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L'ESPRESSO

l'Espresso
11 06 2015

Il rientro di 
Cristoforetti, che ha battuto il record di permanenza spaziale per un'astronauta donna, è previsto per oggi. Ecco su cosa ha lavorato in orbita. Dalla fabbricazione di oggetti tridimensionali alla meccanica dei fluidi

L'astronauta italiana più famosa al mondo lascia la sua casetta spaziale per rientrare sulla Terra (l'atterraggio è previsto per oggi). Una volta salutata la Stazione Spaziale Internazionale (Iss) sarà scioccante riprendere le abitudini terrestri, e non solo per la gravità. Samantha Cristoforetti in questi sei mesi era dappertutto, stracciando i suoi predecessori dal punto di vista della comunicazione e non solo nei “social”.

Era costantemente a “Che tempo che fa”, è stata vista, anche se in differita (all’insaputa del pubblico), al Festival di Sanremo, le sue piroette su Repubblica tv hanno fatto il giro del Web, come anche il video di lei che canta “Imagine” di John Lennon.
Per non parlare delle istituzioni: il presidente Mattarella si è collegato con lei durante la sua visita a Parigi, ha avuto un colloquio con il Presidente del Consiglio in collegamento da Palazzo Chigi, ha parlato con il ministro Stefania Giannini e centinaia di ragazzi collegati dalla sede dell’Agenzia Spaziale Italiana.

Quello che però sfugge ai più è che Samantha Cristoforetti è prima di tutto un’astronauta. E un astronauta è un ricercatore ma anche una cavia. Non fosse altro perché ha dovuto assaggiare il primo caffè espresso nella storia dello spazio. Un esperimento italiano Argotec-Lavazza, ufficialmente per lo studio della dinamica dei fluidi. Sappiamo che lei l’ha bevuto, il fluido, non sappiamo però se le sia piaciuto. Ma al di là del sapore del caffè, gli obiettivi scientifici si focalizzano sul comportamento dei fluidi e delle miscele in condizioni di microgravità, ma anche sul mistero della formazione della schiuma del caffè (chiedere al barista domattina se lo sa…). E questo è stato solo uno dei nove esperimenti che compongono la missione Futura.

Se parliamo di cavia non è tanto per dire. Uno degli esperimenti più importanti della missione è stato “Drain Brain”: Samantha ha indossato i sensori che misurano il flusso del sangue ed ha fatto gli esercizi muscolari e di respirazione previsti dal protocollo scientifico. Poi si è fatta una ecografia vascolare, sotto la guida remota di Paolo Zamboni dell’Università di Ferrara. Aveva già fatto simili esami mesi prima, per controllare effetti a lungo termine.

Giunto sulla Iss ai primi di aprile è l’esperimento di biologia “Cytospace”, realizzato dalla Kayser Italia S.r.l. e dal Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare dell’Università La Sapienza di Roma. Studia l’influenza della microgravità sull’espressione genica, attraverso la modificazione della forma cellulare, per capire se si possa determinare il destino dei sistemi biologici complessi attraverso stravolgimenti di forma e altre reazioni che interessano pressoché tutte le funzioni cellulari. Il progresso nelle conoscenze di questi meccanismi si tradurrà in un progresso nella terapia di patologie del connettivo, l’osteoporosi, il cancro.

Altro esperimento della missione è “Nanoparticles and Osteoporosis” (Nato), appunto sulla osteoporosi. Il progetto è stato realizzato dalle Università di Pavia e di Milano, dall’Istituto di Cristallografia del Cnr e dalla Kayser Italia S.r.l. per vedere se l’impiego di alcune nanoparticelle sulle cellule ossee possa riattivare la formazione di tessuto osseo e ridurne il processo di riassorbimento. L’assenza di peso in orbita favorisce questa patologia anche in soggetti sani (come Samantha) rendendo la Iss un ambiente ideale per il suo studio. Le ricadute di questo esperimento sono nuove misure di contrasto alla riduzione di massa minerale ossea, indotta dalla permanenza nello spazio come dall’invecchiamento sulla Terra.

“Bone/Muscle check” è un esperimento simile, che userà la raccolta e il congelamento a intervalli temporali prefissati di campioni di urina e saliva a bordo della Iss. Questi campioni saranno poi analizzati nei laboratori dell’Università di Salerno e correlati con altri campioni prelevati agli stessi soggetti durante test svolti prima e dopo il volo.

Importante anche lo studio dei meccanismi di adattamento sensori-motorio alla condizione prolungata di assenza di gravità. In particolare sono da capire le nuove strategie e i nuovi criteri di pianificazione ed esecuzione del movimento. Fondamentale per quando ci si muove nella Iss, magari affollata di colleghi intorno alla macchina del caffè.

C’è stato anche un esperimento, realizzato dal San Raffaele di Roma, per studiare contromisure basate sull’esercizio fisico per prevenire problemi di salute dopo i voli spaziali, quali l’intolleranza ortostatica, che rappresenta uno dei più frequenti sintomi che gli astronauti presentano dopo i voli di lunga durata. L’esperimento prevede l’esecuzione da parte dell’astronauta in volo di un programma di allenamento personalizzato, determinato in base ad una nuova metodologia fondata sul carico di lavoro interno che il singolo individuo sperimenta durante l’attività fisica piuttosto che sulla spesa energetica indotta dall’attività fisica. Ma Samantha è molto sportiva ed è una alpinista, non ha certo problemi.

In microgravità la qualità del sonno è ridotta, con conseguenze negative nelle ore di veglia. Ci pensa una Maglietta Sensorizzata, con sensori tessili per la rilevazione dell’elettrocardiogramma e del respiro, una Unità Elettronica Portatile (Peu) per la raccolta dei dati e la misura del battito cardiaco, un termometro per la misura della temperatura cutanea e una Unità Batterie (Bu) per l’alimentazione del dispositivo. L’astronauta indossa la maglietta sensorizzata prima di dormire, collega Peu e batterie, attiva il monitoraggio, poi va a nanna. Il sistema registra i parametri biologici durante il sonno. Al risveglio, i dati memorizzati nella Peu vengono trasferiti ad un laptop di bordo per la trasmissione a Terra e le analisi.

Tra gli esperimenti che hanno suscitato più curiosità, il “Pop3D” è un dimostratore per un processo di produzione automatizzato della realizzazione di oggetti (3D) in polimero termoplastico in assenza di gravità. L’esperimento consiste in una sessione automatizzata per la produzione di un piccolo oggetto di plastica. L’intero dimostratore o l’oggetto fabbricato vengono riportati a terra per l’analisi. Chissà se nello spazio vengono bene le copie 3D.

La qualità dell’aria in un ambiente chiuso come la Iss è assai importante. Gli ambienti della Iss possono ospitare batteri e funghi. Tale biocontaminazione coinvolge sia le superfici interne dei moduli sia l’aria della Iss. Il monitoraggio è complicato ma necessario per assicurare una buona qualità della vita agli astronauti e per garantire adeguata manutenzione per apparecchiature a bordo.

