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INTERNAZIONALE

Bloccati a Lesbo

Internazionale
08 09 2015

Nuove tensioni tra profughi e polizia sull’isola di Lesbo, in Grecia, dove negli ultimi giorni sono arrivati 15mila migranti, che non riescono a lasciare l’isola. Ogni giorno ci sono solo due traghetti diretti verso la terraferma.

Ieri i poliziotti in antisommossa hanno attaccato 2.500 migranti che protestavano perché volevano imbarcarsi su un traghetto diretto ad Atene. Dall’inizio dell’anno 230mila migranti hanno raggiunto la Grecia, per lo più profughi siriani che scappano dalla guerra civile in corso nel paese dal 2011. Le autorità greche non sono preparate ad accogliere i migranti, non ci sono strutture adeguate e molti migranti dormono all’aperto per settimane, senza assistenza medica né umanitaria.

Il ministro greco per le migrazioni, Iannis Mouzalas, ha detto che Lesbo è “sul punto di esplodere”. Spyros Galinos, sindaco di Mitilene, la città più grande dell’isola, ha annunciato un boicottaggio delle elezioni del 20 settembre se il governo non prenderà provvedimenti efficaci.

Il linguaggio dell'odio e il razzismo

Internazionale
03 09 2015

La campagna d’estate della Lega nord e di alcuni organi di informazione è stata una mobilitazione di odio. Mi chiedo: perché?

E non si tratta di una domanda ingenua. In altre parole, perché mai la critica più radicale alle politiche del governo italiano e a quelle dell’Unione europea in materia d’immigrazione e asilo e la proposta di strategie totalmente alternative devono comportare la degradazione della persona del migrante e del profugo?

Questo è, infatti, il contenuto profondo e la forma linguistica del messaggio xenofobo: non un’argomentazione politica, bensì uno sfregio morale che deve –proprio per potersi efficacemente realizzare – richiamare un fondamento razzistico.

Sembra, cioè, che l’agitazione della Lega in materia d’immigrazione non possa non fondarsi su una “politica del disgusto”: un’opera di svilimento, che mira a sfigurare il proprio bersaglio, come premessa per così dire morale a un’attività di esclusione e discriminazione.

Una politica che si fonda necessariamente su una concezione gerarchica degli uomini, dei popoli e delle etnie e su una inevitabile classificazione di essi secondo i tradizionali criteri di “superiorità” e “inferiorità”.

Questa concezione che costituisce il fondamento del razzismo e che essa sola giustifica il ricorso a un termine così gravemente denotativo – razzista, appunto – raramente oggi viene così esplicitamente teorizzata e adottata.

Infatti, il razzismo nelle società democratiche è tuttora soggetto a interdizione morale e politica, fino a rappresentare un residuale tabù. Un tabù fragile e precario, e tuttavia ancora attivo: sia perché i valori universalistici degli stati democratici negano qualsiasi legittimità alle teorie razzistiche, sia perché permangono in quegli stati – come in Italia, per esempio – consistenti tracce delle culture solidaristiche, di matrice egualitaria: religiosa o laica.

Il deprezzamento della vita
Dunque non può darsi – come ispirazione per le politiche per l’immigrazione – una classificazione degli esseri umani quali titolari o meno di dignità e meritevoli o meno di protezione in base alla nascita, alla provenienza geografica, all’appartenenza a un’etnia o a una classe sociale o a un sistema di cittadinanza.

Ma quella stessa classificazione gerarchica, formalmente interdetta, emerge ancora e con violenza, sia pure in maniera indiretta e mediata. E si rivela grazie a un indicatore inequivocabile: ovvero il deprezzamento della vita di una parte degli esseri umani nella percezione di un’altra parte di esseri umani.

È questo che rende il ragionamento sul razzismo particolarmente delicato.

Aver accettato – come tutti abbiamo accettato – che appena al di là dei confini nazionali, nell’ultimo quarto di secolo si consumasse una strage ininterrotta di migranti e profughi, affogati nel Mediterraneo, costituisce un efficace metro di valutazione della tenuta dei principi ai quali diciamo di ispirarci.

Dà la misura, cioè, di quale sia nei fatti il valore reale che attribuiamo alla vita di quegli esseri umani. Un valore che, certamente, non è lo stesso che assegniamo alla vita dei membri della nostra comunità.

In altri termini, per sopportare il perpetuarsi di quell’ecatombe nel canale di Sicilia, è stato necessario accettare di considerare quei morti come sottouomini. E non è forse questa la base morale di un razzismo non solo non dichiarato, ma – anzi – esplicitamente rifiutato? E non è forse quella stessa base morale così diffusa presso tutti o molti a legittimare che presso pochi, singoli o gruppi o partiti, si manifestasse un’ostilità nutrita di odio?

Intendo dire che quella concezione gerarchica degli esseri umani che consente la degradazione degli “inferiori” e che motiva le politiche dell’esclusione, trova la sua giustificazione nel fatto che la svalutazione della vita di quegli “inferiori” sia diventata senso comune e mentalità condivisa. Anche quando tutto ciò resta implicito o viene addirittura negato con sdegno.

Insomma, l’indifferenza di tutti verso i morti nel Mediterraneo può arrivare a spiegare l’odio di pochi verso i sopravvissuti ai naufragi. Non a caso, i sommersi vengono definiti vittime, i salvati sono etichettati come “clandestini”.

Luigi Manconi

Internazionale
02 09 2015

Guardata dal lato della cattedra, la riforma della scuola è una bolgia e una mezza rivoluzione. Il ministero l’ha divisa in fasi (quelle di attuazione della cosiddetta Buona scuola), numerandole da uno a tre: nella prima, ci sono i “salvati”, quelli che sono già entrati in ruolo secondo il vecchio metodo dello scorrimento delle graduatorie e sono andati a sostituire 29mila docenti andati in pensione.

Questi sanno già, alla riapertura dell’anno, in quale scuola andare e – più o meno – per fare cosa. Non devono ringraziare né il presidente del consiglio Renzi né la ministra dell’istruzione Giannini, né i sindacati, perché sarebbero saliti in cattedra comunque.

Poi ci sono i “sommersi”, quelli che, trovandosi un po’ più indietro nelle graduatorie, hanno fatto la domanda per il piano di assunzioni straordinario, la grande sanatoria che avrebbe dovuto abolire per sempre la lista dei precari. Una parte di loro – uno su cinque – non ha fatto domanda di assunzione, e perde per sempre (pare) il diritto a un posticino in graduatoria.

In pieno marasma
I 71.463 che l’hanno fatta, invece, adesso sono in pieno marasma: un algoritmo gli sta assegnando il posto (combinando classi di concorso, loro preferenze e sedi disponibili in tutt’Italia), entro l’11 settembre dovranno dire se accettano, se non lo fanno saranno (sicuramente) depennati per sempre dalle graduatorie. Molte di queste domande sono già state cancellate, perché non ricevibili.

Fuori da tutto ciò, ci sono le liste residue dei precari: quelli delle graduatorie d’istituto, quelli che si sono laureati e specializzati troppo tardi per iscriversi alle graduatorie esaurimento, i più giovani. E le 24mila maestre della materna, tenute fuori dalle assunzioni poiché non se ne parla prima di una riforma complessiva dell’istruzione da zero a sei anni che è stata affidata a un decreto delegato (uno dei tanti, se ne attendono 24 in tutto, per attuare la Buona scuola).

