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L'ESPRESSO

Il mobbing cresce, ma
 non si dice

  • Mag 06, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6300 volte

L'Espresso
06 05 2015

Di mobbing, parola mutuata una ventina d’anni fa dall’inglese per indicare i diversi tipi di molestie morali e di soprusi esistenti sul lavoro, in Italia non si parla più. La politica, dopo aver promesso per anni una legge apposita, ha rimosso la questione, facendo del nostro uno dei pochi Paesi europei senza una norma sul tema; i medici del lavoro, che all’inizio dello scorso decennio avevano per primi sollevato il problema, sono sempre più invitati a occuparsi d’altro per non penalizzare la propria carriera; e l’Inail non riconosce più come “malattia lavorativa” le patologie psicofisiche determinate da mobbing, dopo una sentenza del Tar del Lazio frutto di un ricorso di Confindustria.

Di mobbing non si parla, però lo si pratica: lo stress patologico determinato da vessazioni dei superiori o dall’eccesso di pressioni sul lavoro, dicono i giuslavoristi e gli psichiatri che se ne occupano, non solo non è scomparso ma è in aumento, in tempo di crisi e di flessibilità. E se la legge sul mobbing è stata dimenticata, in compenso è arrivata la norma che concede alle aziende la libertà di demansionare un dipendente, insieme alla possibilità di controllarlo a distanza con le nuove tecnologie. Entrambe le novità hanno avuto un’eco ridotta, dato che il confronto sul Jobs Act si è concentrato sull’articolo 18; ma sia il demansionamento sia il telecontrollo riguarderanno tutti i lavoratori dipendenti, non solo i neoassunti, quindi cambieranno le condizioni di lavoro per milioni di persone.


IL GOLEM DELLA PERFORMANCE
«Non ci sono dubbi che negli ultimi anni si sono moltiplicate le richieste di terapia psicologica legate al disagio sul lavoro», dice lo psichiatra Antonio Vento, già docente alla Sapienza e presidente dell’ Osservatorio mobbing-bossing di Roma. Che specifica: «Sono aumentate soprattutto le depressioni, ma anche i tentativi di suicidio, in particolare tra le persone mature». Ma «il mobbing e lo stress lavoro-correlato oggi vengono considerati dei lussi, qualcosa di cui non vale la pena occuparsi, in una congiuntura di crisi», aggiunge Rodolfo Buselli, il medico che dal 2002 coordina il Centro per il disadattamento lavorativo di Pisa, tra i più attivi d’Italia.

Buselli ci lavora ogni giorno da anni, con le persone che si sono ammalate di lavoro, e ha visto il fenomeno cambiare sotto i suoi occhi: «I blocchi del turn-over e i tagli di personale, diffusi in questo periodo, provocano un aumento di carico di lavoro e di richieste di performance: questa è diventata la prima causa di patologie legate allo stress lavorativo», dice. «Altri pazienti, specie nel privato, arrivano qui che invece sono già stati licenziati o cassintegrati: e hanno il coraggio di denunciare la malattia solo a quel punto». In questi casi, lo scopo non è più sottrarsi alle pressioni e alle vessazioni subite, ma ottenere il riconoscimento della malattia professionale o un risarcimento da parte dell’azienda.


RISARCIMENTI? MISSIONE IMPOSSIBILE
Entrambi i percorsi però sono sempre più in salita: «l’inail, che una volta era aperta al tema, oggi riconosce la patologia da “costrittività organizzativa” solo nel 13 per cento dei casi», dice buselli. Se poi si va alle vie legali contro il datore di lavoro (o ex) le prospettive sono ancora peggiori: mentre in diversi paesi d’Europa (Scandinavia e Germania in testa) le leggi per arginare e prevenire il mobbing esistono da anni, in italia appunto non è mai stata fatta alcuna norma nazionale.

I casi concreti, quando arrivano in tribunale, vengono fatti rientrare nelle leggi contro la discriminazione o più spesso in altri articoli: quelli sul danno biologico o morale e quello che obbliga il datore di lavoro a garantire l’integrità psicofisica dei dipendenti. Le malattie più frequentemente denunciate sono psicologiche (ansia e depressione, ma anche aggressività, dipendenze, perdita dell’autostima, fino ai pensieri suicidi-omicidi) ma spesso anche fisiche (cefalee, tachicardie, gastroenteriti, insonnia, disturbi dell’alimentazione, crollo della libido). Se non ci sono patologie, per fare causa ci si appella al danno professionale, cioè alla perdita di di reputazione o di chance di carriera, che però è ancora più difficile da dimostrare..


In assenza di una legge, la magistratura interpreta caso per caso avvalendosi della giurisprudenza e delle sentenze della Cassazione: la più importante delle quali, nel 2006, ha stabilito che non è risarcibile il mobbing in sé (cioè i soprusi o le pressioni morali) ma solo le sue conseguenze, come un danno provato alla salute; inoltre, dev’essere chiara “l’intenzionalità della vessazione” da parte del capo. Il risultato? «A tutti quelli che si rivolgono a me, ormai sconsiglio di far causa», dice Mario Meucci, giuslavorista e docente universitario tra i massimi esperti in Italia del fenomeno: «Sono troppo scarse le possibilità di dimostrare di avere subito un danno, in un recinto così stretto», spiega. «L’inversione di tendenza nelle sentenze in senso sfavorevole al lavoratore è ormai evidente da anni», conferma lo psichiatra Antonio Vento. E i motivi - legati allo spirito del tempo - sono gli stessi che hanno bloccato qualsiasi legge: «Confindustria e le altre parti datoriali sono sempre state completamente ostili al riconoscimento del mobbing», dice Meucci. «Lo considerano un “laccio e lacciuolo” alla libera impresa». Queste pressioni hanno finito per prevalere nella politica e non soltanto.

L’ACCANTONAMENTO LEGALIZZATO
Gli unici casi in cui fino a ieri il lavoratore aveva qualche speranza di vincere in tribunale, dice ancora Meucci, sono quelli legati alla violazione dell’articolo 2103 del codice civile, secondo il quale il lavoratore non può essere costretto a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto. Tuttavia anche questo principio è stato appena cambiato, nel Jobs Act: adesso il demansionamento è legalizzato, seppur solo di un livello, a parità di salario e in caso di riorganizzazioni aziendali. Ma, soprattutto, nota Meucci, dal 7 marzo scorso qualsiasi lavoratore può essere spostato a «mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime svolte», mentre prima si parlava di «mansioni equivalenti ». Non è un cambio da poco: in sostanza il lavoratore può essere unilateralmente spostato da un lavoro che sa fare e fa da anni a qualsiasi altro, purché rientri nello stesso livello di inquadramento contrattuale: «Un insieme molto ampio ed eterogeneo», dice Meucci, «quindi una riforma dello “ius variandi” che mette il lavoratore nelle mani dei superiori, i quali possono “accantonarlo” a piacimento», senza nemmeno bisogno di una riorganizzazione aziendale.

SO DOVE SEI, SO COSA FAI
L’altro aspetto del Jobs Act che ha creato qualche perplessità tra chi si occupa di mobbing è quello che liberalizza parzialmente il controllo a distanza, non ancora entrato in vigore perché manca il relativo decreto attuativo (vedi articolo a pagina 16) Anche questo passaggio è considerato da alcuni un fattore facilitante del mobbing, non solo perché può essere usato in modo discriminatorio (un lavoratore inviso ai capi che viene controllato più degli altri) ma soprattutto per la componente di stress insita nel sentirsi spiato. Secondo Meucci, tuttavia, il lato più discutibile del provvedimento consiste nell’aver tolto all’ispettorato del lavoro la decisione sulle modalità di questi telecontrolli, che ora saranno decisi e gestiti dai datori di lavoro. «La filosofia legislativa che sembra prevalere», dice Meucci, «è quella di delegare tutte le tematiche del lavoro alla parte datoriale, estraniando qualsiasi soggetto esterno a cui il lavoratore prima poteva rivolgersi: enti ispettivi, giudici, sindacati. Il datore diventa titolare di tutto, dà il lavoro e lo toglie, dà le mansioni e le cambia, decide se e come controllare chi. In questo modo, non c’è più alcun deterrente nei confronti di qualsiasi pratica, mobbing incluso». Quando poi, in futuro, nelle aziende lavoreranno molti assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, quindi licenziabili, «o il lavoratore accetterà di peggiorare in ogni momento le sue condizioni o potrà essere mandato via con un indennizzo di poche mensilità», come ha notato Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna.


IL DANNO E LA BEFFA
Questo mix di provvedimenti fa dire a Vento, sulla base della sua esperienza psichiatrica, che «le leggi recenti, da quella Fornero in poi, hanno peggiorato molto la situazione medica», soprattutto per il clima diverso che si respira nelle aziende, dove i lavoratori si sentono più deboli e i capi, talvolta, in diritto di fare quasi di tutto. Di per sé questo non è mobbing, tuttavia può creare il terreno perché poi il mobbing si realizzi. Secondo Vento, senza molti giri di parole, «il Jobs Act stimola il mobbing e le sue conseguenze mediche», così come in passato si è registrato «un aumento di patologie psicofisiche derivanti da disagio sul lavoro dopo l’approvazione delle diverse leggi che restringevano i diritti dei dipendenti».

In altre parole, secondo lo psichiatra, alla mancanza di una legge che prevenga e punisca il mobbing si aggiunge la beffa di norme che indirettamente lo provocano. Vento nota anche che, nel determinare vantaggi e svantaggi economici di ogni nuova norma sul lavoro, «non viene mai calcolato il costo dei suoi effetti psicologici», cioè la minor produzione determinata dalla diffusione di massa di ansia, stress e depressione (o delle malattie psicosomatiche che vanno a incidere sulla spesa per la sanità pubblica). Per il giuslavorista Meucci, «il legislatore ha operato con uno sguardo al passato, rivelatore di una propensione all’arretramento», e «la riscrittura dell’art. 2103 (quello sul demansionamento orizzontale) è un arretramento delle tutele per la parte debole del rapporto di lavoro, accompagnata dalla privazione dell’intervento riequilibratore del giudice, in caso di arbitrio del datore di lavoro».

Al di là degli eventi recenti, tuttavia, più di vent’anni di studi hanno evidenziato che sotto l’ombrello della parola “mobbing” sono state incluse situazioni molto - forse troppo - diverse: e un’estensione illimitata del concetto non aiuta a definire le situazioni di soprusi reali. Anzitutto il termine mette insieme il cosiddetto mobbing orizzontale (il gruppo di colleghi che isola e molesta un singolo, senza una connotazione gerarchica) e il mobbing verticale (cioè i capi che maltrattano un sottoposto).

All’interno di quest’ultimo insieme (propriamente chiamato “bullying at work”, bullismo al lavoro), si mescolano poi il mobbing strategico (cioè finalizzato a demansionare il lavoratore o a ottenerne le dimissioni) e quello non intenzionale, magari caratteriale (il capo gradasso o maleducato). Ancora, nell’universo del mobbing viene inserito anche quello che gli esperti chiamano invece “straining”, cioè lo stress eccessivo sul lavoro dovuto a pressioni violente per il raggiungimento di obiettivi: secondo Vento «circa il 60-70 per cento dei casi di mobbing rientrano nello straining». Un quadro dai confini frastagliati in cui è stato inevitabile, specie negli anni scorsi, anche il fiorire di “falsi positivi”, cioè di persone che si sono ritenute vittime di mobbing impropriamente, per fondati procedimenti disciplinari, per fisiologici dissidi, per semplici non avanzamenti di carriera etc.