E per una Samantha che torna a Terra, ce n’è una destinata a non farlo, o almeno ci si augura. Si tratta dell’asteroide Samantha Cristoforetti, scoperto dal Gruppo Astrofili di Montelupo Fiorentino e da poco formalmente battezzato dall’Unione Astronomica Internazionale. È un asteroide orbitante tra Marte e Giove, con un periodo di rivoluzione di circa 5 anni e mezzo: chissà che un giorno Samantha ci sbarchi sopra.

Giovanni Bignami, presidente dell’Istituto 
Nazionale di Astrofisica

 

l'Espresso
05 06 2015

Si chiama MyStealthyFreedom, (La mia libertà clandestina ndr) la pagina Facebook (e dal 3 maggio scorso anche un sito web), un luogo virtuale che conta quasi 800.000 iscritti, dove le donne iraniane pubblicano le proprie foto (o video) senza l’hijab, il velo islamico, obbligatorio in Iran per legge da quando lo stabilì l’Ayatollah Khomeini nel marzo 1979, subito dopo la Rivoluzione Iraniana.

La giornalista iraniana Masih Alinejad, che ora vive in esilio tra Londra e New York da quando ci furono le elezioni di Ahmadinejad nel 2009, l’ha fondata dopo aver ricevuto un sostegno inaspettato da parte delle donne iraniane, quando circa un anno fa pubblicò una sua foto senza il velo. Propose così anche a quelle donne di inviare foto in cui erano ritratte senza l’hijab. Da quel momento è stata sommersa dalle foto e dalle testimonianze di chi ha trovato il coraggio di far sentire la propria voce. La più bella è una foto che racchiude tre generazioni insieme: nonna, madre e figlia tutte e tre a capo scoperto.

Sono molte poi le foto di sorelle o amiche, così come quelle scattate da un fratello alla propria sorella. Il gesto di togliere il velo è una forma di protesta contro un governo che nega alla popolazione femminile alcuni diritti fondamentali: devono chiedere il permesso al proprio marito per lavorare o per viaggiare fuori dall’Iran. Non possono sposare un uomo se questi non è iraniano o convertito all’Islam. E devono comunque ottenere il consenso da parte del proprio padre per sposarsi. Non possono cantare in pubblico. «Le donne non possono candidarsi in politica per le elezioni presidenziali – spiega Alinejad – e ce ne sono solo nove in Parlamento. Ma le donne iraniane sono molto intelligenti: rappresentano il 60% degli studenti Iraniani».

Cos’è per lei l’hijab?
È il simbolo dell’oppressione contro le donne. Da bambina volevo essere come mio fratello, che giocava libero. Io invece sono stata costretta a indossare il velo a sette anni.

Cosa rischiano le donne che pubblicano la propria foto senza velo sul web?
Senza pubblicare alcuna foto, 18 mila donne sono state mandate davanti alla Corte e queste donne non sono quelle che hanno inviato foto a MyStealthyFreedom. Non serve pubblicare le foto per rischiare (secondo l’art. 638 del codice penale islamico dell’Iran una donna senza il velo in pubblico può essere condannata fino a due mesi di carcere, a pagare una piccola multa o a ricevere 74 frustate, ndr). Quando le donne camminano per strada possono essere fermate dalla polizia anche se non indossano l’hijab in modo corretto perché potrebbe intravvedersi qualche ciocca di capelli. Chi rifiuta di indossare il velo non può andare a scuola né ricevere un’educazione: di fatto non potrà lavorare nel proprio Paese e dovrà lasciare la propria casa. L’hijab obbligatorio è tutto questo: è contro la dignità. Le donne iraniane sfidano il governo ogni giorno e non dipende da una pagina Facebook.

Ci sono uomini che sostengono MyStealthyFreedom?
Moltissimi. Quando le donne girano un video per la strada senza il velo, gli uomini non le additano, né le insultano. Hanno rispetto per la nostra scelta: è solo il governo che vuole mostrare che gli uomini in Iran non sono interessati a questo tema, o che possono stuprare le donne che non indossano l’hijab. Ci sono molti uomini con una certa cultura che ci supportano e sono tanti i loro messaggi sulla mia pagina. Basti pensare che sono stati proprio due uomini ad avermi aiutata a tradurre le testimonianze delle donne dal persiano all’inglese.

Allora perché è così difficile abolire l’hijab obbligatorio?
Purtroppo la domanda andrebbe posta ai politici. Noi continuiamo a chiedere loro perché ignorino i diritti umani in Iran, focalizzandosi solo sul nucleare. Per l’Iran è importante ottenere un accordo con i paesi occidentali sul nucleare, ma quando si scavalcano i diritti umani, non va più bene. Il nostro governo va a negoziare con gli altri paesi occidentali, dicendo che in Iran c’è libertà, quando non è così.

Cosa pensa del gesto di Oriana Fallaci, che si tolse il velo di fronte all’Ayatollah Khomeini nel 1979?
È proprio questo che io chiedo ai giornalisti stranieri, così come alle donne della politica. Ad esempio Julie Bishop, Ministro degli affari esteri australiani e Claudia Roth, parlamentare tedesca, sono le prime donne arrivate in Iran da quando MyStealthyFreedom è nato, e loro non si sono tolte il velo. Vorrei che le donne della politica fossero coraggiose come fu Oriana Fallaci, come lo sono le donne iraniane. Molti credono che questo sia un problema interno, ma per me l’obbligatorietà del velo è un tema che coinvolge tutte le donne, perché una turca, americana o italiana che decidesse di visitare l’Iran sarebbe costretta a indossare l’hijab: per questo tutte le donne dovrebbero stare dalla stessa parte.

Cosa ne pensa delle donne che indossano il velo nei paesi occidentali?
Io sostengo la libertà di scelta: le donne che nei paesi occidentali indossano l’hijab hanno questo diritto. In Iran non è così.
Ha vinto di recente un premio a Ginevra per i diritti delle donne grazie a MyStealthyFreedom. Qual è il prossimo passo?
Fare in modo che tutte le donne del mondo siano coinvolte: quelle in politica e tutte quelle che visiteranno l’Iran. Chiedo loro di rifiutarsi di stare in silenzio. Il primo passo era far alzare una voce all’interno dell’Iran, dove il governo ci ignorava e basta. Il secondo passo è il supporto esterno. Il nostro governo va nei paesi non musulmani chiedendo di rispettare i loro usi e costumi, e noi vorremo si facesse lo stesso nei nostri confronti.

Cosa ha provato quando ha tolto il velo per la prima volta in pubblico?
Ho sentito il vento tra i capelli. La prima esperienza è questa: gioire dei capelli che, davvero, danzano.

Marta Caldara

l'Espresso
04 06 2015

Il clan mafioso di Massimo Carminati aveva in pugno politici regionali e comunali attraverso i quali riusciva a gestire appalti e incassare milioni di euro di soldi pubblici. Su Roma si abbatte così il secondo atto giudiziario di mafia Capitale, con 44 arresti eseguiti stamani dai carabinieri del Ros che hanno condotto le indagini, coordinate dalla procura antimafia di Roma.