Solo nel 2016 scatteranno le novità che più hanno diviso e fatto discutere

Guardata invece dal lato dei banchi, la bolgia resta ma la rivoluzione è quantomeno rinviata. I circa otto milioni di studenti che nei prossimi giorni metteranno piede nelle quarantamila scuole statali italiane non troveranno ad attenderli grandi novità. E non solo perché – sin dall’inizio – la riforma non ha scelto di incidere su programmi, ordinamenti, organizzazione dell’istruzione. Ma anche perché di fatto entrerà in vigore solo nel 2016, cioè con l’inizio del prossimo anno scolastico.

Solo allora scatteranno le novità che più hanno diviso e fatto discutere: il nuovo potere dei presidi, i comitati di valutazione, gli albi territoriali degli insegnanti. E solo per l’anno prossimo arriveranno i nuovi docenti selezionati con il nuovo concorso – che stando alle promesse dovrebbe essere bandito entro breve.

Precari alla spicciolata
Per ora c’è il piano di assunzione dei precari: esattamente quel che sindacati e opposizioni avevano chiesto di far partire prima, stralciandolo dalla riforma, e che il governo non ha voluto stralciare per poter far passare rapidamente tutto il pacchetto. I precari entreranno alla spicciolata, da ottobre e novembre in poi. Ma attenzione: non saranno tutti.

Non riempiranno il contingente studiato e introdotto per poter svuotare le graduatorie, chiamato “organico potenziato”: dovevano essere mediamente sette docenti in più per scuola, per 48.812 posti ordinari e 6.446 di sostegno (secondo la tabella 1, allegata alla legge 107). Ma circa diecimila posti resteranno vacanti perché non coperti dalle domande. E molti altri – non si sa ancora quanti di preciso, ma un sito autorevole come Tuttoscuola è arrivato a stimarne trentamila – resteranno vuoti per un altro inghippo tutto ministeriale: se i docenti nominati su quei posti hanno nel frattempo avuto e accettato una supplenza annuale su altri posti, possono rinviare di un anno l’entrata in ruolo nei ranghi dell’organico potenziato.

Le scuole dovranno scegliere cosa far fare ai nuovi arrivati

Conclusione: o l’organico potenziato nel primo anno sarà assai depotenziato – con un risparmio notevole per le casse pubbliche, dai quattrocento milioni a oltre un miliardo – oppure i nuovi posti, appena nati, saranno già coperti dai supplenti, alimentando quel precariato che la legge voleva eliminare. La ministra Giannini, in una nota in risposta a questi dubbi, ha promesso che si sceglierà la seconda soluzione: supplenti sui posti non coperti.

Insomma: al rientro in classe, i ragazzi si troveranno gli antichi professori, i nuovi che hanno sostituito quelli in pensione, e in più dai quattro ai sette docenti in ogni scuola (alcuni fissi, altri supplenti) che non hanno ancora un incarico preciso. Infatti la stessa legge prevede un elenco infinito di compiti da assegnare all’organico potenziato (che vanno dalla lettera a alla lettera r del comma 7 dell’articolo unico che compone la riforma), ma passa alle scuole la palla: queste dovranno scegliere cosa far fare ai nuovi arrivati, con il piano triennale dell’offerta formativa, che si scriverà di qui a ottobre.

In compenso, ci sarà qualcuno nelle scuole che ha fin troppo da fare: i cosiddetti “vicari” dei dirigenti, maestre e professori ai quali fino all’anno scorso era alleggerito il carico didattico perché svolgevano ruolo di vicepreside, e che invece da oggi dovranno fare tutte le ore previste. Sempre che, come molti chiedono, non arrivi anche su questo una correzione della riforma.

Se ancora non si sa di preciso cosa faranno i professori dell’organico potenziato, si sa a grandi linee cosa sanno fare. La specializzazione prevalente, tra le domande ricevute, riguarda le discipline giuridiche ed economiche: ben 5.460 domande, di cui oltre mille dalla sola Campania, 663 dalla Puglia e 623 dalla Sicilia. Per fare un confronto: i nuovi entrati docenti di diritto ed economia (discipline che si insegnano in pochi indirizzi delle scuole italiane) sono il doppio di quelli di inglese, e il triplo di quelli di matematica.

Roberta Carlini 

Come funziona il diritto d'asilo in Italia

Internazionale
28 08 2015

Com’è la situazione nei centri di accoglienza in Italia? Cosa offre il paese ai richiedenti asilo? Chi può beneficiare dell’asilo? Cinque domande al presidente del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) Christopher Hein.

Chi si occupa delle richieste d’asilo in Italia?
Il richiedente asilo presenta una domanda di protezione internazionale alla questura o alla polizia di frontiera, quindi il Dipartimento delle libertà civili e immigrazione, del ministero dell’interno, l’autorità responsabile per l’esame, dovrà esaminare la domanda. Le domande di protezione internazionale vengono analizzate dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale composte da un funzionario della prefettura, uno della questura, un rappresentante dell’ente locale e un membro dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). Le commissioni decidono in base a interviste individuali, in presenza di interpreti, se alla persona deve essere riconosciuta una forma di protezione. Nel corso dell’ultimo anno il numero delle commissioni è stato aumentato fino a 40, proprio per velocizzare l’analisi delle domande di protezione internazionale.

Chi può beneficiare dell’asilo?
Tutti i cittadini stranieri, a parte i cittadini comunitari, hanno il diritto di chiedere asilo in Italia. In quest’ottica appare veramente strumentale la distinzione che molto spesso viene fatta tra “irregolari” e “richiedenti asilo”. In Italia sono previste tre differenti forme di protezione di cui beneficiano le persone che per diversi motivi non possono tornare in condizioni di sicurezza nei loro paesi di origine. Lo status di rifugiato protegge chi è costretto a lasciare il proprio paese perché perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, secondo la definizione stabilita dalla Convenzione di Ginevra. La protezione sussidiaria, introdotta dalla Normativa comunitaria, viene riconosciuta a chi rischia di subire un danno grave, come una condanna a morte, atti di tortura o trattamenti inumani o degradanti, minaccia alla vita come avviene in contesti di conflitto generalizzato, nel caso di ritorno nel paese di origine. Infine la protezione umanitaria che viene concessa quando si valuta su base individuale, che esistono gravi motivi di carattere umanitario per i quali il rimpatrio forzato potrebbe comportare serie conseguenze per la persona. Sarà la Commissione, di cui prima abbiamo parlato, sulla base delle storie raccontate dalle persone, della loro coerenza e delle risultanze di approfondimenti fatti sui paesi di origine, a decidere se la persona deve beneficiare di una di queste forme di protezione.

Quanto deve aspettare un richiedente asilo per sapere se la sua domanda è stata accettata?
Dipende da quale è la questura che ha raccolto la domanda d’asilo. Ogni Commissione territoriale ha un carico di lavoro e tempi di analisi diversi. Parliamo comunque di tempistiche molto lunghe. Nonostante l’aumento del numero delle Commissioni, possiamo stimare tempi di attesa di almeno un anno, rispetto ad una procedura che, secondo la legge, dovrebbe durare 35 giorni.