Questi casi, oggi, sono però facilmente riconoscibili dagli esperti, compresi i medici del lavoro, che hanno elaborato specifici test. Più grave è semmai il problema opposto, cioè il sempre minore riconoscimento del mobbing vero, l’accettazione diffusa di comportamenti sbagliati. Nel giugno scorso, alla conferenza internazionale sul “Workplace Bullying and Harassment” , a Milano, i relatori italiani hanno sgranato gli occhi nell’apprendere che in Scandinavia ormai è considerato mobbing anche un capo che alza la voce: una sensibilità diversa da quella italiana, tanto nel rispetto quanto nell’etica del lavoro. Ma l’abisso rispetto al Nord Europa è emerso anche nelle pratiche di monitoraggio e prevenzione, consistenti non solo negli sportelli antimobbing ma soprattutto nei corsi rivolti ai capi, ai dirigenti, ai quadri. Insomma, è questione anche di pedagogia e di cultura: proprio come per lo stalking, su cui invece anche in Italia è stata fatta una legge. Forse perché, al contrario del mobbing, non incideva sugli interessi economici di nessuno.

L’Espresso
05 05 2015

Cristina, professione architetto, per nascondere la pancia che cresceva ha indossato per quasi sette mesi un corpetto contenitivo. E’ stata operata con un cesareo d’urgenza, sua figlia è nata con tre mesi d’anticipo ed è rimasta per sessanta giorni in terapia intensiva. Daniela, impiegata in un supermercato con la mansione di scarico merci, la sua gravidanza l’ha rivelata quasi subito. Per il suo capo però non ha fatto molta differenza: le ha detto che poteva comunque continuare a svolgere la maggior parte del lavoro “fisico” e si è mostrato infastidito all’idea di dover mettere in sicurezza l’ambiente di lavoro, secondo la legge. Quando ha avuto un aborto spontaneo, è stata trasferita in un altro negozio con conseguente degradamento delle mansioni e meno soldi in busta paga. Ad Alessia, donna manager, l’azienda ha “perdonato” il primo figlio. Quando però è rimasta incinta la seconda volta, al rientro al lavoro ha trovato la sua scrivania occupata da una collega più giovane e più disponibile agli straordinari notturni.

Non è un Paese per mamme, questo. E’ invece la fotografia di un’Italia dove dominano le vessazioni, le ordinarie ingiustizie, le discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende, che hanno come bersaglio le lavoratrici da poco diventati madri, considerate dalle aziende “meno produttive”.

Lo confermano i sindacati e le associazioni di categoria, che ogni giorno si ritrovano a ricevere segnalazioni e a raccogliere storie di donne vittime di mobbing al rientro dalla maternità o addirittura a gravidanza ancora in corso. Mentre il governo Renzi promette bonus bebè e incentivi alle neo famiglie ma sembra ignorare questi piccoli e grandi drammi che si consumano quotidianamente, in silenzio, negli uffici italiani. Fatta eccezione per qualche rara iniziativa, come quella annunciata poche settimane fa dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha incaricato gli ispettori ministeriali di avviare un’indagine sullo stato dei congedi di maternità, in particolar modo per le libere professioniste.

Mentre nelle aziende si continua a demansionare, isolare e provare psicologicamente le lavoratrici fino a provocarne le dimissioni. E neppure una legge severa come la 151/2001 riesce ad arginare abusi e ingiustizie di genere.

I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare.

Sempre secondo l’Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Con un’incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Anche se la situazione più allarmante si registra nelle metropoli, Milano in testa.

I casi che si trasformano in effettive denunce, però, sono pochi. Ad averla vinta, inoltre, sono quasi sempre le aziende: nella maggior parte dei casi la lavoratrice si limita ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro e, senza neppure portarla a termine, stremata da quella che diventa un’autentica guerra psicologica, rassegna le dimissioni. Spesso – confermano i sindacati – la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre.

METROPOLI SPIETATE
Le storie sono numerosissime. Attraversano l’Italia in una desolante geografia che da Milano si srotola fino a Palermo. Per far fronte al problema i sindacati hanno creato sportelli appositi, in modo da dare alle donne i giusti consigli e fornire se necessario assistenza legale e psicologica.

Nel capoluogo lombardo, ad esempio, al Centro Donna della Cgil solo negli ultimi tre anni si sono rivolte 1.771 lavoratrici. Nello specifico, secondo i dati ottenuti da l’Espresso, 628 nel 2012, 634 nel 2013 e 509 nel 2014. In particolare, nell’anno appena trascorso, 155 persone hanno chiesto informazioni su congedi parentali (fra cui 33 papà), 194 hanno chiesto aiuto per conciliare maternità e lavoro, 49 hanno aperto un contenzioso per discriminazione dopo la maternità e 14 hanno denunciato mobbing di genere.

 

Dalle statistiche emerge una cruda realtà: le donne con figli hanno un tasso di occupazione di 14 punti inferiore rispetto a quelle senza figli. Mentre molte di loro (circa il 14%) tendono ad abbandonare il lavoro entro il primo anno di vita del bambino. Confermano dal Centro Donna della Camera del Lavoro: “Si tratta di lavoratrici che arrivano da realtà piccole o piccolissime, dove spesso il sindacato non è presente. Professioniste qualificate, che amano il proprio lavoro, però dopo la maternità vengono emarginate o demansionate per aver osato domandare orari più compatibili con la loro nuova condizione, per aver legittimamente avanzato la richiesta dei permessi per allattamento o, semplicemente, perché durante la loro assenza il loro ruolo è stato affidato a qualcun altro”.

Nella Capitale la situazione non cambia. Qui le lavoratrici che si sono rivolte agli sportelli di Cgil e Cisl sfiorano quota 1.600 in tre anni. A Torino i casi registrati sono stati 1.150 in tre anni. A Bologna 926, a Cagliari 584. A Palermo si contano 416 casi in tre anni, una decina quelli già segnalati nei primi mesi del 2015 solo agli sportelli della Uil. “L’assenza sul territorio siciliano di strutture dedicate, l’alto costo dei nidi privati, la difficoltà degli orari di ufficio e le malattie del bambino fanno sì che l’aver un figlio, per queste donne, rappresenti un vero e proprio dramma”, spiega la psicologa Adriana Aronadio, responsabile dello sportello Mobbing e Stalking della Uil palermitana.

Anche a Napoli il panorama non è roseo. Tanto che per far fronte all’emergenza lo scorso 5 marzo la Cgil ha aperto uno sportello interamente dedicato a queste tematiche che nei prossimi mesi si estenderà anche ad altre province campane, dove a occuparsene sono Teresa Potenza e Grazia Zimmaro della Cgil Napoli e Campania ed Elena Merolla del Silp Cgil, una squadra di sindacaliste tutta al femminile che sta già cominciando a ricevere le prime segnalazioni. “Perché il mobbing di genere e la discriminazione verso le donne e le madri– spiegano - sono considerati né più né meno una forma di violenza”.

La casistica è variegata. A essere discriminate dopo la nascita di un figlio sono in uguale maniera libere professioniste e lavoratrici dipendenti. Neppure una categoria è immune: fra di loro ci sono avvocati, architetti, segretarie, cameriere, commesse e dirigenti.

 

I settori più diffusi – confermano dal Centro Donna - riguardano il commercio, i pubblici esercizi, gli studi professionali ma anche settori come le telecomunicazioni e l’editoria. Fra gli ultimi casi esaminati dal sindacato c’è per esempio quello di una commessa, mamma di tre bimbi piccoli, che è stata mandata a lavorare a 40 chilometri da casa con chiusura serale del negozio. O quello di una madre adottiva, alla quale sono stati negati i permessi giornalieri con la motivazione: “Hai avuto quello che desideravi? Cosa pretendi di più?”.

 

“Molte di loro – spiegano – ci chiedono informazioni sulla conciliazione fra lavoro e famiglia o su richieste per flessibilità di orario di ingresso, riduzione delle domeniche lavorative o avvicinamenti a casa.”
Una prospettiva desolante, questa. Che neppure le numerose direttive europee e gli accordi fra le parti riescono ad attenuare. “La maternità – è la dura conclusione della Cgil – continua a rimanere per le donne italiane un ostacolo al lavoro e alla carriera. Per le aziende, la donna che diventa madre viene vista quasi sempre sistematicamente come un problema”.

SEI MAMMA? LICENZIATI
Un problema che però le aziende tendono a risolvere senza mai sporcarsi troppo le mani. Perché anche il mobbing ha le sue regole. E così non sarà mai il datore di lavoro a prendere l’iniziativa e a licenziare. La legge, infatti, è dalla parte della donna: non si può mandare via una dipendente incinta o appena rientrata dalla maternità. Quindi sarà l’azienda – se l’obiettivo finale è quello – ad aspettare che sia la lavoratrice stessa, psicologicamente provata, a chiedere le dimissioni.

Sono guerre dolorose e logoranti, dove la sofferenza è a senso unico. Come racconta a l’Espresso Federica, segretaria milanese di 35 anni tuttora in causa con un grosso studio legale internazionale. “Ho saputo di essere incinta a settembre di due anni fa. Il mio capo se n’è accorto quasi subito, soffrivo di nausee e capogiri. E’ arrivato a dirmi che dovevo recuperare la sera il tempo perso in bagno a vomitare. Così entravo alle 9 di mattina e uscivo alle 9 di sera, quando andava bene”. “Alla fine del secondo mese ho avuto una minaccia di aborto - prosegue - la mia ginecologa mi ha raccomandato di stare immobile a letto. Il mio capo l’ha presa come un affronto personale”. Così, una volta nato il bambino e tornata al lavoro, Federica si è ritrovata in un ambiente ostile, con tutti contro. “Quando sono rientrata in ufficio non ci potevo credere: la mia scrivania era stata letteralmente occupata da un’altra assistente, alla quale erano stati assegnati i miei fascicoli. Mi sono ritrovata a dover eseguire ordini da parte di una ragazza di 23 anni, che mi trattava con sufficienza. Per i colleghi era come se non ci fossi, non mi salutavano neppure. Ogni volta che dovevo mettere piede in quell’ufficio mi sentivo morire. Sono dimagrita otto chili, perdevo i capelli. Dopo sei mesi in quelle condizioni ho deciso che non ce la facevo più, e ho scritto una lettera di dimissioni. Solo che all’ultimo minuto, la sera prima, ho deciso di non inviarla. Non potevo dargliela vinta”.

Ma se qualcuno decide di lottare, la maggior parte delle neo mamme vittime di mobbing preferisce arrendersi, pur di non continuare estenuanti duelli psicologici. Anche perché, dimostrare il mobbing, non è semplice. Conferma l’avvocato Sara Brioschi, specializzata in diritto del lavoro: “L’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E non è cosa facile, visto che i datori di lavoro sono spesso abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail. Tutto si gioca sul piano psicologico. E quasi sempre una delle tecniche più utilizzate per spingere la dipendente ad andarsene è il trasferimento: si chiede a una donna che ha appena avuto un figlio di cambiare città. Tutto perfettamente legale, visto che il contratto lo prevede. Ma lei, che avrà paura di sconvolgere la propria vita e il proprio equilibrio con un bambino appena nato, dirà di no”.

