l'unica che per altro esiste - e di educazione ma di assurde e malsane teorie. Mi chiedo con che faccia i senatori del Nuovo Centro Destra scendano in piazza e blaterino di tradizione e famiglia quando alla prova dei fatti svendono i nostri valori in cambio della poltrona di Alfano».

Michele Sasso

la Repubblica
16 07 2015

Il medico di Crocetta al telefono: la Borsellino va fatta fuori come suo padre. Renzi le telefona: "Solidale con lei"

Lucia Borsellino «va fatta fuori. Come suo padre». Ovvero come Paolo Borsellino, il giudice assassinato il 19 luglio 1992. Le parole, di impatto potentissimo, sarebbero state intercettate pochi mesi fa. A pronunciarle – secondo quanto rivela l’Espresso in un’anticipazione - non sarebbe stato un capomafia, ma il medico personale di medico di Crocetta: Matteo Tutino, primario dell’ospedale palermitano Villa Sofia, arrestato nei giorni scorsi per truffa, falso e peculato. All’altro capo del telefono c’è proprio il governatore della Sicilia Rosario Crocetta, che – a quanto riferisce l’Espresso - ascolta e tace. Nessuna reazione di fronte a quel commento macabro nei confronti dell’assessore della sua giunta, scelto come simbolo di legalità in un settore da sempre culla di interessi mafiosi. Nei giorni scorsi le voci di una intercettazione shock erano circolate con insistenza, giungendo all’orecchio della stessa Borsellino, che si è dimessa dal ruolo di assessore alla Salute all’indomani dell’arresto di Turino. Dicendo, in un'intervista a Repubblica, che in dissenso nei riguardi dell'antimafia di facciata non avrebbe partecipato alle cerimonie per la commemorazione della strage di via d'Amelio.

Crocetta nega di aver sentito. Ma Crocetta dice di non aver mai sentito quella frase: "Giuro di non averla mai udita, forse ero in viaggio, in autostrada, in una zona d'ombra. Ma se l'avessi sentita davvero avrei reagito come un dannato, avrei tolto la parola a Tutino. Lui parlava male della Borsellino, è vero, ma ripeto non l'ho sentito dire quella frase. Purtroppo - conclude il presidente - siamo tutti vittime delle telefonate altrui", Basterà questa precisazione a placare il ciclone in arrivo alla vigilia delle commemorazioni del 19 luglio?

Il commento gelido dell'ex assessore. Lucia Borsellino commenta la frase ai microfoni del Gr di Rai Sicilia: "Mi sento intimamente offesa e provo un senso di vergogna per loro". Sulla giustificazione data da Crocetta ha risposto glaciale: "Non spetta a me fare commenti al riguardo". Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo e punto di riferimento del movimento "Agende Rosse" attacca: "Quelle intercettazioni tra il medico di Crocetta e lo stesso Presidente in cui Matteo Tutino dice che bisognerebbe fare fuori mia nipote Lucia sono semplicemente gravissime, incredibili e vergognose". "Lui non dice che bisogna farla fuori dall'assessorato ma che bisogna farla fuori come suo padre - dice Salvatore Borsellino - e siccome mi risulta che suo padre è stato ucciso in maniera particolare, è gravissimo. E non perché l'abbia detto Tutino ma perché il presidente Crocetta non l'ha mai reso noto, né ha estromesso Tutino dal suo entourage. Io chiederò conto a Crocetta di questo". Quando viene a sapere che Crocetta sostiene di non avere mai sentito quella frase, replica: "Vuol dire che è stato colpito da una sordità improvvisa e temporanea...". "Fare fuori Lucia come suo padre significa solo una cosa- dice - e trovo assurdo che Crocetta non ne abbia tratto le necessarie conseguenze. Gliene chiederò conto".

La telefonata di Matteo Renzi. La giunta Crocetta traballa come non mai. Anche il premier Matteo Renzi, stamattina, ha telefonato a Lucia Borsellino per esprimerle solidarietà. Un gesto che, com'è evidente, ha anche un valore politico, visto che uno dei due interlocutori della conversazione incriminata sarebbe stato Crocetta. Ovvero un presidente della Regione del Pd. Fonti di Palazzo Chigi sottolineano che la chiamata a Lucia Borsellino è stata "la prima telefonata della giornata del premier".
La chiama anche Alfano. Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha chiamato Lucia Borsellino per esprimerle "sdegno, affettuosa vicinanza e solidarietà per quelle parole che pesano in modo gravissimo e incancellabile sulla coscienza di chi le ha pronunciate". Il ministro Alfano auspica che sia vero quanto affermato dal Presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, e cioè che non ha sentito la "irripetibile frase pronunciata dal suo medico" sull'ex assessore alla Sanità.

Il Pd chiede le dimissioni. Il sottosegretario Davide Faraone non ha dubbi: "Inevitabili dimissioni Crocetta e nuove elezioni. Quelle parole su Lucia Borsellino una vergogna inaccettabile". Nel Pd si apre il fronte che porta alle dimissioni del governatore.
Il nuovo assessore: "licenziare Tutino". Il neo assessore alla Salute Baldo Gucciardi, intanto, chiede il licenziamento di Tutino: "Pur nell'assoluto rispettodelle indagini dell'autorità giudiziaria, è di tutta evidenza che le parole pronunciate dal dottor Tutino e riportate oggi da organi di stampa lo rendono, fra l'altro, incompatibile con qualsiasi rapporto giuridico e professionale con un'Azienda sanitaria pubblica. Il direttore generale dell'Azienda Villa Sofia-Cervello svolga le tempestive verifiche del caso - dice Gucciardi - e ponga immediatamente in essere i provvedimenti consequenziali".

Emanuele Lauria

Partorire in Italia, che avventura

  • Lug 09, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 7493 volte

l'Espresso
09 07 2015

Dopo, quando si torna a casa e negli anni che seguono, il parto diventa 'il racconto dei racconti': c'è chi minimizza, chi senza saperlo passa alle amiche, future madri, qualche pillola di saggezza, chi infine, talvolta senza rendersene conto e talvolta invece con totale consapevolezza, ha vissuto un ordinario caso di malasanità. Una pluralità di voci su un evento che è al tempo stesso intimo e 'pubblico', ovvero rilevante per tutto il corpo sociale in un Paese che, lo dicono le statistiche più recenti, è in pieno crollo demografico e registra il tasso più basso di natalità dai tempi della prima guerra mondiale. Su questa pluralità di voci e dalle statistiche sanitarie sui parti, i tagli cesarei regione per regione e in generale sulla maternità ospedalizzata Rossana Campisi ha costruito il suo 'Partorirai con dolore' (Rizzoli, pp. 235, euro 14).