Com’è la situazione nei centri di accoglienza per richiedenti asilo in Italia?
Possiamo usare due aggettivi per descriverla: caotica e difficile. Caotica perché sono proliferati i centri di accoglienza temporanei. Dobbiamo pensare al sistema di accoglienza italiano come a un sistema a tre anelli: i centri governativi (Cara) che sono centri collettivi come quello di Crotone e di Mineo dove sono accolte migliaia di persone, i centri del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che sono piccoli centri dislocati su tutto il territorio nazionale che garantiscono un buon livello di servizi e i centri di accoglienza temporanea. Evidentemente le condizioni in questi diversi anelli sono molto diverse. Per far fronte al numero crescente degli arrivi il ministero dell’interno ha infatti risposto aumentando i posti di accoglienza che sono ad oggi circa 94mila, ma purtroppo nella stragrande maggioranza sono tutti centri temporanei. Nel sistema Sprar oggi sono disponibili circa 20mila posti e altri 10mila nei centri governativi. Tutti i restanti posti di accoglienza sono in strutture straordinarie e temporanee. Quindi con standard diversi da quelli previsti per i centri Sprar e le cui condizioni, sia materiali che di servizio, sono molto difficili da monitorare. Questo è un elemento che ci preoccupa moltissimo. Abbiamo ricevuto telefonate da richiedenti asilo che lamentavano la mancanza di servizi fondamentali: dagli operatori legali, fondamentali per assistere le persone nella loro richiesta d’asilo, a standard materiali poco dignitosi. Credo che l’Italia si trovi oggi a scontare un ritardo storico nell’accoglienza. Fino al 2011 dobbiamo ricordare che lo Sprar aveva solo tremila posti. Abbiamo risposto per troppo tempo con soluzioni d’emergenza, senza capire che dovevamo invece costruire un sistema di accoglienza credibile in termini di numeri e di servizi, in linea con quello di altri paesi europei.

Quanto tempo si rimane nei centri di accoglienza?
Dipende molto da che tipo di percorso un richiedente asilo e un rifugiato ha fatto in Italia. Normalmente nei centri governativi si rimane per l’intera durata della procedura d’asilo e una volta che la protezione è riconosciuta si deve uscire. Con il paradosso che molte persone proprio nel momento in cui L’Italia le dichiara bisognose di protezione si trovano a vivere per strada. Nei centri dello Sprar una volta riconosciuta la protezione una persona può rimanere mediamente sei mesi . Mentre molto difforme è la prassi nei centri temporanei. Diciamo, comunque, che tutte le persone rimangono nei centri di accoglienza almeno per la durata della procedura d’asilo, cioè circa un anno.

Cosa offre l’Italia ai richiedenti asilo?
Dal punto di vista della protezione, molto. L’Italia è infatti uno dei paesi europei che hanno il tasso di protezione internazionale più alto. Lo scorso anno abbiamo riconosciuto una forma di protezione al 60 per cento dei richiedenti asilo intervistati, a confronto del 45 per cento della media europea. Questo è un aspetto sicuramente positivo del nostro sistema d’asilo. Dal punto di vista dell’accoglienza, e ancor più dell’integrazione, purtroppo offriamo ancora troppo poco. Le condizioni di accoglienza, come abbiamo visto, sono molto difficili e disomogenee sul territorio nazionale. Mentre dal punto di vista delle possibilità di integrazione in Italia ancora non esiste un programma nazionale che permetta a tutti i rifugiati di seguire dei percorsi individuali finalizzati a all’inserimento, ma solo delle iniziative del privato sociale. Questa è una falla del sistema. Parlando con i rifugiati ci accorgiamo infatti, molto spesso, che tutto quello che chiedono è solamente di essere supportati e aiutati a diventare autonomi. A ritrovare quella condizione sociale che avevano nel loro paese di origine e che sono stati costretti ad abbandonare.

Cinque regole per sconfiggere il caporalato

Internazionale
27 08 2015

Sun Tzu, nel suo trattato sull’arte della guerra (quarto secolo avanti Cristo), prescrive una piena consapevolezza prima di muovere battaglia. “Misurare gli spazi”, ovvero conoscere il terreno, è la prima regola del maestro cinese; “quantificare le forze” la seconda. Ai dati ottenuti andrà poi applicato il “calcolo numerico”, la “comparazione” e, infine, la valutazione delle “possibilità di successo”.

Proviamo a utilizzare queste regole per analizzare il modo in cui gran parte dei mezzi d’informazione e (a ruota) le istituzioni dichiarano periodicamente guerra al caporalato, cioè al reclutamento illegale di manodopera in agricoltura.

La “misurazione degli spazi” è apparentemente semplice: in questa estate del 2015 la Puglia è di nuovo al centro dell’attenzione, ma la questione non è strettamente meridionale (anche Slow Food ha appena raccontato il caporalato nelle Langhe). Però, giunti al secondo passaggio suggerito dallo stratega orientale, la “quantificazione delle forze”, cominciano subito le difficoltà, perché la retorica prevalente si ferma a chi vede (i “caporali” e gli agricoltori), trascurando del tutto il contesto.

Si scorra la rassegna stampa seguita alla morte di caldo e sfinimento a Nardò (Salento) di Mohamed Abdullah, bracciante quarantasettenne dal Sudan, e non vi si troverà quasi accenno alla filiera del pomodoro. Ampi sono i resoconti delle brutalità dei caporali (“gli schiavisti”): le minacce, la sottrazione di parte del salario e in aggiunta la vendita a caro prezzo dei mezzi indispensabili durante il lavoro (l’acqua, un panino) e durante la permanenza nei ghetti (il posto letto, l’elettricità, il trasporto).

Si parla delle spaventose condizioni di lavoro, della complicità delle aziende agricole che assumono servendosi dei caporali e dell’inadeguatezza delle istituzioni preposte al controllo. Ci viene poi addebitata, da alcuni commentatori, una corresponsabilità quali consumatori di pomodori, sughi e passate “per cui vogliamo spendere troppo poco” – discorso retorico che colpendo gli incolpevoli finisce, ineluttabilmente, per distrarre dall’individuazione dei veri responsabili.

Ma poco o nulla si dice della storia economica di quei pomodori, del modo in cui tra il campo e il supermercato producono profitto, e per chi lo producono. Quindi, tornando alle regole del maestro Sun: non c’è “quantificazione delle forze” né “calcolo numerico”, non si può di conseguenza arrivare a una “comparazione” e non c’è dunque alcuna “possibilità di successo”.

A ben vedere il caporalato viene anzi trattato come un corpo estraneo ai processi economici, e quindi – Sun Tzu ne riderebbe di certo – sembra quasi che l’esercito contro cui si minaccia guerra sia privo di ufficiali e di stato maggiore e sia composto esclusivamente da, appunto, caporali. C’è da domandarsi come sia possibile che un tale esercito tenga in scacco le istituzioni.

Carne da cannone

Naturalmente, invece, una catena di comando e uno stato maggiore ci sono, anche se chi ne fa parte non può essere rappresentato con le tinte forti che s’attagliano ai caporali. Il pittore tedesco George Grosz, negli anni venti del secolo scorso, disegnava signori della guerra dal petto decorato e capitani d’industria con il sigaro nell’atto di brindare mentre progettavano come meglio affamare i poveri e farne carne da cannone. Ma quella che allora era una comunicazione efficace oggi è del tutto inutilizzabile.