Dimettersi, quindi, è l’errore più comune in cui cadono le lavoratrici. Che, anche quando ottengono una vittoria in Tribunale, tendono a gettare la spugna e a cercare un nuovo impiego. “Non bisogna mai arrendersi, anche se è un percorso molto duro – consiglia il legale – bisogna andare avanti con la causa, dimostrare il mobbing. E quando il giudice dà ragione alla lavoratrice, bisogna tornare al lavoro. Altrimenti avranno comunque vinto loro”.

GRAVIDANZE NASCOSTE
Ma se, appunto, la legge protegge le lavoratrici dipendenti in stato interessante, che con certificato medico possono persino decidere di mettersi in maternità già alla fase iniziale della gravidanza, la stessa tutela non vale per le libere professioniste. Che non hanno l’obbligo dell’astensione obbligatoria dal lavoro e non hanno diritto a indennità in caso di assenze per gravidanza a rischio. E che molto spesso, per non perdere i progetti ai quali stanno lavorando e per non vedersi sostituite nel loro ruolo, tendono a nascondere la pancia fino a quando diventa impossibile. Trascurando se stesse e i figli che portano in grembo. Come racconta Cristina, architetto milanese di 32 anni: “Lavoravo in uno studio da quattro anni, a partita iva. Un ambiente di lavoro molto competitivo, con orari massacranti, dove ho faticato davvero molto a farmi prendere in considerazione vista la mia giovane età, tanto che prima di assegnarmi un progetto internazionale da gestire interamente da sola sono dovuti passare tre anni. Scherzando ma non troppo, il mio capo a noi ragazze lo diceva spesso: vedete di non rimanere incinte”.

La gravidanza è arrivata ugualmente, voluta e cercata. Però Cristina, terrorizzata all’idea di non riuscire a portare a termine quel progetto e di perdere il suo ruolo all’interno dello studio, ha deciso di nasconderla a tutti. “Mi appiattivo il seno con una fascia e fino alla fine del sesto mese ho indossato un corpetto contenitivo per nascondere la pancia che cresceva.” Al settimo mese la sua condizione era ormai evidente. Anche se lei ha tenuto duro, lavorando nove ore al giorno fino a quando è entrata in travaglio prima del termine. I suoi sforzi, però, sono stati vani. Cristina non è riuscita a concludere il suo lavoro. Che, mentre era ancora sul letto d’ospedale reduce da un cesareo d’urgenza, è stato assegnato a una sua collega. Il prezzo più alto, però, è stato pagato da sua figlia: nata prematura con seri problemi respiratori, è stata tenuta per due mesi in terapia intensiva. Una conseguenza forse provocata proprio dalla compressione dell’utero della madre.

Storie che hanno dell’incredibile, che sembrano rubate a un romanzo tragico e anacronistico. Che però nella realtà succedono ogni giorno. Come racconta Monica, traduttrice freelance per un piccolo editore, che ha lavorato fino al giorno stesso del parto. E che, pur essendosi assentata solo per sessanta giorni, quando ha chiesto di poter riprendere la sua attività ha trovato un’amara sorpresa: la pubblicazione che stava traducendo e che le avrebbe permesso di guadagnare una discreta somma era stata ormai assegnata ad un’altra traduttrice “per esigenze aziendali”.

CAUSE ESTENUANTI
Ad occuparsi da 15 anni senza sosta di questo problema è Fernando Cecchini, responsabile dello Sportello d’ascolto Disagio Lavorativo e Mobbing della Cisl Roma e Lazio, autore del libro “Come il mobbing cambia la vita”. Che ha appena redatto una relazione contenente dati e denunce da tutta Italia, aggiornata ai primi mesi del 2015.

Le segnalazioni sono tantissime. Come quella di Daniela, nome di fantasia di una cassiera impiegata in un supermercato del Nord Italia. “I miei problemi sono iniziati dopo aver consegnato all’azienda il mio certificato di gravidanza – è la sua testimonianza - lavorando in piedi tutto il giorno con mansioni che prevedono la movimentazione del materiale con carico e scarico, avevo diritto per legge alla maternità anticipata (o a una riorganizzazione del mio lavoro che prevedesse mansioni alternative), di cui però il datore di lavoro affermava di non essere a conoscenza. Anche dopo essersi informata, la direzione mi ha detto che probabilmente avrei potuto svolgere “la maggior parte del lavoro”. “Sono andata all’ufficio direttamente preposto al ricevimento dei moduli per la maternità anticipata – prosegue – e dopo questa vicenda il direttore mi ha fatto pesare il fatto che “per causa mia” aveva dovuto repentinamente procedere alla produzione di un documento sulla sicurezza dell’ambiente lavorativo che l’azienda non possedeva. Sono rimasta a casa in maternità anticipata finché ho avuto un aborto spontaneo. Rientrata al lavoro, sono stata trasferita in un altro supermercato con degradamento delle mansioni ed effetti deleteri in busta paga”.

Perché le battaglie per dimostrare il mobbing sono, appunto, senza esclusione di colpi. Dove cambiano le modalità, a seconda che ci si trovi in una realtà piccola o in un grande gruppo. Spiega ancora l’avvocato Sara Brioschi: “Nei casi delle piccole aziende tutto è solitamente più difficile. Il clima, per chi che subisce discriminazioni, diventa irrespirabile. Perché quasi mai c’è solidarietà da parte dei colleghi, che a loro volta hanno paura di perdere il lavoro, e allora contribuiscono a isolare la lavoratrice, si rendono complici delle vessazioni. E, quando sono chiamati a testimoniare, non si presentano”.

Nei casi delle holding tutto è relativamente più semplice. “Il mobbing da maternità – prosegue il legale – è una situazione che le grosse aziende, soprattutto le multinazionali, vogliono evitare di far trapelare, perché crea imbarazzo e reca un danno di immagine. Quindi si cerca di risolvere tutto con una transazione economica, senza troppo clamore e battaglie in tribunale”. La lavoratrice, dunque, attiva il proprio avvocato che “tratta” direttamente con i legali della holding. “Le trattative possono durare anche mesi interi– spiega ancora il legale – però quasi sempre alla fine si ottiene un accordo vantaggioso per la lavoratrice”.

E poi c’è chi non ha neppure il coraggio di iniziarle, queste battaglie. E allora subisce in silenzio, accettando di essere messa in un angolo. “Nell’ultimo anno –fanno sapere dall’Istituto Nazionale Assistenza Sociale - solo tre persone, ai nostri sportelli, hanno concretizzato in denuncia la loro segnalazione. Piuttosto, sopportano stoicamente prevaricazioni e demansionamenti”. Mobbing e crisi economica, infatti, viaggiano di pari passo.

Come conferma il professor Antonio Vento, presidente dell’Osservatorio Nazionale Mobbing, che arriva al nocciolo della questione: “Siamo di fronte a un circolo vizioso di difficile soluzione: da un lato la crisi genera precarietà e incertezze per il futuro lavorativo e costituisce terreno fertile per il mobbing, dall’altro induce i lavoratori a tenersi stretto un lavoro precario, mal retribuito, non qualificato, subendo persino atteggiamenti e comportamenti vessatori. Dove lo specchio di questa situazione è il triste primato conquistato dall’Italia: il costo più basso dei licenziamenti a livello mondiale”.

Violenza sulle donne, dove sono i fondi?

  • Apr 28, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 8097 volte

L’Espresso
28 04 2015

Prima, c'è la legge: e articoli, titoli, trionfi per l'Italia che mette in pratica la Convenzione europea sulla lotta alla violenza contro le donne e finalmente impone una serie di norme e finanziamenti per contrastare gli abusi, subiti secondo i sondaggi da quasi un'italiana su tre. È l'agosto del 2014.

Poi, c'è il silenzio. Le regioni sono chiamate a decidere come, dove e quando spendere i 16,5 milioni di euro che il governo ha stanziato per il biennio 2013-2014, aggiungendone altri nove per arrivare da qui al 2017. Le risposte dovrebbero essere contenute in delibere e decisioni che troppo spesso vengono chiuse al controllo dei cittadini.

È quanto racconta un progetto avviato da Actionaid - "Donne che contano" - attraverso il quale l'organizzazione per si è data l'obiettivo di non lasciar passare e di andare a chiedere, controllare, verificare, cosa stia facendo ogni regione con i fondi nazionali contro la violenza che ha ricevuto da Roma.

Il risultato è stato innanzitutto un muro, un muro di non-trasparenza, rappresentato in un indice da 0 a 11 nella mappa qui sopra. Solo 12 amministrazioni su 21 infatti hanno pubblicato online i documenti che provano le scelte compiute. Solo altre tre hanno risposto poi nel merito alle richieste ufficiali dei ricercatori.

Regioni come Sicilia, Calabria, Molise, Friuli Venezia Giulia, e le nordicissime province autonome di Trento e Bolzano non hanno dato alcuna informazione sui fondi. Nonostante si parli di risorse ingenti - a Palermo il governo ha affidato quasi due milioni di Euro - ma soprattutto di un problema importante come quello degli abusi in famiglia.

Al contrario ci sono luoghi come Toscana, Emilia Romagna e Sardegna dove i governi locali hanno garantito l'accesso alle decisioni compiute. La Sardegna è l'unica però che è arrivata a sposare la massima trasparenza, quella che chiederebbe a tutti Actionaid, ovvero la pubblicazione dell'elenco completo delle strutture che ricevono aiuti, e il complesso dei finanziamenti ricevuti da ciascuna.

Superato lo scoglio delle delibere, c'è poi l'incertezza sul "come" sia applicata la legge. Ogni amministrazione infatti sta seguendo scelte diverse, non sempre allineate con le richieste del governo: chi abbassa gli standard richiesti, chi dà i soldi a province e comuni anziché direttamente alle associazioni, chi stabilisce nuovi bandi a cui partecipare.

I centri antiviolenza esistenti, poi, avevano avviato un'ampia campagna di protesta contro il piano governativo, accusato di essere troppo generoso per l'apertura di nuove strutture e troppo poco sul sostegno di quelle attuali, che avrebbero dovuto ricevere risorse minime, dai 5 ai 7mila euro ciascuna.

La Toscana così ha deciso di raddoppiare la quota riconosciuta alle strutture presenti. Nuoro l'ha dedicato tutto, il fondo, alle istituzioni già attive. E il Lazio ha aumentato la quota fino a 30mila euro per i centri antiviolenza, legando invece le risorse per le case rifugio al numero di posti letto.