Senza la distanza del saggio 'classico', senza giudizi dall'alto ma inanellando pagina dopo pagina i racconti di molte madri, ognuna delle quali racconta un'esperienza diversa, Campisi fa un panorama di cosa significa diventare madri in Italia: nelle città del Nord e in quelle del Sud, nelle cliniche private e negli ospedali pubblici, ma anche in casa. Le storie sono le più diverse: da chi, spinta da madre suocera e ginecologa si è fatta chiudere le tube dopo il terzo parto e si è depressa, a chi ha rischiato la vita per un antibiotico non somministrato, a chi ha rifiutato l'epidurale perché era orgogliosa di quel 'dolore' unico del parto. Qui vi proponiamo alcuni brani del libro. Che, se non dà ricette, offre però una strada a chi sta per diventare madre: affrontare la maternità sentendosi padrone di se stesse e del proprio corpo, saperlo ascoltare, non aver paura di chiedere. Perché lo sviluppo di un Paese passa dalla cura che ha dei suoi figli e delle sue madri. E in molti luoghi d'Italia, e in molte menti, il rispetto per la maternità è solo una frase vuota.

Amalia, che si è salvata
Amalia Adocchio ha mollato tutto per mettere su famiglia, ai tempi. Ha lasciato il lavoro, ovvio. Adesso fa cure ormonali da cinque anni perché vuole essere mamma per la terza volta. Sembra aver dimenticato tutto del suo ultimo parto. E tutto significa paura e dolore. Una soluzione però sembra che non ci sia: ha un utero completamente assottigliato per via dei raschiamenti che ha subìto. Ma Amalia non la fermi. Per entrambi i parti ha scelto l’ospedale Buzzi di Milano, dove lavorava il suo ginecologo e dove la cugina si era trovata bene: un classico. Ha pagato ogni trenta giorni una visita ginecologica perché il medico le diceva: «Ci vediamo tra un mese». «Il primo è stato indotto, ricordo una violenza e un dolore ingestibili, anche perché mica lo conosci quel dolore. In due ore è nata Ludovica, poi mi hanno fatto l’anestesia totale per fare il raschiamento ed espellere la placenta. Per il secondo parto, il mio medico aveva sottovalutato questa mancata espulsione. Era domenica. Il mio ginecologo non c’era. Quello di turno neanche. Ne chiamano uno dal pronto soccorso che manda via mio marito, mi fa l’anestesia e usa di nuovo l’ossitocina. Con la tecnica del “secondamento manuale” ha tirato via la placenta. Senza fare l’ecografia, cioè fidandosi della sua mano. Peccato che la placenta tirata fuori non era integra. Nella cartella Donne in seconda linea 205 scrive “parzialmente integra”. Non cerca di togliere il resto, ma chiude e via. Siamo in sala parto, tutt’altro che sterile; il reparto di Terapia intensiva per la donna è in ristrutturazione. Non mi prescrive nessun antibiotico. Sembravamo accampati. Resto una notte lì dentro. Arriva la setticemia. La febbre a 41 che scambiano per montata lattea. Poi altri due raschiamenti. Nell’ultimo mi sveglio, sento la gente che urla. L’utero si era rotto a furia di raschiare e c’era un’emorragia in corso. Chiedo all’anestesista e mi dice: “Le stiamo salvando la vita”. Coperta termica, cinque sacche di sangue. Mi salvo.»

Costanza, un trauma per la vita
«Sono rimasta incinta senza programmare nulla. Una gravidanza perfetta. Verso la fine, sono arrivate le domande degli altri. “Dove vai a partorire?” Io rispondevo: “Vicino a casa mia, perché?”. Ho scelto il S. Maria alla Gruccia di Montevarchi, in provincia di Arezzo. Sapevo che non facevano l’anestesia perché l’anestesista non è disponibile h24. Stavo così bene che la cosa non mi turbava. Potevo partorire nel bosco. L’ho fatto invece in un ospedale dopo venti ore di travaglio e di abbandono totale in un letto. Ho urlato tantissimo. Alla fine avevo accanto solo il mio compagno e l’ostetrica che diceva: “Spingi!”. Non ho mai ricevuto una puntura di ossitocina, né un farmaco, solo una flebo con soluzione di glucosio perché a un certo punto sono svenuta. Ho visto il medico solo al mattino, alle quattro del pomeriggio mi ha visitato e mi ha salutato così: “Ehm, un po’ lenta!”. Per accelerare la dilatazione sono andata in una vasca di acqua calda che, dopo poco, è diventata rossa. Color sangue. Se chiedi di non voler partorire naturalmente ti guardano malissimo, ti dicono che puoi danneggiare il bambino, che è un controsenso voler fare l’epidurale e poi voler allattare. Era come se mi lamentassi del freddo nel freddo o del caldo nel caldo. La bambina che stava per nascere era sana e quindi non aveva senso che protestassi. Io ero poco informata su tutto, lo ammetto. Ma non potevo credere che fosse quella l’unica strada. Che senso ha che al corso preparto ti parlino di come la coppia dovrà accogliere un figlio senza però darti alcuna informazione medica per affrontare come donna quel momento con consapevolezza? L’unico messaggio che passa è: devi accettare tutto ciò che accade, tranquilla che non farà male. Io, a un certo punto, mi sono sentita morire. Mi aggrappavo a tutto. Gridavo aiuto. Le ostetriche passavano, si accertavano che fossi in travaglio, e se ne andavano. Il cesareo me lo avrebbero fatto solo se avessi rischiato davvero la vita. Un dolore così non penso di poterlo sopportare mai più in vita mia.

Isabella, la mamma controcorrente
Alcune mamme però vanno spedite. Seguono il buon senso, vanno controcorrente. Come Isabella. «Non mangiare prosciutto e verdure crude non è un luogo comune, ma una semplice pratica di prevenzione che ho seguito anche io. Giusto il minimo indispensabile, sia chiaro. Per il resto, non ho mai comprato omogeneizzati né omogeneizzatori. Mai liquidi per disinfettare, basta l’acqua bollente; né detergenti specifici, meglio il vecchio caro sapone di casa; né prodotti supercontrollati, i cibi per lo svezzamento venivano dall’orto o dal verduraio bio. Il mio bambino non ha mai avuto allergie o altri problemi. I vaccini li ho fatti fare, ma adesso che ho approfondito la cosa mi chiedo se ho fatto bene. Un bambino puoi crescerlo con poco. Anche senza cadere nella trappola del business. Io vivevo in quarantasei metri quadri a Milano quando è nato Filippo, e non ho comprato né fasciatoio né seggiolone né vaschetta per il bagno né ovetto né sdraio né palestrina. Niente di niente. Un anno passa in fretta e i bambini si stancano di tutto quello che gli proponi. Ce la siamo cavata con pochissimo. Abbiamo riciclato i vestiti dei cuginetti e degli amici. Piuttosto che comprare tanta biancheria, facevo qualche lavatrice in più. Persino il piumone l’ho ricavato da una vecchia trapunta piegata in due. Se vuoi puoi spendere zero per crescere un bambino. È semplice buon senso. Quei soldi
ti serviranno di più quando crescerà.»