Il capitalismo contemporaneo è una rete di relazioni e processi impersonali che copre l’intero pianeta, il suo sottosuolo, il suo spazio aereo fin oltre l’atmosfera: farne il ritratto in una sola immagine è impossibile. Ciò nonostante qualche tratto di china sulla produzione del profitto nella filiera agroalimentare può essere utile per interpretare il quadro complessivo.

Il primo che proviamo a tracciare riguarda i modelli distributivi del cibo e la loro evoluzione. Sentiamo, a questo proposito, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, meglio nota come Antitrust:

In termini di incidenza sul totale del commercio alimentare, fresco e confezionato, la grande distribuzione organizzata (gdo) è passata dal 50 per cento circa del 1996 all’attuale 72 per cento. A fronte di tale andamento si sono registrati una netta contrazione del dettaglio tradizionale, passato dal 41 per cento circa del 1996 all’attuale 18 per cento, e un leggero rafforzamento del peso degli altri canali (commercio ambulante, gli acquisti diretti presso le aziende agricole eccetera), passati dal 9,2 per cento al 10,6 per cento.

Per gdo si intendono i supermercati (dal mini all’iper), quasi sempre appartenenti o affiliati a una catena distributiva (Coop, Conad, Esselunga, Selex, Auchan, Carrefour eccetera). La gdo, spiega la citata indagine dell’Antitrust, è in grado di esercitare uno smisurato buyer power (potere contrattuale negli acquisti) nei confronti dei propri fornitori. Questi fornitori (o subfornitori) a loro volta, scaricano sui lavoratori le conseguenze del loro risicato margine di profitto. In diverse filiere, come quella del pomodoro, “la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi [… consente] a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata (Ben oltre lo sfruttamento: lavorare da migranti in agricoltura, il Mulino, n. 1/14).

Va da sé che il reclutamento e il disciplinamento di quel “gran numero di lavoratori vulnerabili” ingaggiati a pessime condizioni è garantito e può essere garantito solo da caporali.

I luoghi di produzione

Il secondo tratto del nostro schizzo rappresenta l’indifferenza ai luoghi di produzione. Non c’è regione, stato e neppure continente che tenga: le grandi aziende di trasformazione e la gdo comprano dove trovano docilità nel fornire agli standard richiesti e a minor costo, e l’esclusione di un fornitore o di un intero territorio derivano dalla semplice pressione di pochi tasti. Si potrebbe quasi dire che è la costante possibilità di quel gesto digitale e asettico ad alimentare il concreto potere di minaccia dei caporali.

A questo punto entrano in gioco le politiche dell’Unione europea, che incentivano la trasformazione dei sistemi agricoli nordafricani orientandoli verso l’export (al servizio di gdo e grandi grossisti e trasformatori del nostro continente), con il risultato di impoverire la maggioranza dei contadini e dei braccianti tanto qui quanto sull’altra sponda del Mediterraneo. E naturalmente entrano in gioco le politiche migratorie, in costante e sotterraneo dialogo con la creazione di lavoro ricattabilissimo.

Oltre a quello della brutalità dei caporali, c’è un altro polo discorsivo utilizzato nella lotta allo sfruttamento estremo in agricoltura: quello della “legalità”. Che, almeno secondo Coldiretti, la principale associazione di rappresentanza degli agricoltori italiani, potrebbe essere rafforzata da una maggiore diffusione del voucher come strumento retributivo per i braccianti. Cos’è un voucher?

Un metodo di pagamento delle ore lavorate attraverso un ‘assegno’ di 10 euro lordi che può essere riscosso all’Inps e acquistato in varie sedi, tra cui tabacchini e poste. […] Il ‘lavoratore-voucher’ non ha diritto a ferie, malattie, maternità, tredicesima, quattordicesima e a indennità di disoccupazione [… e] acquistando un voucher al giorno si può coprire a livello assicurativo e contributivo un’intera giornata di lavoro (Il regime del salario, Connessioni precarie).

In verità è assai probabile che, con gli attuali rapporti di forza, il voucher non costituisca affatto un’emersione del lavoro nero. Anzi: sui campi dei pomodori (negli agrumeti, tra i filari di vite e così via) alcuni lavoratori potrebbero essere messi “in regola” con un voucher al giorno, assicurando a caporali e datori di lavoro l’impunità anche in caso di controllo, mentre verso altri braccianti si potrebbe usare l’impossibilità di pagarli con voucher (magari perché privi di documenti in regola) per imporre loro condizioni salariali ancora peggiori.

E comunque, più in generale, risulta problematico appellarsi alla “legalità” nel mercato del lavoro quando le leggi che lo normano sembrano ormai ispirarsi a forme di caporalato soft (tramite esternalizzazioni, intermediazioni, eliminazione dell’indennità di malattia e, in fieri, della pensione, negazione del diritto di sciopero eccetera).

Questi sono solo pochi tratti di penna, come promesso: siamo ancora ben lontani da una valida “quantificazione delle forze”, lontanissimi da un “calcolo numerico” e di “comparazione” non è neppure il caso di parlare. Ma, almeno, il maestro Sun smetterà di ridere di noi.

Wolf Bukowski

Internazionale
07 08 2015

Il caso. Isis Anchalee è una giovane ingegnera informatica di San Francisco. L’azienda in cui lavora come programmatrice, la californiana OneLogin, l’aveva scelta tra i testimonial per una campagna di assunzioni ma il suo bell’aspetto ha scatenato una serie di critiche sui social network. Diversi utenti hanno criticato l’azienda: “Perché non hanno scelto un vero ingegnere o un’impiegata invece di una modella?”, è stato il tenore dei commenti pubblicati sulla pagina Facebook. È stato allora che la donna ha deciso di rispondere sul suo blog agli stereotipi sessisti che ancora circondano il suo ambiente. “Non volevo attirarmi tante attenzioni, ma sfrutterò questa situazione per gettare un po’ di luce sul tema del genere nell’ambiente delle nuove tecnologie”.

I dati parlano chiaro. In media, il 30 per cento della forza lavoro nell’industria tecnologica è rappresentata da donne, quando le donne sono ormai il 59 per cento del totale della forza lavoro statunitense e il 51 per cento della popolazione, secondo gli ultimi dati dell’Us census bureau. Da un altro sondaggio pubblicato nel giugno 2013, risultava che le donne occupano solo il 14,3 per cento dei posti nei consigli d’amministrazione delle cento aziende tecnologiche con il miglior fatturato negli Stati Uniti. E secondo l’organizzazione Narrow the gap, a parità di incarico, le donne impiegate nelle aziende hi-tech ricevono in media 200 dollari alla settimana in meno. Questa realtà ha spinto il presidente Barack Obama a promuovere una serie di politiche per migliorare la situazione.

Le esperienze personali. “La realtà è molte persone sono bene intenzionate ma non vedono tutta la merda che deve affrontare in questo ambiente chiunque non si identifichi con un maschio”, ha scritto Anchalee citando un paio di esperienze personali. “Ho visto uomini lanciarmi biglietti da un dollaro in uno studio professionale (l’ha fatto un impiegato di quello studio, durante l’orario di lavoro). Ho visto un ingegnere durante un corso di specializzazione mandarmi un messaggio per proporre “un’amicizia con benefit” mentre affrontavo i colloqui di selezione nella scuola per cui lavorava. Vorrei sottolineare che i responsabili di queste azioni sconvenienti non sono persone cattive. Parlo di uomini socialmente inseriti, intelligenti, insomma, ragazzi normali”.