Tutti questi sono esempi di strade diverse dietro una legge comune, caotiche forse ma almeno raccontabili. Perché il problema, insiste ActionAid, è soprattutto in quelle regioni per le quali è impossibile conoscere le decisioni in atto. L'invito è soprattutto alle amministrazioni vicine alle urne - Liguria, Umbria, Puglia e Calabria, perché prendano sul serio la pubblicazione dei dati. Perché "contano". Per il contrasto agli abusi.

l'Espresso
24 04 2015

Quando sono entrati nel locale che sulla carta ospitava la nuova azienda tessile, i carabinieri dell’Ispettorato del lavoro sono rimasti di sasso: non solo non c’erano i 49 dipendenti da poco ingaggiati (tutti a tempo indeterminato) ma nemmeno i macchinari. Nulla di nulla. Per l’impresa di Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, solo le agevolazioni concesse dallo Stato sarebbero state vere. Centinaia di migliaia di euro da mettere in tasca grazie alle misure pensate per rilanciare l’occupazione.

Il governo festeggia con solennità le rilevazioni sul primo mese di vita del Jobs act. D’altronde i numeri, per quanto ancora parziali e suscettibili di variazioni, sembrano incoraggianti: 92 mila nuovi contratti attivati a marzo, un quarto dei quali a tempo indeterminato. «Merito della riforma del lavoro» esulta Palazzo Chigi. Ma non ci sono solo le luci. Perché per il modo in cui sono congegnati, gli incentivi a disposizione delle aziende rischiano di stimolare appetiti di tutti i tipi. Compresi quelli di chi sembra voler approfittare unicamente della possibilità di risparmiare su tasse e contributi previdenziali.

A Cinisello Balsamo, ad esempio, l’azienda Call&Call è intenzionata a chiudere lo stabilimento e dare il benservito a 186 operatori a tempo indeterminato del call center. Ma al tempo stesso, denunciano i sindacati, assumendo personale nelle altre sedi di Roma e Locri, che fanno capo ad altre srl del gruppo. Tutti dipendenti ingaggiati col contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act, meno oneroso, e con gli annessi sgravi previsti per le nuove assunzioni: da 6 mila a 8 mila euro l’anno ciascuno. Una circostanza - la sostituzione dei vecchi contratti col nuovo - che l’Espresso aveva già paventato fra le possibili conseguenze della riforma del lavoro nel settore.

Andando a scavare si scopre tuttavia che, per quanto al momento isolati e numericamente poco rilevanti, i casi non mancano. Nemmeno nel Veneto ricco e produttivo. A Rubano, in provincia di Padova, a fine marzo la Industria confezioni - di proprietà del gruppo Ermenegildo Zegna - ha annunciato l’intenzione di chiudere lo stabilimento, che produce capispalla maschili di alta sartoria. Di conseguenza i 230 dipendenti (per lo più donne e con stipendi attorno ai 1.100 euro) avrebbero dovuto accettare di essere riassorbiti in uno degli altri impianti di Parma, Novara o Biella. Ovvero spostarsi a centinaia di chilometri da casa.

Soluzione che ai sindacati è persa come un grimaldello per accedere alle agevolazioni: «Se un lavoratore rifiuta lo spostamento scatta il licenziamento per giusta causa e a quel punto l’azienda è libera di assumere col nuovo contratto e di usufruire della decontribuzione» afferma Angelo Levorato della Femca-Cisl. Adesso, dopo un duro confronto iniziale, sul tavolo c’è la possibilità di ricorrere ai contratti di solidarietà e di lavorare 4 ore al giorno, ipotesi che non porterebbe alla società alcun beneficio dalle nuove norme. Ma se la trattativa fallisse, lo spettro del trasferimento tornerebbe di nuovo in campo.

In qualche caso anche le stabilizzazioni possono riservare sorprese. A Lodi le Industrie cosmetiche riunite (Icr) a partire dal prossimo autunno internalizzeranno 180 lavoratori che lavorano da anni per la società ma che finora erano alle dipendenze di alcune cooperative. Prima dell’agognata meta, però, per tutti quanti sono previsti sei mesi con un contratto a somministrazione di un’agenzia interinale. Esattamente il periodo di tempo senza posto fisso richiesto a un neo-assunto perché un’azienda possa beneficiare di una decontribuzione triennale. In questo modo, calcolano i sindacati, l’Icr risparmierà 1 milione di euro l’anno mentre i lavoratori, che prima erano inquadrati a tempo indeterminato col contratto collettivo del settore chimico, perderanno le garanzie di cui godevano. «E potranno essere licenziati più facilmente» spiega il segretario generale della Uil di Brescia, Mario Bailo: «La legge Fornero prevedeva da 12 a 24 mensilità per i licenziamenti individuali. In tal caso invece, azzerando l’anzianità di servizio, dopo un anno potrebbero essere mandati via con la corresponsione di appena 4 mesi di stipendio».

Si verificherebbe, cioè, proprio ciò che uno studio del Servizio politiche territoriali della Uil aveva messo in luce: il rischio che licenziare sia vantaggioso. Del resto il timore di peggiorare la propria situazione contrattuale a causa di una nuova assunzione agita in queste settimane anche i 50 lavoratori in esubero del Maggio fiorentino. Per i dipendenti del teatro è previsto l’assorbimento in Ales, la società per azioni di proprietà del ministero dei Beni culturali. Solo che così tutti quanti perderebbero i diritti acquisiti con gli anni di servizio e così le organizzazioni sindacali hanno chiesto un’apposita deroga al Jobs act.

Tutto questo è però nulla rispetto a quanto si è iniziato a vedere in alcuni cantieri edili e nel settore delle costruzioni, zone di frontiera per eccellenza sul terreno dei diritti dei lavoratori: qui nemmeno le tutele crescenti sembrano essere abbastanza convenienti. «Dopo l’offerta di contratti di lavoro romeno che abbiamo scoperto a Modena , in alcune realtà della Lombardia stiamo assistendo a un’esplosione dei voucher» dichiara Marinella Meschieri, della segreteria Fillea-Cgil. E la differenza non è di poco conto: 7 euro e 50 centesimi netti l’ora, grosso modo la metà di quanto previsto dal minimo tabellare. Ma soprattutto niente tfr, tredicesima, ferie maturate né scatti di anzianità.

E il modo in cui la legge è scritta ci ha messo del suo, sostiene Meschieri: «Prima i buoni potevano essere utilizzati solo per i lavori “occasionali”. Ma il Jobs act ha tolto questo termine e adesso temiamo che possano diventare una consuetudine». Così il sindacato, che ha avviato un monitoraggio sulla questione, ha diramato alle sedi sul territorio la disposizione di segnalare tutte le anomalie riscontrate nei cantieri o segnalate dai lavoratori.

Una casistica varia, quella pensata per approfittare delle agevolazioni introdotte dal Jobs act, che non meraviglia il segretario confederale Uil Guglielmo Loy, che aveva già denunciato i rischi insiti nella modalità con cui gli incentivi sono stati concepiti per le imprese: «Il risparmio sui contributi previdenziali per le società è sproporzionato rispetto al costo di un licenziamento illegittimo. E gli incentivi, anziché essere selettivi, premiano tutti». Il risultato è che diventa impossibile distinguere fra chi vuole davvero creare occupazione, chi si limita a fare ristrutturazioni aziendali che avrebbe messo in atto comunque e chi punta solo a una tattica “mordi e fuggi” per pagare meno tasse. Proprio come nella notte di Hegel, in cui “tutte le vacche sono nere”.

Paolo Fantauzzi

L'Ilva e la paura di Taranto: i soldi non bastano

  • Apr 23, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 7210 volte

l'Espresso
23 04 2015

Dentro, un pensionato Ilva sorseggia un caffè circondato da foto e bandiere del Taranto Calcio, che domenica 12 aprile ha battuto il Potenza nella sfida al vertice del campionato di serie D. Fuori, in cortile, tre giovani si affaccendano intorno al generatore che servirà per dare energia alle casse del Primo Maggio, il mega-evento che dal 2013 raduna decine di migliaia di persone nel parco archeologico di Taranto. Il concertone - che quest’anno vedrà sul palco per la prima volta i Marlene Kuntz e Nina Zilli - è organizzato dal Ccllp, il “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” della città jonica, che con i supporter della squadra rossoblù condivide i locali di un edificio nel quartiere Solito-Corvisea. Il Ccllp è la più nota delle associazioni locali schierate sul fronte anti-Ilva. E il suo portavoce, Cataldo Ranieri, operaio della fabbrica, riassume così il pensiero dei compagni: «Se cade Taranto cade l’Italia. Questa città s’è immolata per la nazione e ha ricevuto zero».

L’Ilva e il suo indotto valevano, quando l’impianto siderurgico marciava a regime, il 70 per cento del Pil provinciale. La fabbrica ha segnato la storia della città e seguita a farlo, anche se gli oltre 20 mila addetti del 1980 sono scesi sotto le 12 mila unità. L’Ilva è la più rischiosa delle scommesse di Matteo Renzi: il premier ha promesso che la farà ripartire e che il Mezzogiorno non perderà uno dei suoi ultimi baluardi industriali. Ma il futuro è appeso a un filo.

Taranto e l'Ilva, una città in attesa
Come a Taranto sanno benissimo: essere dipendenti Ilva - traguardo ambito da quasi tutti, per lunghi anni - non basta nemmeno per farsi concedere un piccolo prestito. Alessio, 33 anni, fa il macchinista nell’impianto dal 2004. Lo incontriamo a Talsano, quartiere dormitorio a una decina di chilometri dalla fabbrica. Di fronte all’ufficio dell’Usb (il sindacato che ha scavalcato a sinistra la Fiom e l’ha scalzata dal terzo posto per numero di voti in fabbrica) un gruppetto di ragazzi tira calci al pallone e fuma sigarette rollate a mano. Alessio, sposato e padre di un figlio, racconta: «Nel 2011 ho comprato un appartamento a San Vito, in riva al mare. La banca mi ha dato il mutuo senza problemi. L’anno scorso ho chiesto 3.500 euro per un’auto usata e mi hanno detto che avevo bisogno di un garante». La porta in faccia se l’è beccata pure un dirigente del gruppo. Mentre viaggiamo su un pullmino all’interno dello stabilimento, affiancati al treno della laminazione, con la bramma incandescente che scivola sui rulli del trasportatore, il manager racconta che pochi mesi fa voleva un mutuo per comprar casa ma gli hanno risposto picche: la banca era «preoccupata del futuro della fabbrica». Il prestito alla fine l’ha avuto la moglie: il suo impiego nel settore pubblico è stato considerato più sicuro.

I CINESI FUGGONO DAL PORTO
Ilva, raffineria Eni, porto e cementificio del gruppo Caltagirone. Erano le quattro ruote della macchina industriale tarantina, una delle più ricche del Sud. Ora, a parte la raffineria, le altre hanno le gomme a terra. E fanno sbandare tutto. «La città ha preso atto della crisi quando ha visto i negozi chiudere a raffica. È sempre più facile incontrare per strada gli accattoni, che non c’erano mai stati», dice Vincenzo Cesareo, presidente della locale Confindustria. E Mario, sorridente caposala della Trattoria del Pescatore di piazza Fontana, a due passi dal ponte girevole che collega la città vecchia con la parte moderna, rimpiange il tempo che fu. «Dirigenti, impiegati, fornitori, camionisti: i ristoranti della zona erano belli pieni quando c’era tutto quel via vai. Adesso tanti sono spariti».