Acqua, cannella e una matrona: è solo un’isola (spagnola)
Rosanna Limatola ha trentacinque anni e origini ternane. Da dieci vive a La Palma, un’isola dell’arcipelago delle Canarie, dove lavora in un’azienda ed è mamma di Edoardo e Agata. Il capitolo “parto” non le risveglia alcun brutto ricordo. Anzi. Ogni mese delle sue gravidanze ha fatto i controlli di pressione, peso e battito cardiaco del bambino. Tutto gratuito. Tutto sempre con una matrona, un’infermiera specializzata. Altro che medico. Se è uomo si chiama matron. Il nono mese si fa il corso preparto al Centro di salute a cui ogni donna appartiene, e qui trova medico di base, pediatra e la matrona che poi la seguirà in sala parto. Epidurale? No, grazie. Ma non per scelta, solo per consuetudine. «A pensarci oggi, è stato meraviglioso» dice. «Per come ce la presentano, l’analgesia sembra uno svantaggio. Non puoi spingere, e facilitare quindi l’espulsione, si deve ricorrere magari all’uso del forcipe o della ventosa. Sono due paroline magiche. Quando le senti, trovi la forza all’improvviso. Ma poi qui l’epidurale è arrivata nel 2011. Oggi la sceglie solo il 16% delle mamme. Non è neanche facile averla, perché deve essere presente il personale che la sappia fare. Ai corsi preparto te la vendono così: il parto è l’unico dolore col premio finale. Ma poi fanno di tutto per aiutarti. Ricordo che poco prima di iniettarmi l’ossitocina, la matrona è entrata in sala parto con un bambino appena nato e mi ha detto: “Proverai dolore, ma tra poco avrai lui tra le braccia”. Ho rinunciato all’ossitocina e ce l’ho fatta da sola. Lei non mi conosceva, ma sapeva che con quella tecnica ottiene da tutte quel che vuole. Ancora adesso, il solo ricordo mi emoziona.

I brani sono tratti da 'Partorirai con dolore' di Rossana Campisi (Rizzoli)

Lara Crinò

Radicali: cosa fare per includere i Rom

  • Lug 09, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6711 volte

l'Espresso
09 07 2015

Iniziare dalle persone rom, dai singoli individui e cittadini, deponendo i provvedimenti adottati per categoria e disarticolando un'idea di rappresentanza che si è ormai dimostrata inutile; partire dalle specifiche necessità, competenze e aspirazioni per elaborare percorsi di inclusione diversi da persona a persona. Questo è il cuore della proposta per il superamento dei campi rom contenuta nelle delibere di iniziativa popolare "Accogliamoci": un cambio di prospettiva radicale rispetto a decenni di politiche inefficaci perché destinate a un gruppo indistinto, come se "i rom" fossero un corpo monolitico e non un insieme di individui, ciascuno con la propria singolarità. Del resto è proprio su questa semplicistica idea di categoria, sia pure declinata in una direzione diversa, che hanno fatto leva i peggiori pregiudizi, quelli che tuttora attraversano dolorosamente il paese: i rom che rubano, che non vogliono lavorare, che non vogliono integrarsi, che sono culturalmente diversi dagli altri.

È possibile rispondere a quei pregiudizi, è ragionevole pensare di affrontarli e disinnescarli utilizzando la loro stessa prospettiva? È ipotizzabile venirne a capo continuando a riferirsi genericamente ai rom, anziché spostare lo sguardo sulle singole persone?

Evidentemente no. Il fallimento delle politiche degli ultimi decenni sta tutto qua: nel voler fronteggiare una questione che riguarda qualche migliaio di individui muovendosi tra le due deformazioni del pregiudizio verso un gruppo etnico e dell'illusione di poterlo rappresentare nella sua totalità, azzerando le differenze, spesso assai rilevanti, che lo attraversano. Il risultato, per ora, nella sola città di Roma, è di 25 milioni di euro l'anno di spesa, con gli effetti che tutti conosciamo.

Quello che allora serve è un cambio di prospettiva difficile da accettare e forse perfino da comprendere, per chi fino ad oggi ha vissuto e ha ragionato, in un modo o nell'altro, nell'ottica del gruppo: eppure è indispensabile, se si ha davvero l'ambizione di restituire ai rom, alle singole persone rom, la qualifica di individui e cittadini che dovrebbe spettare loro come spetta a chiunque altro; se ai rom, finalmente, si vuole dare voce davvero, al di là della necessità di salvaguardare un patrimonio culturale che può restare intatto anche nella valorizzazione dell'individualità, e che anzi proprio grazie a quella valorizzazione potrebbe finalmente mettersi al riparo dal degrado e dalla marginalità, sopravvivendo invece di scomparire: inclusione senza tentativi di assimilazione.

Superare i campi rom superando la segregazione, da chiunque essa venga promossa e malgrado le sue intenzioni, attraverso un'indagine conoscitiva sulla situazione di ogni singolo nucleo familiare e l'implementazione di un piano di inclusione sociale, abitativa e scolastica con tempi stabiliti e monitorati, utilizzando i finanziamenti europei per finanziare i progetti abitativi non soltanto dei rom, ma anche degli altri cittadini. Ecco come si può fare. Un cambio di prospettiva e un modello che in altri Paesi, come ad esempio la Spagna, hanno funzionato. A Madrid, nel 2007, vivevano circa 70.000 persone rom, di cui 12.000 nei campi: a partire dal 2011 il Comune ha deciso di chiudere i campi e di investire in educazione e formazione, diventando in pochi anni un modello in tutta Europa. Finora sono stati chiusi 110 insediamenti e 9.000 persone hanno avuto accesso ad alloggi e a percorsi di integrazione. L'obiettivo è chiudere definitivamente tutti i campi entro il 2017.

Tutti i progetti sono stati finanziati con fondi europei destinati all’integrazione dei cittadini rom: ma il nostro paese non ha mai fatto richiesta di quei fondi, preferendo sperperare milioni di euro per la politica di segregazione nei campi. Sarebbe il caso di cambiare prospettiva, anche qua.

Alessandro Capriccioli

* Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma è membro comitato promotore di Accogliamoci”, un'iniziativa promossa da Radicali Roma, Associazione 21 luglio, A buon diritto, Arci Roma, Cild, Possibile,Un ponte per, Zalab, Asgi.

Se Instagram censura la foto anti-cancro

  • Lug 03, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 7607 volte

l'Espresso
03 07 2015

Guardate questa foto suggestiva. Viene dal “Pride 2015” di New York. La più grande festa di orgoglio LGBT di sempre. Sarà che solo due giorni prima la Corte suprema statunitense aveva stabilito che il matrimonio è un diritto garantito dalla Costituzione anche per le coppie omosessuali. Una decisione storica che aveva fatto subito il giro del mondo, grazie all’istantaneità della Rete e all’hashtag virale “LoveWins”.

Il giorno dopo, Facebook e tutti gli altri principali social network avevano sposato la svolta epocale, con layout ad hoc o consentendo agli utenti di personalizzare la propria immagine del profilo col filtro “arcobaleno”, da quarant’anni simbolo delle comunità gay, lesbiche, bisessuali e transgender. L’iniziativa era stata salutata con entusiasmo da tanti (“sentinelle in piedi” escluse). Una “bella lezione di civiltà”. 2.0.