La mobilitazione internazionale. Da qui la domanda retorica proposta da Anchalee che ha dato il titolo a una vera e propria mobilitazione sul genere, attraverso il web: “Che aspetto dovrebbe avere un’ingegnera?”. L’hashtag #ilooklikeanengineer ha avuto un vasto seguito negli ultimi giorni su Twitter andando a coinvolgere ingegnere di tutto il mondo, dalla Nasa alle comunità islamiche.

Anchalee ora lavora a una community sul tema (www.ilooklikeanengineer.com) e sta raccogliendo fondi per promuovere la discussione sul genere e le diversità nel suo settore. Ha anche annunciato una manifestazione a San Francisco per giovedì 13 agosto.

Internazionale
05 08 2015

Rubén Espinosa aveva 31 anni ed era un fotoreporter freelance. Collaborava con la rivista Proceso e con l’agenzia Cuartoscuro. Era specializzato nella copertura di proteste e manifestazioni e denunciava da anni le aggressioni nei confronti dei giornalisti nello stato orientale di Veracruz. Due mesi fa, si era accorto di essere pedinato e ha subito delle minacce di morte. Ha deciso in fretta di andarsene e si è rifugiato a Città del Messico, dove abitano i suoi genitori.

Venerdì 31 luglio, è stato trovato morto in un appartamento di un quartiere borghese della capitale. Insieme a lui sono state uccise quattro giovani donne, che si trovavano nella casa in cui si era fermato a dormire dopo una festa. Tutti erano stati ammanettati, picchiati e poi finiti con un colpo di pistola alla testa. Rubén Espinosa è l’ottavo giornalista ucciso in Messico dall’inizio dell’anno. Secondo Reporter sans frontieres, sono 88 dal 2000. Il 90 per cento dei casi è rimasto impunito. Lunedì sera si è tenuto il funerale, mentre il giorno prima, quando si è diffusa la notizia dell’omicidio, una manifestazione spontanea ha invaso una piazza della capitale.

La procura di Città del Messico, responsabile delle indagini, non ha ancora formulato nessuna ipotesi sull’omicidio e ha dichiarato di non escludere la pista della rapina. Ma nel paese cresce l’indignazione per l’incapacità delle autorità nell’affrontare le continue aggressioni contro i giornalisti che hanno il coraggio di raccontare la corruzione delle istituzioni e i traffici della criminalità organizzata. Associazioni di giornalisti e per i diritti umani, amici, colleghi e familiari di Espinosa chiedono verità e giustizia.
Nel 2014 il Messico è stato il sesto paese del mondo con più giornalisti uccisi e il primo del continente americano, secondo Reporter sans frontieres. Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, il occupa il posto 148 su 180, al livello dell’Afghanistan. L’organizzazione per la libertà d’espressione Article 19 calcola che ogni 26 ore un cronista messicano viene aggredito, minacciato, sequestrato o addirittura ucciso. La vulnerabilità dei cronisti è diffusa in tutto il paese, ma caratterizza soprattutto chi lavora nei mezzi d’informazione di regioni controllate dai cartelli della droga e dalla polizia corrotta, zone in cui lo stato è poco presente.

Proprio per questo, l’omicidio di Rubén Espinosa e delle sue quattro amiche segna un nuovo capitolo nel panorama di violenza contro i giornalisti in Messico. È la prima volta che un reporter fuggito a Città del Messico da un’altra parte del paese, dopo aver denunciato pubblicamente le minacce subìte, viene ucciso nella capitale. Lo ha sottolineato Article 19, un’organizzazione indipendente che prende il nome dall’articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quello sulla libertà di espressione e il diritto di essere informato.

Rubén Espinosa era nato a Città del Messico, ma da sette anni lavorava a Veracruz, uno stato fortemente condizionato dal controllo del crimine organizzato, specialmente del cartello degli Zetas. È lo stato più pericoloso per chi fa il suo mestiere: dal 2000, 17 giornalisti sono stati uccisi. Con quello di Espinosa, tredici di questi omicidi si sono verificati sotto il governo di Javier Duarte de Ochoa del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri). Nel 2012 è stata strangolata Regina Martínez, corrispondente della rivista Proceso, la stessa con cui collaborava Espinosa. Le autorità hanno chiuso l’indagine stabilendo che era stata vittima di un furto o di un crimine passionale.

Lo scrittore e giornalista messicano Juan Villoro ha dichiarato a El País: “Il governo di Duarte non ha fatto nulla per proteggere i giornalisti. Anzi, ha cercato di promulgare una legge che prevedeva il carcere per chi pubblicava online notizie sulle violenze, che è stata bloccata dalla corte suprema. Ultimamente, il governatore ha chiesto ai giornalisti ‘di comportarsi bene’. Così ha criminalizzato in anticipo tutte le vittime future”.

In un’intervista che ha rilasciato a giugno al giornale online Sin embargo, Espinosa aveva dichiarato: “Non ci sono parole per descrivere le tristi condizioni di Veracruz. La corruzione è a suo agio dappertutto. La morte ha scelto Veracruz, ha deciso di vivere lì”.

Insieme al fotoreporter è stata uccisa Nadia Vera, di 32 anni, attivista per i diritti umani che aveva più volte denunciato la situazione e la negligenza complice del governo di Veracruz. L’identità delle altre tre vittime non è stata confermata dalle autorità. La stampa scrive che si tratterebbe di una ragazza di 18 anni, di una di 29 e della donna delle pulizie, di 40 anni, che stava lavorando nell’appartamento.

Internazionale
05 08 2015

È una bottega come tante altre a Istanbul. Dieci metri quadrati con un odore di caffè macinato e di spezie, un proprietario indaffarato dietro i vasi e che affonda la mano in una grande giara piena di spezie quando una cliente varca la soglia con una banconota in mano. C’è però qualcosa di diverso in questo negozio del quartiere di Esenyurt, a una trentina di chilometri dal centro di Istanbul, sulla sponda europea della metropoli turca.

Qui i cartelli sono quasi tutti in arabo. La clientela è esclusivamente siriana e Mohammed, il gestore, in turco sa dire solo buongiorno e grazie. Arrivato qui da un paio d’anni, Mohammed è fuggito dalla guerra in Siria con sua moglie e i suoi tre figli, per evitare ai figli maschi il servizio militare e per curarsi. Come molti altri, questo curdo di Aleppo è riuscito ad attraversare la frontiera turca sborsando un po’ di soldi, poi ha raggiunto Istanbul e si è stabilito a Esenyurt.

Delimitata da un orizzonte fatto di palazzi nuovi di zecca, alti una trentina di piani, la piccola via commerciale Ali Riza Bey ospita negozi siriani e turchi, ma le due clientele non si mescolano. “Il caffè siriano è troppo forte per i turchi”, dice Mohammed mentre ride e mescola il contenuto della sua tazza.

Esenyurt è diventato un punto di ritrovo per molti siriani in esilio

La conversazione si interrompe all’arrivo di un rappresentante di commercio turco che vuole a tutti i costi vendere dei sacchetti di caffè istantaneo. Mohammed ne compra un cartone, meglio non fare troppe storie. “Rischio di dovermene andare alla chetichella. I turchi esagerano. Aumentano gli affitti per non incoraggiarci a lavorare. Lo fanno con tutti i siriani. Se vuoi avviare un’attività commerciale, devi avere un garante turco, ma se vogliono possono bloccare tutto da un giorno all’altro”, spiega questo ex venditore di batterie che sta nel suo negozio grazie alla mediazione di un prestanome.