Fuori gironzola un gran numero di cani randagi, mentre un uomo chiede «qualcosa per guardare la macchina». Non è l’unico, a saltar fuori da un angolo quando vede avvicinarsi qualcuno. Il centro storico nasconde rovine greche che farebbero gola ai turisti di mezzo mondo, ma è il degrado a balzare agli occhi. Saracinesche abbassate in pieno pomeriggio si notano pure nella centralissima via Di Palma, prosecuzione di via D’Aquino, l’elegante strada dello struscio. Da quando nel 2012 il tribunale cittadino ha imposto il sequestro degli impianti Ilva, tutto è cambiato. La fabbrica ha sempre continuato a produrre e gli stipendi sono stati pagati. Ma un terzo dei dipendenti sta a casa a turno e nell’indotto hanno perso il posto in migliaia. Molti fornitori sono falliti. In zona l’Ilva ha debiti per 200 milioni, su un totale di 1,5 miliardi: tanta roba, per un’azienda che dice di perdere 20 milioni al mese.

Anche al porto la preoccupazione è palpabile. «I lavori per rifare la banchina, dragare il fondale, la diga foranea e bonificare il terminal sono previsti da anni. I soldi sono stati stanziati ma tutto s’inceppa per contenziosi e ricorsi al Tar. I miei manager, che non parlano italiano, sono isterici: ogni volta che li incontro, mi dicono «What a fucking country is this?”, e hanno ragione», dice Carmelo Sasso, segretario della Uil Trasporti e dipendente di Tct, Taranto Container Terminal, di proprietà dei cinesi di Hutchison Whampoa e dei taiwanesi di Evergreen. La società ha spostato tutta l’attività al Pireo, in Grecia, e i 547 lavoratori sono in cassa integrazione a zero ore. Piero Prete è uno di questi. Tira avanti da tre anni con 745 euro, con moglie e due figli da mantenere: «Ho la casa di proprietà ma tra Tasi, Imu e altre spese non riesco ad arrivare a fine mese. Vado avanti grazie all’aiuto dei genitori. Spero che il ministro Delrio riesca a convincere Tct a restare qui, anche perché lo sviluppo del porto può essere un’alternativa». Ha pensato a emigrare, Prete: «Ma ho 40 anni, chi mi assume, con la terza media?».

"FACCIAMONE UN MUSEO"
Anche sull’Ilva, in città, il dibattito è tutto concentrato su cosa fare adesso. Di mezzo c’è la salute dei cittadini. Lo ha certificato più volte anche l’istituto superiore di sanità, secondo cui nella città dei due mari è molto più facile ammalarsi rispetto al resto d’italia. Basti dire che, nell’ultimo rapporto pubblicato a luglio, la mortalità infantile è maggiore del 21 per cento rispetto alla media regionale. Il comitato lavoratori liberi e pensanti teorizza una soluzione radicale: chiudere tutto, bonificare il sito e riconvertire l’economia puntando su turismo, agricoltura e sul porto. La pensa così anche la candidata del movimento 5 stelle alla presidenza della regione puglia, antonella laricchia, studentessa d’architettura fuori corso, che il 31 maggio sfiderà il litigioso centrodestra e la corazzata di michele emiliano del pd, ex magistrato e già sindaco di bari. Laricchia ha un’idea spiazzante per il dopo ilva: «su quell’enorme terreno, dopo la bonifica, si potrebbe fare un museo. La gente potrebbe visitarlo come fa per gli ex campi di concentramento nazisti, per rendersi conto dei disastri dell’industrializzazione selvaggia».

In via Bettolo, nella sede dei tre storici sindacati metalmeccanici, non la pensano così. Al primo piano c’è la Fim. Per il segretario Mimmo Panarelli, «il terremoto è alle spalle, dopo aver perso tempo per un anno ora confidiamo che i nuovi commissari facciano sul serio, rilanciando una società che sul mercato ha perso terreno. E comunque l’amministrazione straordinaria deve essere di breve durata». Panarelli considera ineludibile l’adempimento di tutte le prescrizioni ambientali e srotola con un certo entusiasmo una piantina con il rendering dei due grandi capannoni che copriranno i parchi minerali. «Per noi sono l’opera più importante, per far capire anche agli sfortunati abitanti di Tamburi che si sta voltando pagina sul serio». Il segretario Fim crede che la stragrande maggioranza dei cittadini «non voglia affatto chiudere l’Ilva, come ha dimostrato il referendum del 2013, quando andò a votare il 19 per cento degli aventi diritto, e solo il 9 per cento nel rione Tamburi, il più colpito dall’inquinamento».

Sull’atteggiamento dei tarantini è più crudo Antonio Talò, che al terzo piano dello stesso palazzotto guida la Uilm, l’organizzazione che ha vinto le elezioni del 2013 per la Rsu: «Sa che dicono in città? Glielo dico in dialetto: “Che me ne futte a me”? C’è distacco. La borghesia se ne sta a casa, la Confindustria non è mai stata all’altezza e la politica è rimasta in un angolo senza prendersi responsabilità». Talò non è ottimista: «Siamo nel periodo peggiore dell’Ilva, servono tanti soldi per far tornare in carreggiata la società e ho forti dubbi sui nuovi manager. Il direttore generale, Massimo Rosini, viene dagli elettrodomestici bianchi e s’è portato altri dirigenti di quel settore. Spero di sbagliarmi, ma avrei preferito un esperto di acciaio».

Fondamentale per una città che conta 192 mila abitanti (erano 242 mila qualche anno fa), il più grande impianto siderurgico d’Europa, che fino al 2008 produceva 9 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, secondo parecchi osservatori è strategico per l’industria manifatturiera. «Sì, se non ci fosse l’Ilva il prezzo dei prodotti “piani” (che servono per costruire auto, lavatrici, lattine), aumenterebbe tra il 12 e il 20 per cento. Perché ci sarebbe meno acciaio disponibile e il settore manifatturiero italiano, ora indipendente, dipenderebbe dall’estero», sostiene Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di Milano. Negli ultimi 45 giorni, aggiunge il docente milanese, «c’è stato un boom dell’import dalla Cina: 250 mila tonnellate, pari a un terzo della produzione Ilva a regime nello stesso arco di tempo». E i prezzi, per i trasformatori dell’acciaio, sono immediatamente saliti.

«Nessuno è mai stato in grado di praticare prezzi competitivi come l’Ilva, che a Taranto ha una capacità produttiva enorme ed è la più efficiente d’Europa, quando funziona a regime. Ecco perché i concorrenti nord-europei sarebbero felici se chiudesse, soluzione che rappresenterebbe davvero una sconfitta per l’Italia. Confido tuttavia nel governo Renzi che, pur avendo perso sei mesi preziosi nel tentativo senza speranza di vendere l’Ilva, ora ci ha messo la faccia», sostiene Massimo Mucchetti, presidente della commissione Attività produttive del Senato.

"HO LE PALLE PER CHIUDERE TUTTO"
Per comprendere cosa significa il dibattito salute-lavoro, bisogna superare i cancelli di un parco che di romantico non ha nulla. Il “parco minerali” è una distesa gibbosa grande come 53 campi di calcio, le cui polveri hanno provocato lutti e rovinato la salute a tanti abitanti dei rioni vicini, tamburi e paolo vi. Appena ci saranno i soldi, dovrebbe essere chiuso in due immensi capannoni. Li costruirà la friulana cimolai, la stessa che ha realizzato il sarcofago della centrale nucleare di chernobyl, e costeranno 250 milioni. Un’opera mastodontica, che coprirà le otto collinette di carbone e minerale di ferro, cioè la materia prima che alimenta i cinque altoforni (di cui tre oggi spenti). Secondo l’ilva e i sindacati, la copertura è il punto fondamentale delle 94 “prescrizioni” dell’aia, l’autorizzazione integrata ambientale, gli obblighi che il governo ha imposto per adeguarsi agli standard europei sull’inquinamento.

Misure da completare entro agosto 2016, pena la chiusura. Invita alla cautela, però, michele emiliano, candidato governatore. Secondo lui rispettare l’aia non basta: «le stime fatte dall’arpa regionale dicono che i rischi sanitari non saranno azzerati, e se sarà così io non potrò che battermi per chiudere l’ilva, ho le palle per farlo. Se invece questi rischi verranno azzerati, appoggerò il piano del governo».

Il piano di cui parla Emiliano è quello affidato ai tre uomini chiamati a gestire l’amministrazione straordinaria. Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba hanno il compito di risanare l’azienda, creando una nuova società da capitalizare attraverso l’intervento di soggetti privati, tipo i fondi specializzati in risanamenti. Per poi venderla in blocco o quotarla in Borsa. Missione difficile, il cui fallimento vorrebbe dire la morte del più grande produttore d’acciaio italiano. I commissari puntano a riportare in pareggio il bilancio entro due anni, obiettivo raggiungibile solo se riusciranno a produrre 8 milioni di tonnellate l’anno, il doppio di oggi.

Tra risanamento ambientale, ammodernamento e gestione ordinaria, dicono di aver bisogno di 2,5 miliardi (ma per Mapelli e i sindacati sarebbero molti di più). E stimano in 1,2 miliardi i quattrini necessari per rispettare le sole norme ambientali. La cifra equivale al tesoro accumulato in Svizzera dalla famiglia Riva e messo sotto sequestro. Soldi che potrebbero finire nelle mani dei commissari tra poco, se così deciderà il tribunale di Milano. Per completare il risanamento e riportare la produzione in alto, i quattrini dei Riva non bastano. E neppure i 400 milioni di prestito obbligazionario che il governo farà stanziare dalla Cassa depositi e prestiti, magari col contributo delle banche.

La vera svolta può arrivare solo con i soldi degli investitori privati. Come i fondi specializzati, che prendono in affitto un gruppo, lo rimettono in sesto e poi lo mettono sul mercato. Strada lunga e piena di insidie, che passa per il riavvio di due altoforni, i possibili contenziosi con l’Ue per aiuti di Stato, il mercato dell’acciaio invaso dai cinesi, le incognite politiche. Intanto, dentro, pure le piccole cose sono difficili. «Mi occupo di manutenzione della mensa e sto chiedendo invano delle guarnizioni da pochi centesimi», dice Giuseppe, che sta con l’Usb e all’Ilva c’è entrato da raccomandato come quasi tutti, sostiene sorseggiando un cocktail al “Sud-Food and Music”, locale trendy del Borgo. Vive coi genitori e di tornare a lavorare al Nord, come fece da giovane, non ha intenzione: «Perché qua, dopo tutto, si sta troppo bene». Intanto il dj ha messo su i Deep Purple, “Smoke on the water”. Fumo sull’acqua. Un’istantanea di Taranto, con i due mari e le sue ciminiere.

Maurizio Maggi, Gloria Riva e Stefano Vergine

L’Espresso
22 04 2015

Quasi mille migranti muoiono in mare solo perché in fuga dal terrore e dall’incubo. Ma non c’è pace, non c’è rispetto né tregua dell’odio, in tanti gruppi e pagine Facebook di area ultra-destrorsa, xenofoba, “identitaria” o per meglio dire razzista che nelle ultime ventiquattro ore hanno continuato a martellare la loro propaganda d'intolleranza. Mescolando notizie vere e fake, realtà e manipolazione, civiltà e regresso, insulti a Laura Boldrini e finanche a Matteo Salvini perché “troppo soft”. Nel mirino sempre loro: gli immigrati, i richiedenti asilo, i rifugiati. Persino nell’ora della tragedia apocalittica non c'è nessuna pietà. E nemmeno un minuto di silenzio in bacheca.