Guardate bene questa foto. L’ha scattata, al Pride di NYC, Claudia Ferri, fotografa di scena di Offline, un nuovo programma televisivo che andrà in onda da giovedì 16 luglio alle 23.30 su Rai 2 e che parlerà di culture e “fenomenologie social”. Raffigura due donne coi seni asportati. Hanno subito entrambe una delicata operazione di mastectomia totale. Vittime del cancro al seno, e di una delle sue forme più virulente. Eppure sorridono, mostrando con orgoglio le proprie cicatrici. L’orgoglio LGBT che si mescola al coraggio di non voler soccombere alla malattia. Sul torace della ragazza bionda campeggia la scritta viola “Fuck Cancer”. Lo scatto commuove, fa riflettere con leggerezza e dà corpo e voce alla battaglia senza quartiere contro il più diffuso tumore femminile. Dice più di mille opuscoli sulla prevenzione. Trasuda purezza e forza d’animo. Non suscita pruriti o bassi istinti para-pornografici.

“Ho pubblicato la foto su Instagram e poi l’ho condivisa su Facebook, sul mio profilo e sulla pagina di “Offline" ci racconta Claudia Ferri "Quando ho rifatto l’accesso a Instagram, mi è arrivata la comunicazione che era stata eliminata. Nel frattempo era stata “bannata” anche da Facebook. Sono rimasta di stucco. Il motivo della censura? La foto non era conforme agli standard dell’applicazione”. Un po’ l’equivalente social dell’ “oltraggio al comune senso del pudore”.

Claudia ha protestato: “Avete rimosso un’immagine positiva a favore della lotta contro il cancro al seno. Complimenti! Mi sforzo, mi scervello ma proprio non riesco a capire cosa ci sia di scandaloso in questa foto. È questa la nuova libertà?”. Subito dopo ha ricondiviso la foto “incriminata” su Facebook, e come lei hanno fatto anche altri, e a sua volta qualcuno di loro ha ricevuto una segnalazione per “contenuti inappropriati”.

Negli ultimi tempi Instagram, la più popolare app di condivisione immagini (dal 2012 è di proprietà di Facebook), sta conducendo una crociata contro gli scatti e i contenuti osé o esplicitamente erotici. A pagarne le conseguenze anche celebrities come Madonna e Rihanna. Eppure basta farsi un giro di smartphone per trovarci di tutto, sia su Instagram che sulla casa-madre Facebook. Escort, hashtag scopertamente sessuali, devianze e parafilie varie, elogi a Sara Tommasi&Andrea Diprè (840 mila mipiace su Fb quest’ultimo), autori del video e “hit”, da bassissimo impero “Nel mio privè” (ritornello: “vieni anche tu, nel mio privé/coca e mignotte, anche per te”).

Senza dimenticare il proliferare inesauribile di bufale, sarabande nazi-fascistoidi e insulti al comune senso del buon gusto, e dell’intelligenza. “Facile e anche un po’ ipocrita, poi, una tantum, travestirsi d’arcobaleno” commenta Alice Lizza, conduttrice di Offline, la trasmissione tv (dal 16 luglio in seconda serata su Rai2) in cui saranno trasmessi i filmati originali censurati. Offline ha girato gli States, l’Europa e l’Italia per intervistare, tra gli altri, Zach King (“l’illusionista di Vine”), David LaChapelle, Milo Manara, Paul Budnitz (inventore del social alternativo Ello), l’artista Vanessa Beecroft, Sebastian Chan (l’uomo che sta rivoluzionando i musei rendendoli “usb friendly”), Lorenzo Thione (l’italiano che ha creato il motore di ricerca Bing), Tanino Liberatore, Maccio Capatonda, Caparezza e Linus. Quattro puntate che racconteranno come la società e le interazioni umane stanno cambiando per effetto delle reti sociali che corrono su Internet. Un viaggio intorno ai nuovi modi di vivere nell’era dei social network e del full-time online. Una navigazione fisica nel mondo del progresso, o presunto tale.

Maurizio Di Fazio
Foto di Claudia Ferri

Migranti, la lezione della Catalogna

  • Lug 01, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6213 volte

L’Espresso
01 07 2015

“Siamo interessati a partecipare. Vorremmo che lo Stato spagnolo ci chiamasse e concordasse con noi un piano d'azione. Perché con i fondi europei, gli aiuti statali, e i risparmi regionali, potremmo fare molto di più per i rifugiati». Così Xavier Bosch, direttore generale per l'Immigrazione della Catalogna ha risposto alle domande di Europa Press a proposito dell'opposizione di Madrid al programma dell'Agenda europea che prevede la divisione in "quote" a seconda dei paesi di 40mila profughi nei prossimi due anni.

«Parlare di quote significa trattare le persone come merci», ha puntualizzato Bosch, ma di certo Madrid «è stata troppo restrittiva» dal momento che la Spagna ad oggi ha accettato molti meno richiedenti asilo di quanto non abbiano fatto paesi come la Germania.

Secondo Bosch sia le leggi spagnole che quelle della regione autonoma catalana permetterebbero al paese di accettare molte più persone, ma il governo di Mariano Rajoy non avrebbe preso in considerazione la disponibilità dimostrata dalle istituzioni della Catalogna.

«L'ospitalità dei rifugiati ha una ricaduta positiva nei paesi di accoglienza, e la Spagna non l'ha capito», ha ribadito Bosch, ricordando le migliaia di catalani esiliati in Messico dopo la guerra civile del 1939 e il loro contributo allo sviluppo del paese sudamericano.

Un messaggio anomalo, in controtendenza rispetto agli allarmi e alle paure espresse dai governi centrali nelle ultime settimane. Interessante soprattutto perché arriva dalla Catalogna, una regione autonoma e indipendentista, così come era la Padania della Lega Nord pre-Matteo Salvini. Ma con una sensibilità a quanto pare molto diversa ai problemi globali.

l'Espresso
25 06 2015

L’obiettivo è ambizioso: unire tutte le sigle, gli uomini, le forze e le storie di destra-destra di Milano per tentare la scalata a Palazzo Marino. L’occasione è la «festa del Sole» del prossimo week-end: due giorni alle porte della metropoli lombarda per trovarsi e discutere di strategie condivise.

Il sole è il «sole nero» di Julius Evola diventato simbolo e mistica dei nazisti e logo della «comunità militante dei dodici raggi», gruppo neonazista del varesotto , tra gli organizzatori del compleanno di Hitler lo scorso aprile .

«A pochi giorni dal solstizio d’estate perché questa data nel 1922 fu scelta da alcuni membri dei Freikorps per assassinare a Berlino il ministro ebreo della Repubblica di Weimar Walter Rathenau. I significati non mancano nella retorica neofascista: c’è il «Sole che sorgi libero e giocondo», l’inno musicato da Puccini diventato un simbolo del Ventennio fascista e i riti druidici della “Festa del Sole” di Stonehange» spiegano dall’osservatorio sulle nuove destre.

I padroni di casa sono i militanti di Lealtà e Azione che lo scorso 25 aprile, nel settantesimo anniversario della resistenza, si trovarono in trecentocinquanta con il vessillo con l’aquila argentea della Repubblica sociale italiana al campo 10 del Cimitero Maggiore, dove sono sepolti in mille tra caduti della Rsi e i volontari italiani delle Ss.