E così, accanto al cecato, compaiono nel provvedimento cautelare il capogruppo prima del Pdl e poi Forza Italia alla Regione, Luca Gramazio, ma anche l'ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti e l'ex minisindaco di Ostia Andrea Tassone, entrambi del Pd. Ma c'è anche l'ex consigliere comunale del Pdl Gerardo Tredicine. E poi soci e amministratori di cooperative bianche che si erano aggiudicati incarichi per l'emergenza immigrati.

Sono dunque 44 le persone arrestate (fra detenzione in carcere e quella domiciliare) con le accuse a vario titolo di associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, con l’aggravante delle modalità mafiose. E poi ci sono altre 21 persone indagate per le quali sono scattate stamani le perquisizione.

Gli interventi dei carabinieri sono stati effettuati nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania e Enna.

Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, in questa nuova fase, hanno permesso di acquisire ulteriori elementi sul metodo mafioso attuato dal clan Carminati, confermato anche dalle testimonianze rese da diversi imprenditori vittime. È questa un'altra grande sorpresa: la collaborazione di molte delle vittime del clan. Gli imprenditori chiamati nei mesi scorsi dagli investigatori non hanno negato di aver subito pressioni o violenza ed hanno parlato, facendo cadere lo strato di omertà che aveva avvolto molti altri.

E grazie alle indagini è stata confermata la centralità nel clan Carminati di Salvatore Buzzi, che era a capo di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate. Un giro di affari per 150 milioni di euro solo con il Campidoglio.

Il consigliere Luca Gramazio è accusato di associazione mafiosa «in qualità di esponente della parte politica che interagiva, secondo uno schema tripartito, con la componente imprenditoriale e quella propriamente criminale». Gramazio prima nella carica di capogruppo Pdl al Consiglio comunale di Roma ed in seguito come capogruppo Pdl (poi Forza Italia) presso il Consiglio Regionale del Lazio, sfruttando la propria appartenenza alle due assemblee amministrative e la conseguente capacità di influenza nell’ambiente istituzionale «poneva in essere condotte strumentali al conseguimento degli scopi del sodalizio».

Lirio Abbate

l'Espresso
28 05 2015

Lo stato d'eccezione si fa norma, a Expo 2015. Dentro l'Esposizione Universale di Milano può lavorare infatti solo chi ha il nulla osta della Questura, può “nutrire il pianeta” solo chi non è mai incappato in un registro di Polizia. E non si tratta soltanto di reati, di fedina penale, di “allerta terrorismo”: basta una nota sugli schedari, una segnalazione o una denuncia mai arrivate a processo perché venga bloccata l'autorizzazione ad accedere alla fiera. Basta aver soltanto partecipato a «marce per la pace», come racconta Anna.

Il dilemma tra sicurezza e diritti prende corpo negli esposti che sta raccogliendo la Cgil di Milano: già 500 casi di persone che avevano richiesto il pass per entrare alla fiera da dipendenti, giornalisti o interpreti e si sono viste negare il documento «per ragioni sconosciute». E ora la questione è arrivata in Parlamento.

Marco – nome di fantasia – ha raccontato la sua storia a Radio Popolare: «Il 9 aprile sono stato assunto regolarmente da Coop Lombardia per lavorare al Supermercato del futuro, dentro Expo. Ho seguito la formazione teorica e l'addestramento pratico.

Nessun problema fino al 30 aprile. Chiamati dall'azienda, io e altri due ragazzi - che poi ho scoperto essere nella mia stessa situazione - restiamo in attesa fuori dall'ufficio del personale. Quando entro mi dicono: «Ci dispiace ma il nostro rapporto termina qui. Per ragioni a noi sconosciute la Questura ha negato il suo pass». Sono cascato dalle nuvole, ho chiesto spiegazioni, hanno detto che la Polizia non gliene aveva date. Solo che aveva «respinto la richiesta». Così mi hanno licenziato seduta stante dicendomi che ero stato assunto per l'Expo e il fatto di non poter entrare era sufficiente a lasciarmi a casa».

I suoi precedenti penali? «Nessuno», spiega lui, che ha fatto causa con un avvocato della rete “San Precario”: «Da studente universitario ho partecipato alle proteste dell'Onda contro la riforma scolastica di Mariastella Gelmini e frequento spazi sociali». Basta questo per diventare una minacci alla sicurezza ed essere considerati un pericolo pubblico. Senza possibilità di appello.

Partecipare all'Onda o alle manifestazioni contro la guerra è un reato? No, non lo è, in una democrazia. Ma la democrazia a quanto pare è stata sospesa dentro i confini dei padiglioni di Expo, per far posto a procedure eccezionali che la società giustifica dicendo che l'evento è stata dichiarato «obiettivo sensibile, nonché sito di interesse strategico nazionale, per cui, per essere accreditati, occorre non aver mai commesso reati».

Il problema è che, dalle prime testimonianze raccolte da Matteo Pucciarelli per Repubblica, L'Espresso e dalla Camera del Lavoro, ci sono molti casi in cui il bando da Expo non nasce da reati contestati o riconosciuti: «Ma di semplici “informative di polizia” mai arrivate nel casellario penale», spiega Antonio Lareno, segretario generale della Cgil di Milano: «Nessuna istituzione ci ha risposto su quali siano i criteri in base ai quali vengono negati o concessi i pass. Né è stato indicato quale ordinanza o disposizione di legge autorizzi Expo a fare questi controlli. E non è mai stato firmato alcun protocollo a riguardo». Per questo, spiega Lareno, la Cgil sta inviando diffide alla società dell'Esposizione e alle aziende che licenziano per i “visti” negati: «Dal nostro punto di vista queste procedure sono violazioni palesi dello statuto dei lavoratori sul diritto all'opinione e di quello della privacy».

Già, perché ad oggi sulla “piattaforma accrediti” di Expo, spiega, sono registrate circa 30mila persone: significa che per tutti questi comuni cittadini, così come per gli altri che sono stati rifiutati, Expo e Questura hanno potuto fare uno screening “di sicurezza” approfondito. Senza che gli interessati lo sapessero. La risposta è sempre la stessa: che i controlli vengono fatti «accedendo a fonti strutturate» e che sono «le autorità di Polizia a gestire queste informazioni». Ma i risultati, comunicati poi dalla società Expo, possono mettere a rischio la privacy dei singoli: molti hanno paura di essere additati ora come “pericolosi” dai colleghi solo perché Expo li ha definiti tali. O di avere problemi sul contratto.

Valeria è una giornalista pubblicista e ha scritto a Radio Popolare quello che le è successo: «Invio a maggio tutti i moduli necessari per ottenere l'accredito Stampa e visitare i padiglioni. Il 12 maggio vedo sul portale web che la richiesta è stata negata. Chiedo spiegazioni e mi rispondono: «Non abbiamo informazioni, solo la sua domanda non è passato al vaglio della Questura». Chiamo l'Ordine dei giornalisti ma dicono che non si può fare nulla fino a che non sarà chiarito il motivo del diniego. Chiamo due volte la Questura e non mi fanno sapere nulla. Conclusione: posso pagare il biglietto ed entrare a Expo da turista ma non accedere come giornalista. Siamo nel Cile anni '70 e non me ne sono accorta?».