Prendiamo la pagina Facebook "Fuori tutti gli immigrati dall'Italia", dotata di ben 11 mila 'mipiace'. Alla voce informazioni è scritto “Sic Semper Tyrannis. Contro l'oppressione multietnica. La Resistenza Nazionale crede nell'unicità etnica e culturale dei Popoli europei e si oppone al tentativo genocida di annientarne le differenze. Contro l'invasione della nostra Terra. Oltre la destra e la sinistra”. Questa pagina fa capo al sito resistenzanazionale.com che però risulta “irraggiungibile a causa dei troppi accessi”. Sarà vero? Scorrendone gli ultimi post, sembrerebbe che nulla di terribile sia accaduto nella notte tra sabato e domenica nel canale di Sicilia. Scorre invece implacabile il consueto fiume in piena di articoli che, concatenati uno dopo l’altro, danno corpo all’assioma: “la cronaca nera è in subappalto agli stranieri. Che sono tutti sporchi, brutti e cattivi. E cioè, clandestini. Se stiamo male la colpa è tutta loro”.

Nel post-ecatombe dei novecento migranti, alcuni tra i post di “Fuori tutti gli immigrati dall’Italia” recitano: “Risse a cinghiate tra famigliole rom"; "Donna in sottopasso: l'aspetta maniaco nordafricano";"La carica dei 101 hotel che ospitano profughi a casa nostra"; "Non ha biglietto, cinese sfascia porta bus"; "Direttore centro: profughi sono violenti, e loro lo bersagliano di tazze" (e tra i commenti si leggono perle come "cosa pretendete dalle scimmie?" o il sempreverde "parassiti"); "Amnesty vuole denunciare europei per barconi che affondano" (e anche qui uno stillicidio di repliche, per di più firmate con nome e cognome, esempio: "Se preferiscono possiamo andarli a prendere con delle navi da crociera..."). E che dire di questo titolo: “La Caritas usa l’8 per mille per regalare iPhone e sigarette ai clandestini (islamici)?

Il gruppo Facebook "Fuori tutti gli immigrati dall’Italia" conta 8233 membri. Ma è un gruppo chiuso, e la nostra domanda d’iscrizione non viene accettata. Non resta allora che fare un salto sul sito-madre, tuttiicriminidegliimmigrati.com (sottotitolo, “Hic sunt leones – Gli altri parlano d'integrazione, noi ve la mostriamo”). Tre le sezioni: Quanti sono gli immigrati in carcere? Reati e propensione al crimine. Detenuti per continente di origine. Pure qui, tra pestaggi sudamericani e “profughi africani a caccia di passanti con cocci di vetro”, non c’è praticamente traccia dell’ecatombe in mare.

Sempre su Facebook cresce invece la forza numerica dell’analogo “Tutti i crimini degli immigrati in Italia. Ora basta” (“Informazione su quello che fanno gli immigrati clandestini che non vogliono integrarsi”): 1713 i mipiace, ma si lieviterà. Cosa hanno messo in copertina gli amministratori della pagina? Un falso articolo di “Repubblica.it” che annunciava una legge a favore degli immigrati in Italia, a cui sarebbero stati concessi, a pioggia, “1400 euro al mese, alloggio e bus gratuito e buoni pasto”. Nel titolo anche la parola «Scandalo». Si tratta, appunto di un fake vecchio di anni sbugiardato a suo tempo anche da “Il muro dei boccaloni”.

E poi “brilla” la pagina Facebook di "Imola Oggi” (quasi 56 mila mipiace per “il primo quotidiano telematico imolese” diretto da Armando Manocchia). Eccovi un’antologia degli ultimi post: “Si sapeva che andavano a parare lì. Cosa c'entra l'accoglienza, cosa c'entrano Frontex e Triton con un naufragio avvenuto in Libia, di fronte a Misurata?”; “Valori e culture di Santa Romana Chiesa” (“Immigrato senza biglietto sferra un pugno in faccia al controllore); “Cultura boldriniana” (che rimanda all’articolo sul sito web intitolato “Rissa tra richiedenti asilo al Cara di Bari, 100 immigrati coinvolti”); “Valori e culture a Roma: vigilessa scippata da un africano – il video”; “Visto che andate a fare opere di bene sino in casa altrui, perché tu e gli scout (foto di Renzi) con la chiesa e i ciellini non andate a recuperare le vittime cristiane trucidate per mano dei vostri fratelli musulmani e gli date degna sepoltura?”.

Una lettrice di “Imola Oggi”, Lucia, annota: “Ho un dubbio, che questo naufragio sia stato fatto di proposito per aumentare i soccorsi e favorire le invasioni. Sono schiavi della magia africana ed europea. Vergogna”. Altri affezionati lettori si preoccupano dell’ingente somma che potrebbe essere sottratta alle casse statali per riportare a galla il relitto. Nemmeno gli indiani sono dispensati: “Tra gli indiani e musulmani è una bella gara....per non parlare poi quando sono indiani musulmani”. Titola Imola Oggi: “Cremona: indiano ubriaco tenta di violentare la cognata, la picchia e distrugge la casa” (recita un commento: “E l’India vuole insegnare! Guardate i nostri marò”).

Anche la scena rock nazionale non è stata certo a guardare. Dall’engagement ideologico al disimpegno incivile. Sentite cosa hanno scritto sulla loro pagina Facebook i Nobraino, nomen omen, band “indie” romagnola con un forte seguito e con quasi 50 mila followers sul social network fondato da Mark Zuckerberg: “Avviso ai pescatori: stanno abbondantemente pasturando il Canale di Sicilia, si prevedono acque molto pescose questa estate”.

L’Espresso
22 04 2015

Le interruzioni di gravidanza sono in calo, ma accedere al servizio rimane un'impresa. Perché gli obiettori di coscienza aumentano e bisogna spostarsi verso le grandi città. Eppure secondo il ministero va tutto bene.

DI LORENZO DI PIETRO

Nonostante si pratichino sempre meno aborti, in tante zone del paese interrompere la gravidanza è un'impresa ardua. In alcune province il servizio non viene offerto e in molte altre ci sono liste d'attesa che obbligano le donne a cercare lontano da casa un posto che le accolga.

Per l'Istat nel 2012 oltre ventimila donne su centomila si sono rivolte a strutture di altre province: di queste il quaranta per cento è dovuta andare fuori regione. Ma il ministero della Salute nella relazione annuale al parlamento minimizza, affermando che gran parte delle donne riesce ad abortire entro le tre settimane dal rilascio del certificato. Che spesso sono settimane di angoscia, alla ricerca di una struttura dove far valere un proprio diritto.

SULLA PELLE DELLE DONNE

Gli obiettori di coscienza rappresentano il punto di attacco del diritto all'interruzione di gravidanza. La loro percentuale, da sempre molto alta in Italia, aveva iniziato una lenta discesa negli anni Duemila. Fino al 2006, quando l'Ordine dei medici approva un nuovo Codice deontologico, che entra nel merito della questione con il plauso delle associazioni pro-life. Gli obiettori aumentano in un anno di oltre il dieci per cento, una crescita proseguita negli anni successivi e in molte regioni ancora in corso.

Le stesse associazioni pro-life hanno poi parlato di "attacco al diritto all'obiezione di coscienza" quando, il 18 maggio del 2014, l'Ordine dei medici ha mandato in soffitta quel testo, sostituendolo con l'attuale Codice deontologico. Che sull'obiezione dice: «Si esprime nell’ambito e nei limiti dell’ordinamento e non esime il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna». Ma occorrerà aspettare per conoscerne gli effetti.

Rimane il fatto che oggi la percentuale di obiettori resta altissima, circa il settanta per cento la media nazionale, con i valori più bassi al Centro-nord e in Lombardia, dove nonostante la «cura Formigoni» il tasso di obiettori è rimasto praticamente invariato negli ultimi venti anni. Mentre in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno e nella provincia di Bolzano i valori superano l'ottanta per cento, per raggiungere il novanta per cento circa in Molise e Basilicata. Percentuali che costituiscono un vero e proprio boicottaggio della legge, sebbene per molti ginecologi questa scelta sia dettata da motivazioni più di carriera che etiche . Ma quali sono le ricadute di una astensione così alta?


Nella prima colonna vediamo quante strutture per abitante praticano l'interruzione di gravidanza. A offrire il servizio più capillare è l'Umbria, dove sono il doppio rispetto alla media nazionale. Seguono il Friuli Venezia Giulia e la Provincia di Trento. Mentre Lazio, Campania e Molise sono quelle dove il servizio è più carente.

La seconda colonna ci dice in sostanza quale carico di lavoro si aggiunge a ciascun servizio sanitario regionale per l'afflusso di donne provenienti da altre regioni. Sul dato pesa la proporzione tra residenti e non residenti, che nelle regioni piccole può essere squilibrato. Accade infatti che l'impegno maggiore sia quello della provincia di Trento, dove un quinto del lavoro è dedicato a donne non residenti. Il Molise e la Basilicata sono al limite del paradosso: regioni piccole con una scarsa offerta del servizio e una elevata mobilità sia in entrata che in uscita.

Segnale di una emergenza generalizzata nel Centro-Sud, che provoca un turismo forzato per ottenere il riconoscimento di un diritto. Anche l'Umbria, per via di un alto numero di strutture e una «bassa» percentuale di obiettori, accoglie molte donne da altre regioni: qui costituiscono il 12,8 per cento degli interventi.

Al Lazio va la maglia nera per il carico di lavoro su ciascun ginecologo non obiettore. Lo vediamo con la terza colonna. A fronte di una media nazionale di 1,4 ore settimanali, qui nel 2012 erano il triplo, 4,2, in peggioramento rispetto al 2011. Situazione molto difficile anche al Centro-Sud, dove in molte regioni è circa il doppio della media. Un indicatore che lascia pochi dubbi su quanto la legge in molte regioni sia sostanzialmente disapplicata, scaricando l'onere sui pochi ginecologi determinati a garantire il servizio.

UNA SU CINQUE FA LA VALIGIA

Quante donne sono costrette a rivolgersi ad altre Asl, per l'assenza del servizio di ivg in quella di propria appartenenza è uno degli aspetti che la relazione del ministero non chiarisce veramente. E siccome questa informazione non è disponibile, vediamo con i dati Istat cosa accade nelle province.


L'intensità dl colore ci dice quante donne si spostano verso altre province o regioni per poter interrompere la gravidanza, mentre il grafico mostra il dato regionale, cioè quello della relazione ministeriale.

Nelle province di Isernia, Benevento, Crotone, Carbonia-Iglesias e Fermo, il servizio di fatto non c'è. In trenta province su 110 più di una donna su tre è costretta a spostarsi. In molti casi ad assorbire gran parte di questo flusso è il capoluogo di regione che, disponendo di un maggior numero di ospedali, è l'unico che riesce in qualche modo a fronteggiare le richieste.