Un luogo simbolo per i fascisti del terzo millennio da onorare con bandiere, corone di fiori, saluto romano e commemorazioni che grondano di revisionismo.

«Quest’anno abbiamo voluto invitare persone con le quali in questi anni si è instaurato un rapporto personale – spiega il leader di Lealtà e Azione Fausto Marchetti- Persone con cui, al di là delle reciproche appartenenze, abbiamo condiviso una parte del nostro percorso di comunità in marcia: con alcuni magari perché un comune interesse ci ha spinto a fare qualche iniziativa insieme, con altri perché condividiamo un comune modo di sentire, di intendere la vita».

Ora tutti insieme si ritrovano leghisti, azzurri, ex missini e neofascisti. Tra gli invitati al convegno di venerdì «Quale futuro?» ecco Simone Di Stefano, vicepresidente di Casapound Italia e responsabile del progetto Sovranità.

Alle ultime elezioni come candidato governatore in Umbria ha raccolto un misero 0,66 per cento (appena 2.343 voti) ma il patto di ferro con Matteo Salvini e le proteste contro i migranti lo tengono sempre sulla cresta dell’onda mediatica.

Fianco a fianco con Carlo Fidanza, una lunga militanza in Azione Giovani, poi europarlamentare nella scorsa legislatura, e tra i fondatori di Fratelli d'Italia, il salviniano doc Igor Iezzi, consigliere comunale e segretario provinciale della Lega (fresco di patteggiamento per aver autenticato per le elezioni regionali del 2013 firme false per la Destra di Storace) e infine Giulio Gallera, consigliere regionale di Forza Italia e sottosegretario con delega ai rapporti con la città metropolitana del Pirellone.

Seduti attorno allo stesso tavolo con Guido Giraudo, già dirigente del Fuan, organizzatore dell’associazione Lorien e dei Campi Hobbit, cultore del “rock identitario” o “musica non conforme”, ossia dei concerti delle band di estrema destra che furoreggiano in Lombardia, e frequentatore dei riti di commemorazione dei gerarchi fascisti e repubblichini al Campo 62 del cimitero di Monza.

Padrone di casa Fausto Marchetti, capo degli ultras di destra delle Sab (Sempre al bar) della squadra di calcio del Monza e responsabile delle attività sociali di Lealtà azione.

Sullo sfondo l’accordo tra Silvio Berlusconi e il leader leghista Matteo Salvini che questa settimana a cena hanno trovato la sintesi politica: appoggio ad un leghista per la poltrona di sindaco e compattare il fronte della destra per replicare la vittoria in Liguria dove tutti insieme hanno sconfitto la candidata renziana Raffaella Paita.

I temi che aggregano non mancano: no allo straniero, No all’euro, No al governo Renzi, No alle moschee. No insomma ad ogni tentativo di trasformare la destra in una forza politica moderna.

Un fronte identitario che abbraccia il modello lepenista francese e fa leva sulla rabbia e la rivolta del popolo contro un nemico comune che toglie sempre qualcosa ai cittadini «puri»: la casa, il lavoro, la religione, la cultura e perfino le tradizioni culinarie.

Scaricando sull'Europa i mali della globalizzazione, l'impotenza della politica, le disuguaglianze sociali. Il sogno è combattere i nemici con la mano pesante: divisioni delle classi tra alunni stranieri e non, negazione dei diritti, zero welfare e rimpatri immediati per chi non è italiano.

Idee ricorrenti anche nei testi delle band che il giorno dopo (in una località segreta per evitare contestazioni) si ritroveranno per l’immancabile concerto nazirock: star sarà Norberto Scordo, ex giocatore di football americano, militante di Base Autonoma (sciolta nel 2001 secondo la legge Mancino per istigazione all’odio razziale), leader degli Hammerskin, condannato per l’aggressione del 1992 a due militanti del centro sociale Leoncavallo.

Sul palco anche i Testudo, Bullets, Malnatt con i testi che richiamano la terra nemica, il sistema anti-Stato, la rabbia, il coraggio, il mito dei legionari e la guerra come epopea di ardite gesta e tempi gloriosi.

Michele Sasso

l'Espresso
25 06 2015

«Nudi sì, ma contro la Dc. Nudi sì, ma contro la Dc!». Decine di migliaia di persone in piazza, un caos di corpi e bandiere, proteste, grida e striscioni. In mezzo alla folla ammassata sfilano ragazzi e ragazze completamente svestiti, allo slogan, appunto, di «Nudi sì, ma contro la Dc». È una delle immagini d'archivio forse più straordinarie raccolte dal regista Carmine Amoroso per “Porn to be free”, un documentario sulla controcultura pornografica degli anni '70.

Respinto da tutti i produttori italiani a cui si è rivolto, Amoroso ha deciso di pubblicare online il trailer del lavoro cercando sul Web, fra le persone, i finanziamenti necessari a completare l'opera. «Ci stiamo lavorando da tre anni», racconta a “l'Espresso”: «Non pensavamo di trovarci di fronte un sistema cinematografico così bigotto e pudico. Ci hanno quasi riso in faccia, quando abbiamo proposto il soggetto. Evidentemente la parola “porno” dà ancora fastidio. E non c'è più nemmeno la voglia di scandalizzare che ha permesso tante aperture in passato».

Porno. Orgiastico, radicale, ma soprattutto politico: è la pornografia che vuole raccontare Amoroso, mettendo insieme i pezzi di un immaginario che negli anni '70 ha saldato le battaglie per la liberazione sessuale alla lotta contro la censura. Scene hot e rivendicazioni politiche si intrecciano, nei film hard coi pantaloni a zampa come nei mega raduni pubblici di hippie presi dall'amarsi promiscuamente per spezzare le tradizioni sociali. Cicciolina e Moana diventano le paladine di un sogno collettivo che dà libero spazio all'erotismo e al sesso.

«Il documentario è la testimonianza di una rivoluzione persa», riflette il regista: «Di un mondo scomparso». Da una parte, infatti, la battaglia politica è stata sublimata dalla commercializzazione sfrenata, fino a YouPorn dal cellulare. Dall'altra parte la morale pubblica si è irrigidita, rinchiusa, dando spazio a un nuovo, ben piantato, bigottismo. «In Italia siamo fermi, culturalmente e socialmente», insiste Amoroso: «In Francia i Pacs esistono dagli anni '90: il secolo scorso. Da noi sembrano ancora un miraggio».

Nel lavoro di tre anni sul documentario, il regista ha potuto raccogliere tre “ultime interviste” di personaggi-chiave di quella stagione che sono mancati poco dopo. C'è Lasse Braun, «un mito della rivoluzione sessuale», dice Amoroso: «che fece promulgare nel 1969 la prima legge contro la censura in Danimarca». C'è l'ultima testimonianza di Judith Malina, fondatrice del Living Theatre, «che abbiamo incontrato in una casa di riposo del New Jersey», racconta il regista.