La beffa è infatti che tutti questi controlli riguardano solo i lavoratori che chiedono il tesserino. E non i turisti o i viaggiatori a cui è chiesto soltanto di attraversare i metal detector per motivi evidenti di sicurezza all'interno del perimetro. Finisce così che alcuni “respinti” stanno accedendo lo stesso ai padiglioni, quando ne hanno bisogno, pagando il ticket come tutti gli altri anche se avrebbero avuto diritto a un accesso diretto.

Ora la questione è arrivata a Roma. Il deputato di Sel Daniele Farina ha presentato il 18 maggio un'interrogazione parlamentare ai ministri dell'Interno e del Lavoro per chiedere spiegazioni sulle procedure di pubblica sicurezza utilizzate all'Expo. «Il problema sono i diritti dei lavoratori», spiega: «E la nebbia che avvolge gli atti che autorizzano questi controlli. Ricordiamoci che è un evento finanziato con miliardi di euro pubblici». Ora, dice, proverà a trasformare l'interrogazione in un'interpellanza urgente, per ottenere risposta al più presto, anche perché la fiera universale durerà solo sei mesi. Sei mesi di diritti sospesi?

Francesca Sironi

I transgender e la battaglia per cambiare nome

  • Mag 27, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 7703 volte

L’Espresso
27 05 2015

La comunità transgender aspetta da tempo una legge che permetta di poter cambiare sesso e nome all'anagrafe senza l'obbligo di un intervento chirurgico di sterilizzazione: perché sul lavoro, negli uffici pubblici, in tante relazioni quotidiane se l'aspetto fisico è diverso dai dati dei documenti il rischio di discriminazione è molto alto.

Se il Parlamento sul punto è completamente fermo, pochi sanno che invece sulla questione qualche mese fa si è espresso Palazzo Chigi, con un parere sostanzialmente favorevole alle rivendicazioni delle associazioni: l'Atto di intervento del Presidente del consiglio è datato 30 dicembre 2014, è indirizzato alla Corte costituzionale (perché sul tema la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi dal Tribunale di Trento, nell'agosto scorso), è stato redatto dall'Avvocatura generale dello Stato e controfirmato dall'allora sottosegretario Graziano Delrio.

Se da un lato quindi il governo Renzi prende posizione su un tema così delicato come quello del "gender", che crea contrasti nella sua stessa maggioranza, dall'altro, il 21 maggio scorso, si è aggiunto un altro importante tassello: il nodo della rettifica dei dati anagrafici delle persone transgender è arrivato per la prima volta in Cassazione, grazie al caso di Sonia Marchesi (sui documenti ancora Massimiliano), che si è vista rifiutare dal Tribunale di Piacenza e dalla Corte di Appello di Bologna la sua richiesta a essere iscritta come "Sonia" anche negli atti civili per il fatto che, pur avendo acquisito negli anni un'apparenza e una coscienza di sé come donna, non intende però operare i propri genitali, i cosiddetti "caratteri sessuali primari" (essendo definiti "secondari" altri tratti dell'aspetto fisico, dai seni agli zigomi, al timbro della voce, che contribuiscono a caratterizzare i i due sessi sul piano biologico e anatomico).

"LANCETTE FERME AGLI ANNI OTTANTA"
L'intervento della Presidenza del consiglio è stato allegato alla memoria difensiva del ricorso in Cassazione dall'avvocata di Sonia, Alessandra Gracis, a sua volta transgender e che difende una cinquantina di persone trans in diversi procedimenti giudiziari. Il documento firmato da Delrio si pronuncia sulla legge oggi in vigore, la 164 del 1982, interpretata storicamente e per prassi dai giudici con l'obbligo dell'intervento chirurgico per ottenere il cambio di sesso e di nome: tranne nel caso di alcune sentenze più recenti – tribunali di Roma, Siena, Rovereto e Messina – che invece hanno concesso la rettifica a prescindere dall'operazione ai genitali. Il governo si dichiara a favore di queste ultime interpretazioni, ritenendole più in linea con i tempi: "Si può, quindi, ritenere – recita il testo inviato dalla Presidenza del consiglio alla Consulta – che la nozione di identità sessuale non sia limitata ai caratteri sessuali esterni, ma possa essere determinata anche da elementi di carattere psicologico e sociale".

La pubblicazione della sentenza della Cassazione si attende a giorni, ma in udienza i magistrati sono apparsi abbastanza inclini ad accogliere le istanze di Sonia. La giudice relatrice, Maria Acierno, è la stessa che ha seguito il caso delle "due Alessandre": il 21 aprile scorso la Corte ha sentenziato che il vincolo coniugale contratto da Alessandra Bernaroli prima di cambiare sesso e nome, non viene annullato, e che quindi la donna resta a tutti gli effetti sposata con un'altra donna (la moglie si chiama anche lei Alessandra). La procuratrice generale, Francesca Ceroni, si è pronunciata per l'accoglimento della richiesta di Sonia, spiegando che a suo parere il giudice di Bologna che le ha negato la rettifica all'anagrafe "ha fermato le lancette ai primi anni Ottanta".

"NON SI PUO' RIVENDICARE UN TERZO GENERE"
"Il Tribunale di Piacenza ci aveva liquidate senza neanche ordinare delle perizie – spiega l'avvocata Gracis, che assiste Sonia Marchesi insieme al legale di Rete Lenford, Francesco Bilotta – All'appello di Bologna, al contrario, il giudice ha chiesto due consulenze tecniche d'ufficio, a un'endocrinologa e a una psicologa. Le conclusioni di queste perizie sono state a nostro favore: hanno riconosciuto entrambe che nonostante Sonia non si sia sottoposta a intervento chirurgico, è a tutti gli effetti una donna".

Eppure, nonostante questo, il giudice ha respinto la richiesta: questo perché in uno dei due pareri era scritto che dopo anni di terapia ormonale "l'azzeramento dell'attività testicolare" era "quasi completo", e che le caratteristiche femminili di Sonia erano "per lo più irreversibili". Inferendo da queste espressioni che la transizione non era completa al 100 percento, la Corte d'appello ha quindi motivato il rigetto spiegando che Sonia avrebbe potuto in futuro compiere il percorso inverso, sentendosi legittimata a ritornare maschio, e che non si può riconoscere il diritto "alla rivendicazione di un un terzo genere", fatto della "combinazione dei caratteri sessuali primari e secondari dei due generi".

La Pg della Cassazione Ceroni ha smontato l'interpretazione del giudice bolognese: "La teoria del terzo genere – ha spiegato – si basa sull'erroneo presupposto che l'identità di genere sia legata solo alle caratteristiche sessuali, e non anche a quelle psichiche, al contesto sociale e culturale, al diritto di autodeterminazione della persona". A proposito, la Pg ha citato due importanti sentenze europee: la Risoluzione 2048 (aprile 2015) “Discrimination against transgender people in Europe” dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, e la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo , che lo scorso marzo ha censurato la scelta della Turchia di imporre la sterilizzazione chirurgica a una persona transessuale FtM (in transizione da donna a uomo) che chiedeva di poter cambiare i documenti senza doversi operare.