Esenyurt è diventato un punto di ritrovo per molti siriani in esilio, in particolare molti curdi del nord della Siria. Per chi non progetta di compiere il viaggio in Europa, è anche un luogo dove stabilirsi. Il prezzo modico degli affitti (300-500 lire turche, tra i cento e i 170 euro), la vicinanza di fabbriche dove si assume a giornata e il passaparola dei primi arrivati hanno attirato i migranti in questo quartiere sorto rapidamente una trentina di anni fa, seguendo il ritmo della travolgente urbanizzazione di Istanbul. Oggi Esenyurt ha quasi 700mila abitanti, il doppio rispetto a sette anni fa.

Questioni mentalità e di permessi

A qualche decina di metri di distanza dal droghiere Mohammed, nel suo piccolo ufficio nel viale della Repubblica, Adem Eselioglu è del tutto impotente di fronte all’afflusso quotidiano di migranti siriani.

In veste di muhtar, il funzionario di grado più basso nell’amministrazione pubblica locale, riceve ogni giorno famiglie siriane per le quali non può fare niente. “Li mando al commissariato per farli registrare, ma non ci sono delle associazioni e io non riesco a comunicare davvero con loro”, ci dice. Non è facile che si creino dei legami tra turchi e siriani. “Se vogliono adattarsi, dovranno lavorare e spendere i loro soldi qui da noi. I siriani hanno una mentalità gretta, se ne stanno tra loro e lo stesso fanno i turchi. Se non lavorano, le cose per loro si faranno sempre più difficili”, afferma.

Il 10 luglio a Bruxelles il ministro turco per gli affari europei Volkan Bozkir ha detto che la Turchia “ha raggiunto la sua capacità massima di accoglienza dei rifugiati”, ossia, secondo le stime di Ankara, due milioni di persone. Secondo il ministro, la Turchia ha fin qui speso 5,3 miliardi di euro per far fronte alla crisi, “mentre l’Europa ci ha promesso solo 70 milioni di euro. E non li abbiamo ancora ricevuti”, ha dichiarato al quotidiano Hürriyet.
Sul marciapiede di viale della Repubblica, Ahmed pulisce i frigoriferi dell’Alep, un piccolo ristorante in cui si serve pollo alla griglia che inaugurerà tra pochi giorni con qualche amico.

Ferito da proiettili nel corso degli scontri ad Aleppo, Ahmed spiega il percorso pieno di insidie che deve affrontare chi vuole regolarizzare la sua posizione sul territorio turco al di là del semplice permesso di soggiorno per rifugiati, che non permette di lavorare. “Per avere un visto di soggiorno permanente occorrerebbe innanzitutto regolarizzare i nostri passaporti siriani presso il consolato qui a Istanbul, e il regime di Damasco pretende 1.500 lire (500 euro) per le pratiche. Poi servono quasi quattromila lire per presentare una domanda e mesi di attesa per un incontro con le autorità turche. Io invece ho scelto di lavorare”, racconta.

All’inizio Ahmed lavorava in un salone di bellezza: “Il comune non ci aiuta. Ci avevano detto che avremmo ricevuto degli aiuti, ma non è stato così, lavoriamo nelle fabbriche qui intorno per poco o nulla. Io lavoravo sette giorni alla settimana, dodici ore al giorno. Ma dato che mi rifiutavo di lavorare per 800 lire al mese, la metà di quello che guadagnano i turchi, mi hanno licenziato”. In quella fabbrica lavorano ancora sua moglie e i suoi figli, una delle quali, a tredici anni, non può andare a scuola perché è senza documenti.

Anche la decina di siriani riuniti attorno a un tavolo del ristorante Alep si trova nelle stesse condizioni. Senza documenti, alcuni sognano di partire per l’Europa, altri si sono rassegnati a restare qui in attesa di una Siria pacificata, realtà sempre meno probabile. Choukri era professore di inglese all’università di Aleppo, e non pensa di intraprendere il grande viaggio verso l’Europa: “Se saremo certi di avere tutti i giorni il pane in tavola e di essere al sicuro, allora torneremo in Siria. Altrimenti resto qui”.

Choukri è un curdo di una sessantina di anni ed è arrivato a Istanbul nel 2013 con sua moglie, i suoi tre figli e una borsa con dentro pochi vestiti. Lavorando in fabbrica ha risparmiato duemila euro per consentire al figlio più grande, di 21 anni, di raggiungere l’Europa, un viaggio cominciato più di un mese fa. “Ce l’ha fatta, è appena arrivato in Ungheria! Il viaggio è stato duro, soprattutto in Serbia e in Macedonia, ma non è stato aggredito. Vorrei mandargli altri soldi, ma non posso” dice.

Se ci sono disordini, è anche perché qualcuno non li paga dopo una giornata di lavoro

La Siria gli manca, ma per lui, che ha lasciato la sua terra, la sua casa e parte della sua famiglia, la situazione era ormai insostenibile. “Il regime ci terrorizzava, i rivoluzionari non sono riusciti a mettersi d’accordo, la segregazione era quotidiana. Oggi le forze curde si sono impossessate dei nostri beni, ma pensano solo ai loro interessi. Mio fratello si trova ancora lì, ma le cose non vanno meglio rispetto a quando c’era Assad.

Senza documenti la comunità siriana di Esenyurt vive in un mondo parallelo senza contatti con i vicini di casa turchi

Almeno a Istanbul non ci sono troppe tensioni tra siriani, anche se alcuni continuano a considerare noi curdi come cittadini di serie B, anche se siamo tutti quanti in esilio. Nemmeno qui siamo felici”.

Senza documenti e senza una speranza realistica di tornare nel suo paese, la comunità siriana di Esenyurt vive in un mondo parallelo, senza contatti con i vicini di casa turchi. Davanti a un chiosco di kebab siriano, sulla terrazza ombreggiata del bar all’angolo, una decina di turchi gioca a carte e beve tè, ma non ci pensano proprio a far giocare anche i siriani.

“Io non parlo con loro e loro non parlano con me. Aprono i loro negozi, i loro bar e i loro ristoranti. Stanno bene, stanno molto meglio di noi, non hanno spese per la previdenza sociale, perciò possono lavorare per una paga inferiore”, dichiara Askim, che ha rilevato questo bar dopo aver perso il lavoro.

Il suo vicino di tavolo, Muammer, è d’accordo, ma aggiunge con un tono più conciliante: “Abbiamo bisogno di loro! La nostra economia va bene, ma nessuno vuole lavorare. Non abbiamo sufficiente manodopera”. Un altro giocatore esclama: “Queste sono sciocchezze. Loro non sgobbano, sono insopportabili, sono sporchi, non capiscono niente, sono qui di passaggio e non rispettano niente. Poi provocano dei disordini. Sono dei ladri!”. “Se ci sono disordini, è anche perché qualcuno non li paga dopo una giornata di lavoro”, risponde un altro.

Sognare un altro esilio

Nel vicino quartiere di Başakşehir, lo scorso mese di maggio, alcuni turchi hanno attaccato dei negozi gestiti da siriani dopo che dei ragazzi siriani avevano picchiato un adolescente turco. Sono state incendiate delle case e gli abitanti sono stati messi in salvo grazie all’intervento delle forze dell’ordine.