E poi, soprattutto, Riccardo Schicchi, il “re dell'hard italiano”, l'inventore di Cicciolina, Moana Pozzi ed Eva Henger, morto a dicembre del 2012. «Il termine pornostar non esisteva nemmeno prima di lui», racconta Amoroso: «Portò le porno-dive in Tv, lottando contro il costume dell'epoca». Schicchi, l'uomo però anche condannato per sfruttamento della prostituzione. «Non voglio entrare nella vicenda giudiziaria di Schicchi», risponde Amoroso: «Dico solo che lui fu attaccato in ogni modo per la sua attività. E quando ho avuto la possibilità di conoscerlo, per quell'intervista, mi sono trovato davanti un uomo colto e intelligente. Penso che il dialogo che abbiamo portato nel documentario si rivelerà anche per il pubblico molto toccante».

Per la pornografia underground sembra un momento di rinascita, questo, in Italia. Ci sono le Ragazze del porno , che stanno provando a raccontare il sesso hard da un punto di vista femminile . E poi questo documentario che glorifica l'epoca d'oro delle star sexy e delle orgie pubbliche e politiche. «Penso sia importante ricordare adesso quella stagione, perché in questo momento la libertà d'espressione conquistata in Occidente è sotto attacco», conclude Amoroso: «Penso a Charlie Hebdo e alle forze conservatrici che vorrebbero tacere alcuni dei linguaggi della nostra democrazia. Dobbiamo ricordare che la pornografia in molti paesi è ancora un reato. In Cina, per esempio, si rischia la pena di morte».

Ma non è solo la minaccia esterna a rinvigorire la censura anche della pornografia: «C'è anche la debolezza del discorso culturale italiano. Il porno vive ancora in un paradosso per cui è visto da tutti ma ugualmente negato, escluso dalla discussione. Mentre è importante come tante altre espressioni della contemporaneità».

Francesca Sironi

E Roma si scopre solidale (sul serio, non di facciata)

  • Giu 17, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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L'Espresso
17 06 2015

La chiamano ancora emergenza. Ma questa volta non si tratti di affari e paure, di scandali e decreti d'imperio, ma di un'onda positiva d'urgenza. È l' “Emergenza solidarietà ”, il nome con cui i romani hanno ribattezzato la corsa agli aiuti nei confronti dei profughi accampati nella Capitale. Oltre ogni aspettativa, la coda di persone che portano cibo, lenzuola, vestiti, saponi e generi di prima necessità continua, non si è nascosta al passar di telecamere. Nei punti di raccolta arrivano pensionati e famiglie a dare il loro contributo. Roma, che pensava di essere tramontata nei presidi anti-immigrati e negli scandali di Mafia Capitale, si riscopre solidale e unita. Affronta il populismo a forza di sacchetti pieni di cibarie e magliette, di cappellini e bevande.

Mentre a Ventimiglia i poliziotti arrivano a mettere le mani in faccia ai migranti per sgomberare il confine, alla Stazione Tiburtina c'è chi arriva con un camper colorato e dozzine di giochi per permettere ai bambini migranti di giocare. Indifferenti alle nuvole, i volontari raccolgono scatoloni di aiuti al Nuovo Cinema Palazzo in Piazza dei Sanniti al 9, e continueranno a farlo nei prossimi pomeriggi, in questo principio d'estate che si preannuncia carica si sbarchi, disperati e lotte alle frontiera.
Mentre Beppe Grillo, dal suo blog-riferimento del Movimento 5 Stelle, rilancia le fotografie scandalistiche di “Romafaschifo” contro «i bivacchi» e il «degrado» portato dai migranti bloccati in Italia vicino alle stazioni, rilanciando l'odio di chi teme «l'invasione», le volontarie della Croce Rossa e del centro Baobab di via Cupa raccontano allibite «la risposta enorme dei cittadini» che arrivano anche in Taxi per portare biscotti, scarpe, latte e vestiti.

La scena si ripete da ore che si son fatti giorni. Non è più quindi così facile liquidare l'onda di solidarietà come retorica, guardarla come una risposta automatica alle molle di giornali e Tv. No, sta continuando. «È il momento di atti concreti», scrive in un comunicato la “Libera repubblica” del quartiere San Lorenzo, che sta raccogliendo amuchina, pomate, piatti, posate, acqua e succhi ma anche pennarelli e giochi per bambini: «Una iniziativa per rispondere all’emergenza di questi giorni, ma anche l’avvio di una rete permanente della solidarietà a San Lorenzo: perché l’accoglienza non sia più emergenza».

La pensionata che porta i panini comprati da Mac Donald's. I pendolari che dicono di non aver visto niente. Le turiste arrivate per l'Expo che li cercano perché «Alla tv sembrava ci fosse un allarme, invece...». Ma anche chi dice che così si rovina la stazione. Ecco come la città osserva i richiedenti asilo accampati

Da Roma a Milano, sono le “Maria”, i “Mario”, i “Giovanni” a farsi avanti per dare una piccola mano, per mettere una piccola pezza al volto dell'odio da una parte (frontiere chiuse, dibattito infuocato in Europa, picchetti di Lega Nord e Casa Pound anti-immigrati) e degli affari dall'altra (come insegna Mafia Capitale). «La coda di macchine che scarica ogni genere di prima necessità davanti al centro Baobab, le domande di chi arriva con figli al seguito ‘servono turni in cucina?’», ha detto Marta Bonafoni, consigliera di Sel alla Regione Lazio dopo una giornata passata con la Croce Rosse in stazione: «È una prova di solidarietà e di maturità enorme quella che i romani e le romane stanno dimostrando in queste ore di emergenza profughi nella nostra città».

Messico, il mistero dei 43 ragazzi scomparsi

  • Giu 16, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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L’Espresso
16 06 2015

 

Le aspre montagne del Guerrero, a tre ore di pullman da Città del Messico, sono punteggiate di cactus, sentinelle minacciose sulla strada verso i campi di cannabis, papavero da oppio e fosse clandestine. Dopo il sequestro, il 26 settembre 2014, da parte della polizia municipale di Iguala, di 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, anche questo Stato - un tempo frequentato dal jet-set internazionale per la sua suggestiva costa e i locali di Acapulco - è entrato nella rosa dei più violenti e corrotti di tutta la Federazione messicana.

Quando, a un mese dal sequestro, il procuratore generale della Repubblica Jesus Murillo Karam rivelò che il sindaco di Iguala Luis Abarca, legato al cartello Guerrero Unidos, aveva ordinato alla polizia municipale di Iguala di attaccare gli studenti e consegnarli ai sicari del cartello, che li avrebbero bruciati in una discarica della zona, i periti argentini e i familiari dei sequestrati iniziarono a cercarne i resti. Ma nella spazzatura non c’erano. Si misero quindi a perlustrare i dintorni. Anziché quelle dei loro ragazzi, trovarono in fosse clandestine centinaia di ossa appartenenti a sconosciuti.