Sia il Consiglio d'Europa che la Corte dei diritti di Strasburgo hanno posto alla base delle proprie decisioni il diritto all'autodeterminazione e quello alla salute, all'integrità psichica e fisica della persona. Principi sanciti anche dalla nostra Costituzione, agli articoli 2 e 32, come viene ricordato nella memoria in difesa di Sonia. E la procuratrice Ceroni, dando infine parere per l'accoglimento della richiesta della donna transessuale (che ha sempre nominato al femminile), ha concluso con una citazione letteraria: "Come diceva Simone de Beauvoir: donne non si nasce, lo si diventa".

L’Espresso
25 05 2015

La legge che prometteva la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, quella specie di 'carcere non carcere' per i malati di mente che si fossero macchiati di un crimine, è entrata definitivamente in vigore lo scorso 31 marzo.

Da allora, in base a quanto previsto, si sarebbe dovuto procedere alla dismissione progressiva dei vecchi ospedali psichiatrici (sei in Italia, nei quali al 31 marzo erano ricoverati circa 700 degenti) i cui pazienti potevano andare incontro a due sorti diverse: se dimissibili, essere rilasciati e affidati alle cure dei servizi territoriali delle Asl e dei dipartimenti di salute mentale; se non dimissibili, perché pericolosi per sé e per gli altri, essere dati in carico alle Rems ( Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria), strutture di cura di dimensioni ridotte (non più di 20 ricoverati alla volta) completamente in carico alle regioni.


"In futuro ci dovrà essere una vera presa di coscienza e una presa in carico da parte della società della sofferenza mentale e di quel che comporta". Parla la vicepresidente della fondazione Basaglia, figlia dello psichiatra da cui ha preso nome la legge. E spiega perché la strada da fare è ancora molta
“Le cose, alla luce dei fatti, stanno prendendo un’altra piega" spiega Stefano Cecconi, di Stop Opg "in primo luogo, la legge 81 prevedeva che venissero interrotte da subito le immissioni in Ospedale Psichiatrico, il che non sempre si verifica, perché non ci sono le Rems; in secondo perché non si sta dando seguito alla parte più innovativa della nuova legge, quella che privilegia le misure non detentive e i progetti di cura alternativi”.

Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia, per 700 pazienti psichiatrici, i posti a disposizione nelle Rems sono 404 mentre altri 70 sono in via di arrivo e completamento. Per un totale complessivo che non raggiunge 500 posti.


Dopo anni di rinvii e denunce gli Opg in Italia chiudono i battenti. Ma le buone notizie finiscono qui, perché le strutture che dovrebbero sostituirli in molte regioni non sono pronte e c'è il rischio di un commisariamento ministeriale
“La situazione peggiore, stando ai numeri" spiega Cecconi "ad oggi è quella del Veneto e della Calabria, insieme a Piemonte e Liguria che hanno messo a regime un sistema per il quale, semplicemente, prendono i loro pazienti e senza darsene troppo pensiero li mandano all’ex OPG, ora Rems, di Castiglione dello Stiviere, in Lombardia”.


Quello di Castiglione è un caso un po’ particolare, perché da sempre fa capo al ministero della Salute e non della Giustizia, non ha né sbarre né secondini e, ospita, unico caso in Italia, anche le donne. Ad oggi, è la mega Rems cui fanno capo i malati della regione Lombardia, oltre che quelli in arrivo dalle altre regioni che non sanno dove mettere i loro malati.


Degrado, sovraffollamento, scarsa assistenza psichiatrica. Sono le condizioni degli Ospedali psichiatrici giudiziari, in cui la Commissione d'inchiesta sulla sanità ha scoperto situazioni vergognose. Ne parla il presidente Ignazio Marino
“Spedendo i pazienti in Lombardia" continua Cecconi "si perpetuano due anomalie: la prima è quella che si consente che due regioni non si prendano cura dei loro pazienti ma si appoggino a quelle di altri; la seconda è che si accetta che Castiglione, che ospita 160 pazienti e che, per dimensioni e struttura, non è una Rems, venga considerata come tale. Il paradosso, di cui non si sentiva il bisogno, è che chiudendo gli OPG si si è preso l’ospedale di Castiglione e lo si è ritrasformato in un ospedale psichiatrico civile, di quelli vecchia maniera chiusi con la Basaglia e di cui, francamente, non si sentiva la mancanza”.

Bambini al lavoro. L'India è vicina

  • Mag 22, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 8843 volte

l'Espresso
22 05 2015

«La politica è l’arte di servirsi degli uomini facendo loro intendere di servirli». Parto da questa osservazione sagace e drammatica dell’intellettuale svizzero Louis Dumur per raccontare ciò che sta accadendo in India, sotto lo sguardo indifferente del resto del mondo. Il governo indiano ha approvato un emendamento al Child Labour Prohibition Act che di fatto proibiva il lavoro minorile a vantaggio di un percorso scolastico certo e più duraturo, e lo ha fatto con due motivazioni sulle quali dovremmo raccogliere tempo e approfondire. La prima è di carattere pratico: il lavoro minorile, secondo il ministro del Lavoro indiano Bandaru Dattatreya, aiuterà le famiglie più indigenti a uscire da una situazione di estrema povertà. Il secondo è un’assurdità spacciata per buon senso: il lavoro minorile darà ai bambini quello “spirito imprenditoriale” necessario nel loro futuro di lavoratori
Sul piatto della bilancia da un lato l’istruzione e politiche di welfare su cui non è possibile - o almeno non dovrebbe esserlo - effettuare tagli, dall’altro un impoverimento del mercato del lavoro che si sta spacciando per necessario, anzi benefico.

E se da un lato, in un paese popoloso come l’India, dove spessissimo il lavoro minorile non viene denunciato anzi caldeggiato, è molto difficile dare cifre, dall’altro è pur vero che dal 2001 a oggi il numero di bambini costretti a lavorare era notevolmente diminuito da 12,6 milioni a 4,3 milioni nel 2014 anche grazie a una legge introdotta nel 2009 che prevede educazione obbligatoria e soprattutto gratuita fino ai 14 anni. Ecco, l’emendamento appena approvato, va esattamente nella direzione opposta, spostando la lancetta dei diritti umani indietro di un decennio e soprattutto allontanando definitivamente la possibilità di emancipazione delle classi sociali più povere - i dalit - e delle minoranze da sempre marginalizzate e costrette ai lavori più umili.

Se i bambini possono lavorare, allora prenderanno il posto di molti adulti, che andranno a ingrossare le file dei disoccupati. Se poi i bambini potranno lavorare non avranno tempo per l’istruzione e quindi non avranno alcuna possibilità di migliorare la propria condizione sociale, né di rendere l’India un paese emancipato. Il Ministero del Lavoro indiano assicura che i bambini potranno lavorare esclusivamente in orario extra scolastico o nei periodi destinati alle vacanze e che sarà punito con aspre pene il datore di lavoro che dovesse trasgredire. Aggiunge poi che i bambini fino ai 14 anni potranno essere impiegati esclusivamente in aziende familiari, non specifica però che in India moltissime aziende sono registrate sotto la categoria di “aziende familiari”.