Complessivamente, nel 2012, oltre 21 mila donne su centomila hanno dovuto spostarsi verso un'altra provincia. Più di una su cinque cui viene negato il diritto di interrompere una gravidanza non voluta nelle strutture di prossimità. Di queste, 8.824, cioè il quaranta per cento, sono dovute andare un'altra regione. Ma dalla relazione firmata Lorenzin, che non entra nel dato provinciale, tutto ciò non emerge. Anzi si legge che «su base regionale non emergono criticità nei servizi di Ivg». 


Si tratta di una sostanziale disapplicazione della 194 da parte delle regioni, cui la legge del 1974 attribuisce l'onere di garantire il servizio e verificarne l'erogazione, anche mediante la mobilità e le chiamate «a gettone». Mentre invece sono le donne a doversi spostare ( la storia di Sara , andata ad abortire a centinaia di chilometri da casa, ne è un esempio).

I privati poi la fanno da padroni in Puglia, Calabria e Sardegna. Mentre in tutta l'Italia settentrionale solo il 2,5 per cento degli interventi viene effettuato in una clinica convenzionata, la Puglia è al 36,2 per cento, la Sardegna al 32,2 la Campania al 16,4.

RELAZIONE MINISTERIALE, REPETITA NON IUVANT

La relazione del ministero nonostante la sua corposa dote di statistiche nasconde fenomeni che, opportunamente analizzati, raccontano un'altra storia. Che le donne riescono sì ad abortire nella maggior parte dei casi entro un mese, ma spesso al termine di un tormentoso calvario, che rende traumatica una scelta già in sé dura da affrontare.

Il rapporto annuale dovrebbe servire a individuare i punti critici del servizio, invece sembra solo una pratica da sbrigare. Confrontando le relazioni dei diversi anni si nota infatti che il testo è praticamente lo stesso, replicato quasi identico di anno in anno. Persino il testo a firma Lorenzin è in buona parte uguale a quello del predecessore Balduzzi, conclusioni comprese. E a volte nel copiare non hanno neanche aggiornato i dati.

Proprio la pagina che descrive le carenze dei servizi regionali, per esempio, è tutta una copia. Nell' ultima relazione si legge: «L'esempio della Basilicata è paradigmatico: nel 2012 presenta un flusso in entrata pari al 13.6% (83 ivg) ma ha anche un ben più consistente flusso in uscita (297 ivg)»: la frase, il capoverso, l'intera pagina, vengono replicati quasi identici da oltre dieci anni. E quel flusso in uscita dalla Basilicata, nel 2012 non era di 297, ma 276, mentre 297 è il valore della relazione precedente che nel copia-incolla nessuno ha corretto. Tanto chi volete che la legga?

Si ringrazia Pietro Gentini di Ecoh Media, Tableau Partner certificato

 

l'Espresso
17 04 2015

Il 20 aprile 1889 nasce a Braunau am Inn, nell’allora impero Austro-Ungarico, Adolf Hitler. Sono passati più di centoventicinque anni ma, nonostante l’orrore della Shoah, un intero continente devastato dalla guerra, morte e persecuzioni, qualcuno pensa che quella data sia un evento da festeggiare.

Non esiste più il Terzo Reich, la Germania è una solida e moderna democrazia guidata da Angela Merkel, eppure i neonazisti di casa nostra continuano a guardare a quel passato di totalitarismo e antisemitismo per dare un senso al loro futuro.

L’appuntamento è per sabato 18 aprile a Varese, culla del leghismo della prima che negli anni novanta si consegnò anima e corpo al nascente partito di Umberto Bossi e Roberto Maroni, entrambi varesini doc. Dal dopoguerra la città, dopo essere stata un serbatorio di voti dell’Msi, è diventata anche una fucina di sigle della galassia nera.

LA NOSTALGIA DELLA PROVINCIA
Ad organizzare l’evento per il terzo anno di fila è il fronte Varese Skinhaeads e la locale “Comunità dei dodici raggi”. Arriveranno le teste rasate da tutto il Paese per assistere al concerto che in scaletta prevede brani nostalgici dei “Garrota”, dei “Nessuna Resa” di Lucca, dei “Testudo Rac' N' Roll” di Bari e dei “Malnatt” di Milano.

I testi richiamano la battaglia, la terra nemica, il sistema anti-Stato, la rabbia, il coraggio, il mito dei legionari e la guerra come epopea di ardite gesta e tempi gloriosi.

Così, impastando note e parole, si alimenta l’odio. Per l’occasione gli organizzatori hanno diffuso anche una locandina, in cui è ritratto il Führer a Berlino durante un’adunata di massa. La Comunità dei dodici raggi, che si fa forte di eventi e date simbolo (foibe, 20 aprile, solstizio d’estate e d’inverno), si ritrova a giorni prestabiliti nella sede di Caidate (nel sud della Provincia). Il 10 febbraio scorso in duecento hanno sfilato in città per commemorare le «vittime delle foibe e dei comunisti di Tito». Un corteo che ha cercato di riunire le frange nere locali: da Forza nuova a Casa Pound.

Per tutti i camerati l’appuntamento è la sera del 18 aprile, quando saranno guidati dai cartelli con il simbolo “88” (l'ottava lettera dell'alfabeto indica il saluto nazista «Heil Hitler!»), alla fine dell’autostrada Milano-Laghi, per indicare la meta del concerto. Il luogo è segreto, ma un anno fa si ritrovano in quattrocento a Caidate. Birra, slogan antisemita, danze selvagge e truci canzoni contro gli ebrei con gente che dal palco si lanciava a corpo morto sulla folla. Nel 2013 erano finiti nella sede dell’associazione filoleghista “I nostar radiis” (le nostre radici in dialetto locale) che avevano un vecchio casello ferroviario in affidamento, alle porte del capoluogo nel comune di Malnate.

Ad inneggiare al torturatore di ebrei, rom, sinti ed omosessuali ci avevano pensato i neofascisti di provincia (sotto altre sigle) la prima volta nel 2007, con una festa sui generis, celebrata il 23 aprile al locale Biergarten, sulla rive del lago di Varese. I partecipanti cantarono inni nazisti, mentre festeggiavano il compleanno di Adolf Hitler. Gli uomini della Digos ripresero l’intera scena con una telecamera nascosta.

Secondo i verbali dell’inchiesta, quella notte furono storpiate alcune canzoni italiane famose con versi osceni. «Le bionde trecce e gli occhi azzurri e poi» diventò «...la stella gialla sui negozi ebrei». Un crescendo di oscenità: «Azzurro» cantata da Celentano divenne una strofa crudele contro Anna Frank: «Cerco nel ghetto tutto l’anno e all’improvviso eccola qua». Mentre l’inno al criminale delle SS Erik Priebke fu cantato con la musica del cartone animato Jeeg robot d’acciaio e divenne «Priebke, cuore di acciaio...». Persino la canzone «Donne» di Zucchero divenne un folle ritornello razzista: «Negri, du du du, in cerca di guai».
Nonostante l’istigazione all’odio razziale e religioso dopo sette anni e mezzo il tribunale di Varese ha dichiarato i ventidue imputati innocenti per estinzione del reato.

ESTREMO NORD
Questa è terra ostile all’antifascismo, dove la sinistra non ha mai governato, un glorioso passato industriale e una fucina di eversione. il suo zoccolo duro di professionisti e imprenditori fino all'inizio degli anni Settanta ha garantito ai neofascisti dell’Msi un buon 10 per cento di voti, il doppio della media nazionale. Roma, Pisa e Varese sono le tre «piazze» su cui aveva puntato il leader erede della Repubblica sociale Giorgio Almirante.

E qui è nata una pletora di sigle neofasciste, censite dallo storico Franco Giannantoni: Partito della ricostruzione nazionale, Costituente nazionale rivoluzionaria, Comitato di emergenza e salute pubblica, Avanguardia nazionale, Squadre d'azione Zamberletti (è il titolare del bar più famoso del centro), Squadre d'azione gaviratesi, Squadre d'azione Ettore Muti. Agiscono come squadracce fasciste, specializzate in agguati e sono foraggiate da certa borghesia locale.

Durante gli anni di piombo, quando erano all’ordine del giorno scontri tra “rossi” e “neri”, la destra aveva un progetto ben preciso, come spiega Giovanni Bandi, laurea in filosofia, insegnante di storia e a quel tempo membro di Lotta Continua: «Volevano fare di Varese la Reggio Calabria del nord, laboratorio della protesta antisistemica e neofascista. C'era una strategia, teste pensanti, manovalanza pronta a eseguire gli ordini».

Dopo quella stagione, l’insana passione per le idee più radicali ha trovato legittimazione nel tifo organizzato delle squadre di pallacanestro e calcio. La curva è diventata il luogo ideale per diffondere idee e intolleranze. Non più caccia ai comunisti, ma odio contro i «terroni», «gli stranieri», «i rom» e «gli ebrei».

Già nel 1976 i tifosi della squadra di basket Mobilgirgi (la ex Ignis del patron Giovanni Borghi) accolsero i cestisti del Maccabi di Tel Aviv con slogan e simboli antisemiti. Una vergogna internazionale. Nel processo che ne seguì, la proprietà non si costituì parte civile, rifiutandosi di chiedere una simbolica lira come risarcimento.

Trent’anni dopo quelle idee continuano a diffondersi come un virus, con nuovi protagonisti come i naziskin di Blood&Honour, i supporter del Varese calcio che nel 2005 tentarono il linciaggio di un ragazzo albanese. Colpevole solo d'essere albanese, come il giovane migrante che uccise a coltellate Claudio Meggiorin, tifoso e simpatizzante delle teste rasate. Per il sindaco, il leghista Aldo Fumagalli, non c’era alcun allarme: «Bravi ragazzi», nonostante una settimana di cortei con croci celtiche e svastiche, saluti fascisti e caccia allo straniero.

Oggi quella sigla si è estinta ma resiste il filo nero, la tradizione di eversione, gli uomini e i simpatizzanti di quelle idee, riassunte in uno slogan efficace: «Difendi il tuo simile, distruggi il resto».

Michele Sasso

L'Espresso
14 04 2015

Scuola, interno giorno: il soffitto all’improvviso cede con gli alunni che si ritrovano sotto le macerie. È successo anche oggi, all’elementare Pessina di Ostuni, provincia di Brindisi. Il bilancio: due bambini feriti e una maestra in ospedale.

Uno strato di intonaco di quattro metri è venuto giù dal soffitto dell'aula di una seconda elementare, precipitando in testa a due bambini di 7 anni. In Puglia oltre al danno la beffa: la scuola era stata riaperta quattro mesi fa dopo anni di lavori di ristrutturazione.

Neppure i piani e l’accelerata del governo Renzi riescono a frenare i crolli tra le aule. Si possono eliminare le province, cambiare la legge elettorale e l’assetto dello Stato, ma non evitare che entrando in classe i piccoli alunni rischino la vita.

Un’emergenza nazionale alla quale si è cercato di mettere una pezza con il disegno di legge sulla riforma della scuola (varato un mese fa): uno stanziamento di 40 milioni per finanziare indagini diagnostiche sulle strutture che ospitano le scuole.

Si tratta di garantire la sicurezza di otto milioni di alunni. Impresa che il ministro Stefania Giannini ha spiegato così: «Il lavoro del governo sull'edilizia scolastica è un’operazione enorme. Abbiamo un ritardo di decenni, una massa critica amplissima e la stiamo affrontando con un'estensione di interventi mai vista prima. Certo, non possiamo garantire tutti nell'immediato, ma i crolli non devono essere più nello scenario delle ipotesi possibili».