Dopo qualche mese trascorso a Esenyurt, c’è chi comincia a sognare un altro esilio. È il caso di Hamza, che lavora da un barbiere. Figlio di padre curdo e madre turca, Hamza è originario di Aleppo e sa parlare turco, ma ormai ha fatto la sua scelta. Tra qualche mese proverà a entrare illegalmente in Europa per raggiungere dei parenti che si sono già stabiliti in Germania. Sua moglie, incinta di otto mesi, cerca di trattenerlo, ma non c’è niente da fare: “Dice che è pericoloso, che non vuole restare sola con il bambino quando sarà nato, ma non ho altra scelta”.

Per pagare i 1.500 euro richiesti dai trafficanti per il viaggio verso le coste greche, deve lavorare ancora qualche mese. A giugno, sei imbarcazioni sono state bloccate in mare e i loro passeggeri sono stati rimandati in Turchia. L’8 luglio le autorità turche hanno arrestato diversi trafficanti che “provavano” un nuovo tragitto per arrivare in Grecia: 250 persone (siriani, afgani e iracheni) sono state fermate e rimandate verso le coste turche. Ad Hamza non importa, lui vuole aprire un negozio di parrucchiere in Germania, come quello che aveva in Siria.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurope, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

Internazionale 
05 08 2015

L’articolo di Martín Caparrós sullo sfruttamento delle madri surrogate in India e in Nepal pubblicato la settimana scorsa sul sito di Internazionale racconta piuttosto accuratamente quanto accade in quei paesi. In generale, ricorrere alla gestazione per altri (gpa) in paesi poveri come la Thailandia, il Messico, l’Ucraina, la Georgia o appunto l’India e il Nepal significa esercitare un potere economico talmente forte sulla popolazione locale da rendere praticamente impossibile verificare se la scelta di una donna di portare avanti una gravidanza per qualcun altro sia libera oppure no. Quando si tratta di sfamare la propria famiglia, è probabile che qualunque donna indiana sia disposta a tutto. O forse è la sua famiglia a costringerla. Ma anche al di fuori da una situazione di grave indigenza, di fronte all’offerta di un compenso pari a vari anni di stipendio diventa difficile per una donna dire di no. Prima ancora che una questione etica sulla gestazione per altri, quindi, quello di cui parla Martín Caparrós è un rapporto di sfruttamento economico del mondo ricco nel confronti dei paesi poveri.

La legislazione dei paesi coinvolti, più che un’effettiva volontà di evitare abusi sembra soprattutto una corsa ai ripari per evitare complicazioni a livello internazionale. Come la Thailandia che, dopo il caso di una coppia di genitori australiani eterosessuali che hanno abbandonato alla madre surrogata un bambino affetto dalla sindrome di Down, ha introdotto un divieto di gestazione per altri agli aspiranti genitori stranieri e omosessuali. O qualche anno prima l’India, che stufa di avere a che fare con magagne diplomatiche, ha limitato l’accesso alla maternità surrogata alle coppie eterosessuali regolarmente sposate da almeno due anni.

Interessante notare che in entrambi i casi è scattato un divieto alle coppie omosessuali, mentre non è stato adottato assolutamente nessun provvedimento per migliorare le condizioni delle madri surrogate o evitare i casi di sfruttamento. Ulteriore conferma che dietro alle nuove regolamentazioni non ci sia alcun interesse nei confronti di queste donne e nessuna intenzione di limitare gli effetti negativi della gpa.

L’informazione parziale sul fenomeno è diventata un’arma per continuare a negare i diritti delle coppie di persone dello stesso sesso

Mi trovo quindi completamente d’accordo con Martín Caparrós nella misura in cui denuncia un fenomeno di sfruttamento di donne povere da parte di coppie provenienti dai paesi ricchi. Non trovo giusto però che non abbia inserito nessun riferimento al fatto che la gestazione per altri non sia in sé necessariamente un male. Perché senza le dovute distinzioni, e con un’opinione pubblica ancora molto poco informata sull’argomento, si rischia di far passare il messaggio che maternità surrogata significhi sempre e comunque sfruttamento.

La degenerazione della gpa che avviene in alcuni paesi richiama giustamente l’attenzione della stampa e delle organizzazioni internazionali, ma bisogna stare attenti a non falsare il dibattito generale e lasciare spazio a strumentalizzazioni politiche. In Italia, nelle recenti settimane, la maternità surrogata è diventata uno strumento usato come spauracchio da chi vuole mettere i bastoni tra le ruote al disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili. L’informazione parziale su un fenomeno, che tra l’altro da noi riguarda un numero limitatissimo di persone etero e gay, è diventata un’arma per continuare a negare i diritti di tutte le coppie di persone dello stesso sesso, vale a dire un numero altissimo di cittadini italiani.

Il caso degli Stati Uniti e del Canada

Sulla nostra stampa non si racconta quasi mai che negli Stati Uniti e in Canada la maternità surrogata è una pratica molto diffusa e accettata, e che le donne che si prestano ad avere un figlio per qualcun altro in cambio di un compenso non lo fanno per bisogno, ma per un misto di opportunità e altruismo. La cifra che riceve una donna americana (normalmente circa ventimila dollari, la metà della cifra citata da Martín Caparrós) è di sicuro una somma importante, ma da sola non basterebbe a spingere una donna che non vuole essere una madre surrogata a diventarlo. Al contrario di quello che succede in India, questo tipo di compenso non le cambia la vita. In genere si tratta invece di un’espressione del principio tutto americano del win-win: io metto qualche soldo in più da parte grazie a te e tu metti su famiglia grazie a me, e siamo tutti soddisfatti.

Per accettare un’aspirante madre surrogata, diverse agenzie richiedono che la donna disponga di un certo salario, così da eliminare l’ipotesi che lo faccia per bisogno. Certo, va notato che non sono le donne più ricche quelle che si prestano alla gpa, ma con quella clausola almeno si scongiura il rischio che l’interessata non sia libera di scegliere. Il più delle volte poi le agenzie lavorano con donne che sono già madri, in modo che sia una scelta più consapevole, e chiaramente si tratta di donne che hanno avuto gravidanze molto facili, perché altrimenti non si proporrebbero. Infine un’altra importantissima differenza con le cliniche indiane: le madri surrogate nordamericane scelgono loro stesse la coppia per cui avere un bambino e con cui spesso si crea un rapporto di amicizia.

Tutto questo, unito al fatto che gli Stati Uniti e il Canada offrono una regolamentazione chiara e solida sulla materia, fa sì che una strada corretta alla gestazione per altri esista. Che poi è quella intrapresa da me e mio marito per diventare padri: la donatrice di ovulo e la donna che ha portato avanti le gravidanze per i nostri bambini sono parte della nostra vita e manteniamo con loro un profondo legame di affetto e riconoscenza.