Tutto questo non dovrebbe suscitare l’interesse e l’indignazione solo delle organizzazioni umanitarie che si occupano di garantire i diritti dei minori, ma dovrebbe essere centrale nel dibattito politico soprattutto delle sinistre di tutto il mondo, che hanno ormai abdicato totalmente al loro principale compito, quello di battersi perché vi siano ovunque condizioni di lavoro dignitose e un salario minimo garantito.

La risposta politica unitaria a un mercato senza regole non può essere più uno statalismo radicale e nemmeno il controllo dei prezzi, ma un vincolo che preveda l’impossibilità di importare e acquistare prodotti provenienti da paesi che non garantiscano salari minimi dignitosi, che consentano il lavoro minorile. Mentre scrivo mi viene in mente un documentario di Luigi Comencini del 1970 “I bambini e noi - La fatica” che racconta la storia sconosciuta dei valani, bambini venduti al lavoro agricolo per un sacco di grano a Benevento. Era una sorta di “attrazione” cittadina, ci si riuniva nella piazza accanto al Duomo, piazza Orsini e lì, nel giorno dell’Assunta, per secoli si è svolta la pubblica vendita di mano d’opera agricola. A denunciare questa pratica fu per la prima volta nel 1950 un articolo che lo descriveva come un vero e proprio mercato della carne umana.

Tutto questo ci sembra lontano, foto e frammenti di video in bianco e nero a segnare la distanza temporale, eppure accade in un mondo che è il nostro, che è ancora più vicino perché l’economia mondiale non è a compartimenti stagni, ma tutto ciò che accade in India ha effetti sulla nostra vita. Mancanza di democrazia in India e lavoro minorile non pesano nel dibattito italiano. Li crediamo lontani? Nulla di più falso: questi meccanismi sono a un passo dal ritornare nel nostro Sud e non solo.

Roberto Saviano

 

l'Espresso
14 05 2015

Colloquio con Juan Martin, il più giovane della famiglia del Comandante. «Molte delle cose per cui Ernesto ha combattuto non sono state ancora realizzate, è per questo che i giovani continuano ad adottarlo: sentono forte e urgente il suo esempio, il suo insegnamento teorico e di vita»

Questa è la storia di un uomo, un compañero che la Storia la porta nel nome. Nel sangue. Di suo fratello, un certo Ernesto “Che” Guevara, crediamo di sapere tutto. La nascita a Rosario, in Argentina, nel 1928. L’asma che lo tormentò per tutta la vita. L’amore per lo sport e per la natura. La laurea in medicina. Il giro epocale dell’America Latina sulla Poderosa II insieme ad Alberto Granado. “Bisogna essere duri senza mai perdere la "tenerezza”. I poster col suo ritratto iconico (barba, basco con la stella rossa e sguardo ardente) nelle camerette dei giovani di ogni tempo e di tutto il mondo. Il sogno di una rivoluzione pan-latinoamericana e terzomondista. Il romanticismo e le armi. Il Machu Picchu, i campesinos, la cacciata di Batista e la revoluciòn; la nomina a ministro dell’industria, il rapporto complesso con Fidel. E poi l’improvvisa scomparsa dai radar della politica ufficiale; il ritorno alla guerriglia, in Zaire, e in Bolivia, dove nell’autunno del 1967 trovò la morte.

“Il giorno in cui mio fratello venne assassinato, pensai tre cose contemporaneamente. Primo: ho perso il mio punto di riferimento politico. Secondo: non c’è più mio fratello. Terzo: finisce oggi il sogno di una rivoluzione in America Latina” ci racconta Juan Martin Guevara, classe 1943, il fratello più piccolo del comandante Che Guevara, in Italia per una serie di incontri e conferenze.

La prima volta che Juan Martin vide Cuba fu il 6 gennaio del 1959, poco dopo l’entrata trionfale all’Avana dei barbudos. Aveva 15 anni e mezzo e suo fratello il Che lo aveva fatto venire in fretta dall’Argentina, insieme al resto della famiglia, perché non perdessero questo appuntamento con la leggenda di una piccola nazione tropicale che si innalzava al centro del palcoscenico.

Juan Martin Guevara presiede l’associazione “Por las huellas del Che”, «Una Ong che si prefigge di diffondere il pensiero di mio fratello fuori dai confini nazionali, a partire dai suoi scritti “minori". Cerchiamo inoltre di setacciare tutte quelle associazioni ed enti che a loro volta si prodigano per veicolare le sue idee». Pochi giorni fa Juan Martin è stato ospite alla Camera dei deputati, “lo abbiamo portato sul tetto di Montecitorio, da lì con lo sguardo si domina tutta Roma – rivela Gianni Melilla, deputato di Sel -; ma Juan si è subito girato verso la Basilica di San Pietro. Voleva vedere dove sta il papa”. Con altri mezzi e in una diversa epoca, un altro rivoluzionario.

Incontriamo Juan Martin Guevara a Pescara, a margine di un convegno affollatissimo organizzato dal partito di Vendola. In platea tanti quindicenni e ventenni. Se il Che vivesse ancora, e fosse su Facebook o Twitter, avrebbe un numero impressionante di followers. E chissà cosa penserebbe del sogno infranto delle primavere arabe, o di Syriza, o dei black block: “Chi sono i black block?” ci chiede Juan.

Caro Juan Martin, che rapporto aveva con suo fratello Che Guevara?
“Ero un bambino, lui aveva quindici anni più di me. Ernesto viaggiava molto: ero il più piccolo dei suoi fratelli, e così lui mi raccontava quello che vedeva nei suoi lunghi spostamenti. Quando sono diventato adolescente e ho cominciato io stesso a fare militanza attiva, il nostro legame è maturato: oltre che un fratello, è diventato anche un fondamentale referente politico e culturale”.

Cos’era, per il Che, la famiglia? Il vostro era un nucleo familiare largo, anzi, allargato. Per esempio rimase sempre in contatto epistolare con sua zia Beatrice.
“Il suo rapporto con noi era talmente stretto che quando si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, e nonna Ana si ammalò, lui decise di lasciarla subito per rientrare a Buenos Aires, dove si segnò a Medicina”.

Quali sono i ricordi più vivi che ha di suo fratello?
“Forse quelli che vanno dal 1959 al 1961: anni di impegno politico acceso e di dialogo, ormai, tra persone adulte”.

Di cosa parlavate quando eravate insieme?
“Per lo più discutevamo di politica internazionale, di Cuba. Mi chiedeva soprattutto della situazione in Argentina”.