ANCORA OGGI LA FINE DEI 43 STUDENTI è avvolta nel mistero. Anche se pare chiaro il movente della loro sparizione: dare una lezione a quelle scuole dove si formano i futuri maestri rurali che sono considerate una fucina di marxismo in un Paese che ha scelto il liberismo sfrenato. Le ipotesi sul loro destino comunque sono tre: uccisi e sepolti; tenuti prigionieri nelle celle di sicurezza del 27esimo battaglione dell’esercito nei pressi di Iguala; segregati nei campi di papavero a lavorare come schiavi per i narcos. Si tratta di deduzioni plausibili, compresa quella che riguarda l’esercito. Il comportamento dei militari è stato quanto meno sospetto quella notte: non sono intervenuti quando gli studenti furono presi a fucilate dalla polizia municipale ma successivamente e solo per minacciare i sopravvissuti nell’ospedale di Iguala, inoltre non hanno permesso ai loro padri di entrare nella sede, respingendoli con violenza. Anche l’ipotesi della sepoltura clandestina è credibile. C’è un dato sconcertante che la sostiene: dal 2006 al 2014 in Messico sono scomparse ufficialmente 30mila persone, ma secondo le organizzazione non governative la cifra reale è di 200mila. Resta il fatto che il mandante è chiaramente lo Stato perché qualunque cosa sia accaduta ai 43, a sequestrarli, ed eventualmente a consegnarli ai narcos, è stata la polizia municipale, su mandato del sindaco di Iguala.

«L’esercito non è intervenuto per fermare gli agenti non solo per ammissione dello stesso Abarca ma per le telefonate divulgate dalla stampa indipendente da cui emerge che il 27esimo battaglione ha saputo in tempo reale cosa stesse accadendo. Lo Stato, nella figura del procuratore federale Murrillo Karam, ora ministro dell’agricoltura, ha prima cercato di minimizzare, poi ha tenuto una sbrigativa conferenza stampa in cui senza mostrare prove ha chiuso il caso accusando i narcos di aver bruciato i corpi e non ha risposto alle domande dei giornalisti pronunciando l’arrogante frase di commiato “mi sono stancato, basta”, diventata un hastag postato milioni di volte da tanti indignati», spiega Xavier Robles, regista e sceneggiatore del documentario “Cronaca di un crimine di Stato”. Secondo Robles i narcos non potrebbero produrre droga, fare traffico di clandestini, taglieggiare, decapitare e appendere ai ponti delle autostrade chi si ribella, senza la collaborazione delle autorità. L’esercito controlla le strade: se volesse, bloccherebbe i camion che portano la droga negli Stati Uniti.


«IL CORAGGIO E LA DETERMINAZIONE dei familiari dei 43 ci hanno spronati a cercare i nostri parenti che un giorno non sono più tornati a casa», dice Carmela Barca, una giovane signora che non ha più notizie del marito, poliziotto e studente di diritto, scomparso un anno fa senza lasciare tracce. «Abbiamo deciso di riunirci sotto il nome “familiari degli altri scomparsi” e cercare tra i boschi i nostri mariti, figli, fratelli, nipoti», spiega mentre attendiamo la gendarmeria nella cucina della chiesa San Francesco di Iguala dove ogni domenica queste persone disperate si ritrovano per andare a “buscar las fossas”, a trovare le fosse. Con la gendarmeria a distanza di sicurezza, seguendo le istruzioni disegnate a mano da uno sconosciuto su un foglio di quaderno, il gruppo si incammina con alla sua testa un signore con in mano un lungo bastone dall’estremità a forma di àncora. Dopo averla infilata nel terreno con forza, l’uomo la ritira e annusa. L’odore della decomposizione è inequivocabile. Una mesta bandierina segnalerà la fossa clandestina perché la polizia e i periti possano fare le riesumazioni. La sensazione è di essere gli attori di un film horror. Ma è la drammatica realtà di un Paese con una cultura millenaria alle spalle, membro del G20, appiattito sui desiderata neoliberali della vicina “Gringolandia”, come vengono definiti gli Stati Uniti. «Il sequestro degli studenti da parte della polizia, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La gente ha capito, sa che il mandante è lo Stato e ne ha perso del tutto la fiducia. Per questo migliaia di persone ogni 26 del mese, da quando sono stati sequestrati i 43, scendono in piazza per manifestare contro lo Stato e chiedere giustizia. Lo fanno per gli studenti ma anche per sé e per i propri figli e nipoti. Non so per quanto questa indignazione, mai vista prima, terrà. Resta il fatto che molti per protesta non andranno a votare alle elezioni politiche di domenica 7 giugno, altri voteranno il nuovo partito di sinistra Morena, perché il Prd, nato come partito delle sinistre, non rappresenta più gli interessi di nessuno, se non di se stesso, ed è corrotto. Il sindaco di Iguala era del Prd», dice il famoso scrittore e attivista Paco Ignatio Taibo II.


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, Enrique Peña Nieto, 48 anni, del Pri, è percepito da buona parte della società come un burattino nelle mani dell’ex presidente Salinas de Gortari. Colui che nel 1994 fece entrare il Messico nell’area di libero scambio nord-americano, il Nafta, dando il via alla deriva neoliberista. Anche se i media lo blandiscono, la coraggiosa quanto circoscritta stampa indipendente ne ha più volte denunciato “missioni” e omissioni. Questo signore, dall’aspetto curato e giovanile è un maestro nell’applicazione della politica neo liberale. Ha firmato l’ultima legge sull’energia secondo cui lo sfruttamento delle risorse ambientali ha la priorità sull’agricoltura e la legge sull’educazione che favorisce le scuole private. Entrambe non piacciono agli studenti delle scuole normali rurali, tra cui c’è Ayotzinapa ( tartaruga in lingua Nahuatl).

Ayotzinapa si trova a 1400 metri di altezza nel comune di Tixtla, un tipico pueblo con le case colorate e lo zocalo al centro. Per arrivare al cancello con un’enorme tartaruga disegnata bisogna percorrere un viale in mezzo al bosco. A proteggerlo ci sono i volontari della polizia comunitaria, istituita vent’anni fa in varie città e villaggi con l’avallo del governo per difendere le etnie autoctone. «Premetto che noi difendiamo tutti gli sfruttati, indipendentemente dall’etnia. Ora ci accusano di essere fuorilegge ma la vera ragione è che il coordinatore si è venduto al governo che non ci vuole tra i piedi perché andiamo a cercare i narcos e non abbiamo paura di scontrarci con loro e nemmeno con la polizia municipale e l’esercito che fanno affari o sono a libro paga degli stessi cartelli», racconta Tori, nome di battaglia di una universitaria di 27 anni che comanda il gruppo armato di autodifesa. Possiamo vederne solo gli occhi neri dietro il passamontagna.

UNA VOLTA ENTRATI nella scuola ci si trova di fronte a un’azienda agricola e ai ritratti di Marx, Lenin, Che Guevara, Lucio Cabanas, e altri rivoluzionari messicani. Dove c’erano le stalle, oggi ci sono le misere stanze degli studenti del primo anno. Celle di 14 metri quadrati, senza finestre, dove dormono stipati fino a 11 futuri maestri. Al posto dei comodini e armadi, cassette della frutta appese al muro. Qua e là prese della corrente che alimentano gli smartphone per coordinarsi via Internet sulle attività di boicottaggio dei comizi elettorali, chiamare i volontari della comunitaria quando l’esercito viene da queste parti. «Per essere ammessi alle scuole normali innanzitutto bisogna avere un reddito molto basso. Siamo quasi tutti figli di campesinos. Ci prepariamo per andare a fare i maestri elementari nei villaggi di montagna ma lo Stato ogni anno taglia il numero delle matricole e riduce il sostegno economico», spiega Ernesto detto Marlboro, 23 anni, rappresentante degli studenti del “primero” nonché uno dei superstiti del 26 settembre.