I NUMERI DEL DISASTRO

Nella realtà si annota, episodio dopo episodio, lo sfascio dell’edilizia scolastica, con edifici vecchi di duecento anni, l'amianto sui tetti e nelle struture interne, gli spazi non più adeguati. Il conteggio dei crolli e dei cedimenti invece non si ferma mai.

A febbraio i cedimenti strutturali sono stati ben sei. Fra questi, quello all’istituto alberghiero “De Cecco” di Pescara dove, il 18 febbraio, si è staccato l'intonaco dalla parete ferendo alla testa, sebbene lievemente, tre studenti quindicenni. L'8 gennaio aveva ceduto l'intonaco in un asilo di Milano ferendo sette bambini. Poi è stata la volta di una scuola media di Bologna.

In sei mesi si contano cinquanta casi: da piccole scuole di provincia agli istituti delle città più grandi, dove ogni giorno entrano migliaia di alunni.

Nel gennaio 2014 uno studente morì in un Liceo di Lecce per la caduta in un pozzo di luce a seguito del cedimento di una grata. È uno degli episodi più gravi degli ultimi anni. Come quello del liceo Darwin di Rivoli dove, nel 2008, a seguito del crollo di un controsoffitto, morì uno studente di 17 anni e altri 17 rimasero feriti. Proprio qualche giorno fa la Cassazione ha confermato le sei condanne per quell'episodio: tre a carico di funzionari della Provincia di Torino e tre per gli insegnanti.

Poi ci sono stati i casi di Palermo (tre feriti alle elementari) e di Russi (Ravenna) dove è crollato il soffitto di una palestra della scuola elementare mentre alcune giovani ginnaste si stavano allenando. In questo caso,
fortunatamente, senza provocare feriti. Il 10 settembre scorso si è verificato un analogo incidente in un edificio di Tivoli, vicino Roma, dove, per il crollo dell'intonaco del soffitto di una palestra, due insegnanti hanno riportato ferite.

I PIANI DEL GOVERNO

Il piano del governo per l’edilizia scolastica è stato annunciato dal premier Matteo Renzi: previsti 21.230 interventi in edifici scolastici per investimenti superiori al miliardo di euro. «Quattro milioni di studenti e una scuola italiana su due sono interessati da questo primo progetto, che porta nell’arco del biennio 2014-2015 ad avere scuole più belle, più sicure e più nuove», ha annunciato l’esecutivo riferendosi ai primi interventi.

Il Piano generale di edilizia scolastica, che avrebbe dovuto mettere in sicurezza tutti le scuole italiane, è composto da tre principali filoni: 450 milioni per le "scuole belle", 400i per le "scuole sicure" e 244 per le "scuole nuove". Un piano coraggioso che però si scontra con la realtà italiana.

Come “l’Espresso” ha raccontato, già ad agosto le risorse erano diminuite . La burocrazia impedisce interventi strutturali e molti presidi si sono dovuti accontentare di una mano di vernice. «Abbiamo ricevuto molto meno di quello che in realtà ci servirebbe», spiega Corrado Ezio Barachetti della Cgil scuola della Lombardia. «Secondo il programma ministeriale "decoro" significa rifare la facciata delle scuole, che però hanno bisogno di interventi strutturali. Il piano di ristrutturazione copre il 75 per cento degli interventi necessari, nel nostro caso bastava finire i lavori che aspettano da anni».

In Puglia il governo prevede di spendere 107 milioni di euro, ma solo 30 milioni per il programma #scuolesicure. Stesso discorso per le regioni Lazio, Campania e Calabria, con la bilancia che pende per i lavori di maquillage. Il record negli istituti campani: qui il ministero ha previsto interventi per 183 milioni di euro, e, solo per l’abbellimento, 171 milioni.

SCUOLE MENO BELLE MA SICURE

Per rimettere in carreggiata la sgangherata scuola italiana serve ben altro. Secondo l’associazione Cittadinanzattiva «Non si può aspettare inermi il prossimo episodio di crollo. Occorre agire in via preventiva e rapidamente. La situazione - dichiara Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale del settore - è fuori controllo. Oltre all'assenza o carenza di manutenzione si riferiscono quasi esclusivamente a deficit rintracciabili nelle condizioni precarie di tetti, solai e controsoffitti, veri punti deboli dell'edilizia scolastica».

L’associazione avanza una sua proposta: stornare i fondi previsti per il 2015 per i 10.000 interventi di #scuolebelle a favore dell'indagine preventiva e agli interventi di #scuolesicure. Allo stesso tempo accelerare il completamento dell'Anagrafe dell'edilizia scolastica e un suo pieno utilizzo al fine di individuare e intervenire sulle situazioni più gravi. L’anagrafe del Governo dovrebbe servire ad identificare gli edifici su cui bisogna assolutamente intervenire per la messa in sicurezza ed è attesa a giorni.

Anche "Save the Children", l’organizzazione internazionale che si dedica ai bambini ha preso posizione: «Non è ammissibile che andare a scuola possa tradursi in un rischio anche molto grave per l’incolumità fisica dei bambini», dice Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa. «La questione della sicurezza delle nostre scuole è purtroppo di stretta attualità: ad oggi, nonostante una serie di interventi di manutenzione effettuati nel corso dell’ultimo anno, ci ritroviamo con il 70 per cento delle scuole con più di 30 anni e che necessitano in buona parte di interventi di natura edilizia».

Per tutti è inoltre necessario che gli interventi rispettino adeguati standard di qualità e non avvengano al ribasso e siano oggetto di stretti controlli. Prima della “buona scuola”, c’è la sicurezza e adeguatezza degli edifici scolastici.

L'Espresso
13 04 2015

Dopo il caso sollevato dall'Espresso delle lavoratrici abusate nelle campagne siciliane, l'analisi dell'esecutivo rileva che le le denunce di violenza sono poche. Ma operatori sul campo e firmatari dell'interrogazione parlamentare ribattono: 'Chi vive segregata fatica a denunciare le violenze'

"Un fenomeno non significativamente esteso e stabile". Dopo cinque mesi il governo risponde sul caso delle donne romene abusate nelle serre del ragusano . Lo scorso ottobre dieci deputati chiedevano iniziative urgenti, dopo il caso sollevato dall’Espresso.

Il 17 marzo il sottosegretario Domenico Manzione ha presentato in aula una lunga e articolata analisi. Per prima cosa i numeri. Su 1800 donne regolarmente residenti, le denunce di violenza sono due nel 2012 e 2013, appena una nel 2014. “Comunque l’attenzione delle forze dell’ordine su tale fattispecie delittuosa è costante”, spiega il sottosegretario. Anche il Ministero degli Esteri romeno aveva osservato che il numero di segnalazioni in merito è molto limitato.
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Violentate nel silenzio dei campi a Ragusa
Il nuovo orrore delle schiave romene

Cinquemila donne lavorano nelle serre della provincia siciliana. Vivono segregate in campagna. Spesso con i figli piccoli. Nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale. Una realtà fatta di aborti, “festini” e ipocrisia. Dove tutti sanno e nessuno parla
SOLO L'ULTIMA TAPPA
«È vergognoso da parte del governo dire che le violenze non sono aumentate perché non sono aumentante le denunce», dice all’Espresso l’onorevole Celeste Costantino, una delle firmatarie dell’interrogazione. «Chi vive in stato di segregazione si sente sotto minaccia e fatica a denunciare le violenze».

«Quella è solo l’ultima tappa di un lungo processo», ci dice Ausilia Cosentini, operatrice di Proxima, presente sul territorio fin dal 2012. «Occorre conquistare la fiducia della vittima. Con un passaggio in auto, col sostegno quotidiano. Materiale e psicologico».
Dopo le denunce dell'Espresso e le interrogazioni parlamentari, il caso delle giovani braccianti dell'est abusate dai padroni nelle campagne siciliane è ora al centro di un'inchiesta dell'Arma. Centinaia le persone già controllate

La curiosità di questi mesi ha aumentato la diffidenza delle donne. La sfiducia non è immotivata. Pratiche ferme, lentezze burocratiche, difficoltà di ogni tipo. Infine, una vittima deve trovare il coraggio di rendere pubbliche questioni così delicate. E quando accusa il datore di lavoro deve produrre prove in sede giudiziaria. Altrimenti rischia a sua volta la condanna per calunnia, osservano i legali.

In questi casi la prima interfaccia non può essere un poliziotto. Invece le istituzioni hanno scelto la strada delle retate. «Per l’esperienza che abbiamo, non siamo d’accordo con questa modalità di azione. Sappiamo che questo approccio non funziona», dice Cosentini.

Dopo l’inchiesta dell’Espresso, due interrogazioni parlamentari sul caso delle immigrate dalla Romania violentate e seviziate. Avviato in prefettura a Ragusa l’iter per un protocollo d’intesa che coinvolgerà anche gli agricoltori. E la stampa della Romania si interessa al caso

Ma cosa ha portato l’attenzione mediatica dei mesi scorsi? I cambiamenti positivi riguardano la maggiore attenzione delle istituzioni. C’è un buon lavoro di rete tra le organizzazioni del privato sociale. Ma lo stesso progetto di Proxima, citato da tutti, è in scadenza il 30 giugno. Probabilmente ci sarà l’ennesima proroga. “Ma così non è possibile programmare”, spiegano gli operatori.

Le notizie positive finiscono qui. Si discute ancora sull’estensione del fenomeno. Non sul modo di cancellarlo per sempre. Del resto non occorre attendere le denunce per allarmarsi. Le violenze sessuali sono provate da altri numeri. Inequivocabili. Li fornisce sempre il governo, riferendosi provincia di Ragusa, in particolare i reparti di ostetricia operanti a Ragusa, Modica e Vittoria: «Nel triennio 2012-2014, le interruzioni di gravidanza praticate a cittadine straniere sono state complessivamente 309, di cui 132, cioè il 42,7 per cento, hanno riguardato cittadine romene».

Il caso sollevato dall’Espresso arriva in Romania. Il Ministero degli Affari Esteri risponde che mancano “segnalazioni delle vittime”. Le braccianti “sentite” dai carabinieri nelle serre

Marisa Nicchi, prima firmataria dell’interrogazione di SEL, evidenzia che a Vittoria, città di 60mila abitanti, siamo di fronte a “un’obiezione di struttura”. Nessuno dei medici che lavorano nel locale ospedale pratica l’interruzione di gravidanza.

UN FENOMENO CHE SI ALLARGA
Secondo il governo alcuni amministratori locali hanno riportato «l’esigenza di evitare enfatizzazioni della questione». «Una percezione non del tutto veritiera della realtà fattuale» potrebbe danneggiare l’economia locale.

Nel frattempo, proseguono gli incontri del tavolo in Prefettura a Ragusa. Ma il fenomeno sembra allargarsi alla provincia di Catania. È di qualche giorno fa l’inchiesta “Slave” della Procura etnea. Un’organizzazione di romeni e italiani riduceva in schiavitù i lavoratori impegnati nella raccolta delle arance. Secondo i giudici, un filone dell’indagine ancora in corso riguarderebbe le donne dell’Est costrette a prostituirsi.

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