Che tipo era, visto da vicino? Jean-Paul Sartre lo beatificò in questi termini: “Non era solo un intellettuale, era l'essere umano più completo del nostro tempo”.
“Mio fratello era un tipo franco e diretto. Una caratteristica, questa, nel dna della nostra famiglia. Inoltre possedeva una smagliante mente scientifica. Nei suoi anni da ministro dell’industria chiamò a lavorare con lui un matematico spagnolo rifugiato in Urss: sotto la sua gestione, fu costruito il primo computer dell’America Latina…”.

Il mito di Che Guevara prosegue inarrestabile, e probabilmente non morirà mai. Come nasce e si tramanda, di nuova generazione in nuova generazione?
“Molte delle cose per cui il Che ha combattuto non sono state ancora realizzate, è per questo che i giovani continuano ad adottarlo: sentono forte e urgente il suo esempio, il suo insegnamento teorico e di vita”.

Potrebbe rinasce un nuovo Guevara?
“Non solo è possibile, ma è necessario che vengano al mondo nuove figure che portino avanti i suoi ideali”.

Anche lei a un certo punto ha scelto la strada della politica attiva.
“Sono stato un fervente militante socialista negli anni sessanta e settanta. A scuola, e all’università, anche se io non ero certo un tipo da libri, ma semmai da strada: sono stato un camionista, un sindacalista, e via dicendo”.

Cosa ha pensato quando Raoul Castro e Obama si sono stretti la mano?
“Tutto il mondo adesso è capitalistico, e quindi non si può accusare Cuba di aver voltato le spalle al socialismo. Quest’Isola desidera solo una cosa giusta e legittima: che sia rimosso l’embargo”.

Dove sarebbe oggi suo fratello, Ernesto “Che” Guevara?
“Sicuramente sarebbe e lotterebbe nel posto giusto, dove prosperano le più grandi ingiustizie”.

Maurizio Di Fazio

L'Espresso
13 05 2015

Francia e Spagna hanno appena approvato due leggi che limitano la libertà di espressione e autorizzano la vigilanza di massa, mentre il caso Nsa continua a scatenare polemiche. Parla il giurista e già garante della privacy. Che punta il dito contro la politica

È dal giugno del 2013, quando Il The Washington Post ed il The Guardian pubblicarono le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di intercettazione e sorveglianza a tappeto messe in atto dalla Nsa, che il termine "sorveglianza di massa" è entrato nella discussione pubblica e nella consapevolezza collettiva.

Se da un lato è proprio di questi ultimi giorni la notizia che una Corte Federale di New York ha dichiarato "illegali" queste attività di sorveglianza, dall’altro, proprio in Europa, dopo gli attentati terroristici di Parigi, i governi di Francia e Spagna, sostenuti dai rispettivi parlamenti, hanno avviato un’attività di legiferazione mirata a censurare la libertà di espressione e ad attivare meccanismi giuridici e tecnologici volti a controllare massivamente i cittadini e le loro comunicazioni.

Con grave pericolo per la democrazia di quei paesi. Ma anche con il timore che quella che sta diventando una vera e propria deriva autoritaria, possa espandersi ad altri paesi del vecchio continente o comunque minarne l’integrità e la fragile unità istituzionale.

Per Stefano Rodotà è un momento di importante verifica della tenuta delle istituzioni ed ordinamenti europei da cui potrebbe nascere, sul piano della democrazia, un’Europa a due velocità.

Professor Rodotà, in Francia e Spagna la democrazia e la libertà di espressione sembrano a rischio. Cosa sta accadendo nel cuore dell’Europa?
Sta accadendo, e non è la prima volta, che utilizzando come argomento, o meglio, come pretesto, fatti riguardanti il terrorismo o la criminalità organizzata si dice "l'unico modo per tutelare la sicurezza è quello di diminuire le garanzie e di aumentare le possibilità di controllo che le tecnologie rendono sempre più possibile".
E questo è sempre avvenuto, è avvenuto in particolare dopo l’11 settembre, vicenda che ho vissuto in prima persona perché all’epoca presiedevo i garanti europei e ho avuto una serie di contatti continui con gli Stati Uniti che chiedevano un’infinità di informazioni da parte dell’Europa, cui abbiamo in parte resistito.

Questa volta si tratta di una spinta molto interna. Però mi consenta di fare una notazione perché in questi anni si è parlato infinite volte di "morte della privacy": questa è una vecchia storia, perché già negli anni ’90 l’amministratore delegato di Sun Microsistems Scott McNealy diceva , riferendosi alla potenza della tecnologia: "Voi avete zero privacy, rassegnatevi". La verità è che il rischio non viene dalla tecnologia, viene dalla politica, dalla pretesa di una politica autoritaria di usare tutte le occasioni per poter aumentare il controllo sui cittadini. Controllo di massa, non controllo mirato. Politica in senso lato. Perché sono i governi, le agenzie governative di sicurezza che in questo modo cercano di impadronirsi della maggior quantità di potere possibile.

C’è un "pericolo democrazia"?
Questo momento rappresenta un passaggio istituzionale importante, vi è una prepotenza governativa, rispetto alla quale i parlamenti non se la sentono di resistere: tanto in Spagna quanto in Francia, in sostanza c’è una accettazione sia della maggioranza che dell’opposizione. In Francia addirittura l’iniziativa è di un governo socialista, anche se sappiamo chi è Manuel Valls e perché è stato scelto. Tutto questo sta spostando l’attenzione e le garanzie nella direzione degli organismi di controllo giurisdizionali, cioè gli organismi che vegliano sulla legittimità di queste leggi dal punto di vista del rispetto delle garanzie costituzionali. Che sono le Corti Costituzionali in Europa e negli Stati Uniti le Corti Federali.
Non vorrei che si dicesse "Eh cari miei voi la privacy l’avete già perduta perché la tecnologia in ogni momento vi segue e vi controlla", perché la verità è che l’attentato ai diritti fondamentali legati alle informazioni viene dalla politica e questo è il punto. Non è la tecnologia.

La motivazione che viene proposta dai governi è sempre di voler individuare i criminali, non spiare i cittadini e con la tecnologia è possibile farlo…
Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è politicamente ammissibile e giuridicamente accettabile. C’è un momento in cui la politica si deve assumere le sue responsabilità e non può dire "ma la tecnologia già rende disponibile tutto questo".
La legge spagnola e la legge francese mettono radicalmente in discussione la libertà di manifestazione del pensiero. Finora commettere un reato nell’accesso ad un sito era previsto solo per la pedopornografia. Adesso in Spagna è previsto "l’indottrinamento passivo": il semplice fatto che io vada su un certo sito può essere reato.
D’altro canto, nella norma francese in discussione si è introdotta la possibilità di mettere in rete strumenti che consentono di seguire continuamente l’attività delle persone. Nella legge francese si usa addirittura l’espressione "boîtes noires" per definire dei congegni che riducono le persone ad oggetti, utilizzando un apparato tecnologico per verificarne minuto per minuto, il comportamento. E qui c’è una trasformazione stessa del senso della persona, della sua autonomia, del suo vivere libero. La Germania ha stabilito che non è possibile farlo, esiste una privacy dell’apparato tecnologico che si utilizza, estendendo l’idea di privacy dalla persona alla strumentazione di cui si serve.