«NON ACCETTIAMO I RISARCIMENTI in denaro che ci vuole dare lo Stato, è un’offesa. Siamo poveri ma abbiamo una dignità. Vogliamo sapere dove sono i nostri figli. Nella discarica di Cocula non c’erano, vogliamo sapere chi li ha presi e cosa gli hanno fatto», dice Delfina de la Cruz Felipe che ha deciso di vivere qui fino a quando non tornerà Adan Abrajan, suo figlio, già padre di due bambini. Sulla facciata di una casa di Tixtla, da cui provenivano 14 dei 43 studenti scomparsi, c’è una scritta sotto la foto di Israel: «L’ultimo segnale del suo Gps proveniva dalla zona dove ha sede il 27esimo battaglione dell’esercito». Omar, un altro sopravvissuto, racconta che «quella notte, dopo la prima sparatoria da parte della polizia contro uno dei bus che avevamo confiscato, io e altri feriti eravamo andati all’ospedale per farci curare. Io assistevo un compagno con un buco sulla mascella. Nulla in confronto a uno dei nostri trovato morto senza più la pelle del viso e gli occhi. A un certo punto sono arrivati dei soldati, compreso il loro medico, del 27esimo battaglione. Ci hanno chiesto le generalità e detto che se non le avessimo date, avremmo fatto la fine degli altri “Ayotzinapo”, che è un modo dispregiativo di definirci. Noi ancora non sapevamo che erano stati sequestrati dei nostri compagni. Pensavamo fossero fuggiti e nascosti, come altri che poi sono ricomparsi in tarda mattinata.

L’esercito non ci ha mai amati, siamo considerati dei sovversivi, ma è solo un pretesto per mettere a tacere chi si oppone alla militarizzazione, al terrore di Stato», conclude piangendo.

CIÒ CHE È CERTO in questa terribile storia è che un centinaio di studenti delle scuole rurali avevano confiscato alcuni pullman per andare alla marcia del 2 ottobre a Città del Messico e per effettuare, come vuole la legge, i tirocini nei puebli dove poi insegneranno. «Lo facciamo perché lo Stato non ci fornisce i mezzi, solo un bus da 30 posti ma qui siamo più di cinquecento, ma poi li restituiremo», riprende Ernesto. La marcia per ricordare gli studenti uccisi dalle forze dell’ordine nel 1968 durante la “guerra sucia” (sudicia) è un’occasione per denunciare i delitti di Stato rimasti impuniti. «Anche quello che riguarda i nostri compagni lo è. È stata la polizia a spararci addosso mentre eravamo sui pullman. Noi stavamo tornando alla scuola. Eravamo stati portati lì dall’autista per scaricare i passeggeri, ma lui ci ha chiusi dentro e ha chiamato la polizia municipale», dice Josè, altro sopravvissuto. La polizia spara. I ragazzi saltano giù dai bus, corrono, due rimangono a terra, altri si trascinano feriti, c’è chi tira sassi, chi si nasconde. Quando la sparatoria finisce, i sani improvvisano una conferenza stampa. «Proprio quando ci stavano spiegando la dinamica, è arrivata di nuovo la polizia. Hanno iniziato a spararci addosso e tutti siamo scappati», ricorda Alejandro Guerrero, giovane cronista.

LA MATTINA SUCCESSIVA MANCAVANO 43 studenti. Secondo i periti argentini per cremare così tanti corpi all’aria aperta in una notte di pioggia, ci vuole una quantità enorme di legna e carburante o pneumatici. La gigantesca pira avrebbe dovuto ardere anche le piante intorno, il terreno. Ma non ci sono resti di vegetali bruciati. Nella discarica di Cocula sono state trovate inizialmente solo ossa di pollo, in un secondo momento è stato rinvenuto un dito, che molti sospettano sia stato messo per avvalorare la versione della cremazione. «E, in ogni caso, se sono state trovate ossa di pollo, a maggior ragione si sarebbero dovute trovare quelle dei ragazzi seppur carbonizzate», ragiona Roxana Enriquez, direttrice generale dell’équipe messicana di antropologia forense.


DAL CARCERE, DOVE sono stati rinchiusi come mandanti il sindaco di Iguala José Luis Abarca e la moglie Maria de los Angeles Pineda, sorella di uno dei fondatori del cartello Guerrero Unidos, assieme ai presunti sicari, oltre ad alcuni agenti tra i quali il vice capo della polizia, sono emerse versioni diverse del motivo per cui gli studenti di Ayotzinapa sono stati sequestrati e forse uccisi. Il sindaco e la moglie negano il coinvolgimento e affermano di aver chiamato il 27esimo battaglione per fermare la sparatoria ma i militari non hanno risposto. «Alcuni sicari sostengono che il sindaco credeva che dentro quei bus ci fossero anche i membri del cartello nemico dei Los Rochos, tanto che la polizia sparò anche a un pullman con a bordo una squadra di calciatori che stava transitando. Altri ancora dicono che in uno dei tre veicoli con gli studenti fosse nascosto un carico di eroina», sostiene lo scrittore Josè Reveles.

Gli studenti di Ayotzinapa sarebbero dunque solo finiti nel posto sbagliato? «I narcos non si limitano a fare traffico di droga ma, assieme alla polizia, taglieggiano i cittadini, li rapiscono, gestiscono la prostituzione, fanno traffico di esseri umani e terrorizzano la popolazione», spiega un altro scrittore, Jaime Aviles. Nella sua prefazione al saggio “Ni vivos, Ni muertos” di Federico Mastrogiovanni scrive che i sequestri sono perpetrati dalle forze dell’ordine e dall’esercito su ordine del governo interessato a militarizzare gli Stati con più risorse naturali (nel Guerrero c’è una delle miniere d’oro più grandi dell’America Latina). «I soldati anziché difendere i cittadini, proteggono gli affari dei narcos che sono in grado di esprimere direttamente i politici come è avvenuto con l’elezione di Abarca a sindaco».

IL 26 APRILE è stato collocato dagli attivisti e dai padri dei sequestrati un “contromonumento” costituito da un gigantesco 43 dipinto di rosso. «Lo piantoniamo per evitare che la polizia lo rimuova», dice uno studente. In testa al corteo, c’era uno striscione con la scritta: “Ne mancano 43. Fu lo Stato. Peña Nieto dimettiti”. Il capo dello Stato aveva tentato di dare la colpa alla natura riottosa degli studenti rurali e in seguito attribuendo la responsabilità ai narcos. Anche la Chiesa si è schierata con i familiari. Il nunzio apostolico, su mandato di papa Francesco, ha celebrato una messa ad Ayotzinapa. Ma il miracolo non è avvenuto: degli studenti ancora non c’è traccia.

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