Inoltre, relativamente alla possibilità di entrare all’interno dell’apparato tecnologico dell’utente, che è una delle ipotesi al vaglio del legislatore, la Corte costituzionale tedesca recentemente ed ancor più recentemente la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno affermato che non è legittimo.
Se la Francia porta avanti questa discussione e la Germania resta ferma sui principi enunciati dalla sua Corte Costituzionale allora avremo nuovamente un’Europa a due velocità, dove i cittadini francesi perdono velocità, perdendo diritti.

Ma ormai forniamo, consapevolmente o meno, i nostri dati ovunque, in rete. Non è già andata perduta la nostra privacy?
Io so che se uso la carta di credito in quel momento sono localizzato, viene individuato che tipo di transazione viene effettuata e quindi si sa qualcosa sui miei gusti, sulle mie disponibilità finanziarie e così via. Però questo argomento non giustifica il fatto che poi, la conseguenziale raccolta delle informazioni implichi che chiunque se ne possa impadronire impunemente. Anzi il problema di uno stato democratico è quello di rendere compatibile la tecnologia con la democrazia. È questo il punto. Uno stato che dice di voler mantenere il suo carattere democratico non dice "visto che ho una tecnologia disponibile la uso in ogni caso".
Il problema ulteriore è che si sta determinando un’alleanza di fatto tra soggetti che trattano i dati per ragioni economiche e agenzie di sicurezza che li trattano per finalità di controllo. Perché, dopo l’11 settembre in particolare, l’accesso ai dati raccolti dalle grandi società da parte dei servizi di intelligence c’era e c’è stato solo l’accenno a qualche timida reazione, ad esempio, da parte di Google. Sappiamo che in quel momento si sedettero allo stesso tavolo gli "Over the Top" (intendendo con questo termine le grandi multinazionali dell’ICT - ndr) ed i responsabili delle agenzie di sicurezza.

Ma oltre la questione giuridica vi è la necessità di una maggiore consapevolezza degli utenti, che si rendano conto anche di cosa accade, di come sono gestiti i propri dati che capiscano l’uso che ne viene fatto…
Assolutamente d’accordo. C’è un grande problema culturale. È un problema che investe il sistema dell’istruzione ed il sistema dei media. Molte delle sentenze che ho citato, infatti, provengono da richieste di semplici cittadini o di associazioni che hanno portato davanti alle corti questi comportamenti. Quindi non c’è dubbio che oggi il problema, in largo senso, della "consapevolezza civile" è un problema fondamentale.
I cittadini non sanno ad esempio, che possono rivolgersi persino al ministero dell’Interno per sapere se vi sono trattamenti in corso sul proprio conto. Addirittura in Italia, tramite il Garante, il cittadino in alcuni casi può accedere ai dati trattati dai servizi di intelligence che lo riguardano.

 

l'Espresso
08 05 2015

Insieme per il cambiamento e per l’Italia. Tutti quanti e nessuno escluso. Ex leghisti e ex fascisti, storicamente omofobi, candidati nel segno del renzismo. Un PD transgenico del secondo tipo attraversa l’Italia, dal Veneto alla Campania. Le coalizioni di centrosinistra alle prossime elezioni regionali presentano tra le loro fila candidati che mettono in imbarazzo il Partito Democratico che in questi giorni si appresta a discutere il ddl Cirinnà sulle Unioni Civili in Parlamento.

Si parte dal nord: in Veneto il Pd ha schierato Alessandra Moretti nella speranza di vincere sul territorio leghista, lacerato tra i lombardi di Salvini che sostengono il governatore uscente Luca Zaia e il veneto Flavio Tosi che va al voto da solo. Ma proprio tra candidati al consiglio regionale che sostengono Ladylike spunta il nome di Santino Bozza, per la lista “Uniti per il Progetto Veneto autonomo'. Bossiano di ferro ed ex consigliere regionale del Veneto della Lega Nord, Bozza è noto alle cronache per le sue uscite omofobe verso la comunità gay: "Da noi in Veneto si chiamano culattoni" aveva affermato nel 2012 ai microfoni della trasmissione radiofonica la Zanzara. "Non conosco la parola gay, io li chiamo culattoni. Gay è in inglese, io non conosco l’inglese. Qui in Veneto li chiamiamo culattoni. A me i gay non piacciono, se me li trovo vicino mi stacco di qualche metro. Sono diversi. Purtroppo esistono, sono malati, sbullonati".

La candidata Moretti, sommersa ieri dalle critiche da parte della comunità LGBT, si è così giustificata: “Bozza è candidato nella lista "Veneto Autonomo", ma le posizioni sui diritti civili sono espresse dall'intera coalizione”. Ma sul sito, a sette mesi dalla candidatura, il programma sui diritti manca. Stando a quanto dichiarato dall’eurodeputata saranno presentati lunedì i suoi impegni sul tema. Riecheggiano però parole dell’ex leghista sulle coppie omosessuali: “E se avessi avuto un figlio gay. Lo avrei curato, lo avrei portato anche a donne personalmente. Se avessi avuto una figlia donna, avrei fatto la stessa cosa, le avrei insegnato l’educazione sessuale”

Una storia molto simile in Campania, dove a marciare contro i gay è il candidato al consiglio regionale in sostegno al candidato presidente del Pd Vincenzo De Luca, si chiama Carlo Aveta che sul suo profilo facebook scrive: “Si può ancora dire in un paese "libero e democratico" che questi mi fanno schifo?" riferendosi nel 2014, durante la stagione dei Pride, a una foto dell’evento. Il curriculum del politico campano candidato con la lista Campania in rete, spicca per essere la coalizione del centro sinistra: Alleanza Nazionale e poi ne La Destra di Storace e difensore del ventennio fascista, almeno "fino al 1938" (cioè fino all'approvazione leggi razziali). Rispondendo alle recenti accuse di omofobia trasmissione. Radio Club 91, durante la trasmissione "I Radioattivi” ha precisato la sua posizione su Radio Club 91: "Se chiediamo a 10 italiani se si indignano di vedere persone nude che si baciano, probabilmente 9 su 10 la pensano come me".

Mentre De Luca minimizza la vicenda “Sciocchezze di Aveta ma una brava persona”.

Monta il malumore tra la comunità LGBT, Flavio Romani, Presidente di Arcigay trova “inammissibile l’incompetenza con cui trattano un tema come l’omofobia ed è avvilente che due personaggi che aspirano a cariche pubbliche facciano spallucce davanti a prese di posizione che lacerano il tessuto sociale e offendono cittadine e cittadini”.

Ma anche all’interno dello stesso PD l’imbarazzo è palese; Daniele Viotti, parlamentare europeo Pd, ha dichiarato: “Matteo Renzi deve intervenire, sia come segretario del Partito Democratico, sia come Presidente del Consiglio. Stare zitto su questo argomento vuol dire ledere la dignità di tutte le persone gay e lesbiche di questo paese, alla loro famiglie e a tutto l’elettorato laico e progressista di questo paese”.

Simone Alliva

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