In Nordamerica la maternità surrogata è una possibilità assolutamente concepibile per molte donne

Dal punto di vista morale, sembra che l’oceano Atlantico divida in due le coscienze: da un lato c’è l’Europa che inorridisce di fronte all’idea che la procreazione possa essere eseguita a pagamento, dall’altra i nordamericani per cui invece si tratta semplicemente di un servizio che si può scegliere di offrire. In un paese come gli Stati Uniti, dove si può donare sangue a pagamento, sembra che i paletti della disponibilità del proprio corpo siano piazzati più in là rispetto al vecchio continente. Ma questo non stupisce: nella stessa Unione europea convivono paesi che trattano in modo molto diverso questioni come l’aborto, l’eutanasia o la prostituzione, mostrando che per quanto riguarda i diritti sul corpo il mondo occidentale non è allineato su posizioni uniformi.

In Nordamerica la maternità surrogata è quindi una possibilità assolutamente concepibile per molte donne. Tutto questo però non toglie che anche la strada americana alla gpa abbia le sue zone d’ombra. Nonostante le agenzie offrano garanzie per assicurarsi che non ci siano forme di sfruttamento, è anche vero che il lato dei rapporti umani è tutto in mano ai diretti interessati: nulla vieta per esempio che una donatrice di ovulo possa essere scelta per motivi puramente estetici o che dopo la nascita del bambino si decida di non avere più nulla a che fare con la madre surrogata. Decidere di vivere l’esperienza in modo umano è una scelta e non un obbligo.

Legami biologici

Altre difficoltà possono poi sorgere quando le cose non vanno come pianificato: per esempio quando si tratta di risarcire una gestante che va incontro a gravi difficoltà mediche durante il parto oppure di regolare situazioni di conflitto dove i genitori del bambino o la madre surrogata cambiano idea durante la gravidanza.

Trent’anni fa, quando negli Stati Uniti è stata inventata la gpa, le madri surrogate erano anche madri biologiche del bambino. Ma le cose sono cambiate nel 1986, quando Mary Beth Whitehead decise di tenere il bambino che aveva partorito per conto del padre biologico e di sua moglie e la causa legale che ne scaturì attirò l’attenzione della stampa. “Dopo il triste spettacolo di due famiglie che si litigano un figlio”, scrive Tamar Lewin sul New York Times, “la maternità surrogata tradizionale (quella in cui la donna è anche madre biologica del nascituro) fu gradualmente abbandonata in favore della maternità surrogata gestazionale, in cui l’embrione è prodotto in laboratorio – usando a volte ovuli e sperma dei genitori del nascituro e altre volte quelli di donatori – ed è impiantato nella madre surrogata, la quale quindi non ha nessun legame biologico con il bambino”.

A quanto riporta il New York Times, durante lo scorso anno negli Stati Uniti sono nati circa duemila bambini da madri surrogate. Mentre nel corso degli ultimi decenni, il totale di casi in cui i genitori hanno cambiato idea durante la gravidanza sono stati ottantuno e quelli in cui a cambiare idea à stata la madre surrogata sono stati trentacinque (in ventiquattro di questi si trattava di madri surrogate tradizionali, cioè madri biologiche del nascituro).

La strada da seguire non è quella del divieto ma della regolamentazione

I numeri quindi, sembrano indicare che la pratica sia entrata in una fase di stabilità legale e soprattutto etica, con criteri ben definiti da entrambe le parti. Nella stragrande maggioranza dei casi le nascite attraverso maternità surrogata avvengono senza alcuna complicazione. Ma è realistico aspettarsi altri episodi controversi di tanto in tanto, perché questo è ciò che succede con la fecondazione assistita: senza scomodare la gpa, sono sotto gli occhi di tutti casi come quello dei gemelli italiani nati da genitori non biologici per via di uno scambio di provette all’ospedale Pertini di Roma oppure, notizia di queste ore, una coppia di donne americane che ha denunciato la clinica della fertilità a cui si erano rivolte perché, dopo aver chiesto un donatore di seme bianco, hanno avuto una bambina mulatta.

Considerata la diffusione che ha raggiunto la fecondazione assistita, è bene abituarsi a questi tipo di notizie. È evidente però che la strada da seguire non è quella del divieto, ma quella della regolamentazione: le autorità devono fare il possibile per tenere il passo con l’avanzamento delle tecniche di fecondazione cercando di sostenere le nuove opportunità da un lato ed evitare gli abusi dall’altro. E anche evitando di introdurre limiti legali che nella pratica si tramutano in un divieto solo per chi non può permettersi di andare all’estero e rendono il ricorso alla fecondazione assistita o alla gpa una possibilità riservata ai più ricchi.

L’altro lato della storia

È importante ricordarsi che i casi di conflitti eclatanti che finiscono sui giornali sono solo le eccezioni di una forma di progresso scientifico che nella maggior parte dei casi funziona più che bene e che negli ultimi anni ha permesso a milioni di persone di creare una famiglia.

In India e in Nepal, invece, l’eccezione è trovare una madre surrogata che possa dimostrare di aver fatto una libera scelta. Non dico che sia impossibile, ma di certo il sistema di sfruttamento istituzionalizzato che si è creato non mette in conto questa possibilità. In molti casi ai genitori del nascituro non è permesso incontrare la donna che partorirà il loro figlio, men che mai parlarle e chiederle perché lo sta facendo.

Sarebbe sbagliato però lasciare che questa forma di degenerazione influenzi il giudizio generale sulla maternità surrogata: al di là di come la si pensi, nessuno può affermare che le madri surrogate nordamericane siano delle donne povere e sfruttate. E mentre denuncia i soprusi, la stampa dovrebbe raccontare anche questo lato delle storia. E sarebbe corretto da parte dei giornalisti come Martín Caparrós di fare attenzione quando condiscono i loro articoli con frasi a effetto come “genitori 2.0” o “bambini made in Usa” che sviliscono famiglie intere. Non tutte le persone che sono diventate genitori tramite la gpa sono degli sfruttatori. E tutti i bambini, a prescindere da come sono nati, meritano di essere trattati con rispetto.

Claudio Rossi Marcelli, giornalista di Internazionale

 

Finanziatori unitevi per la scuola

Internazionale
31 07 2015

Ha già superato otto milioni di firme la petizione #UpForSchool. Lanciata da grandi organizzazioni educative non governative come A world at school e Plan internacional, è sostenuta da Gordon Brown, inviato speciale dell’Onu per l’educazione. Il risultato della raccolta di firme è stato annunziato durante la conferenza internazionale Educazione per lo sviluppo, ospitata a Oslo dal governo della Norvegia. La petizione è molto semplice: “Noi, giovani, insegnanti, genitori, cittadine e cittadini di tutti i paesi ci rivolgiamo ai nostri governanti perché mantengano la promessa, da loro fatta all’Onu nel 2000, di assicurare entro il 2015 a ogni bambino e bambina di andare a scuola e realizzare il suo diritto all’educazione superando gli ostacoli che impediscono di sprigionare attraverso la scuola il suo potenziale”.

L’obiettivo è lontano. Børge Brende, ministro degli esteri, ha annunziato che la Norvegia raddoppierà la somma destinata alle scuole di paesi poveri. Ma tra il 2010 e il 2015 i fondi degli altri stati sono diminuiti. Oslo propone di creare una commissione internazionale presieduta da Gordon Brown per reperire fondi ordinari e, distinti da questi, fondi per le emergenze straordinarie che oggi vivono Nepal, profughi siriani, paesi centroafricani. Spendiamo per difesa, cibo, salute, ma quasi niente in istruzione. La Norvegia ha ottenuto un summit dell’Onu in settembre per correggere questa cecità grave oggi e per il futuro di milioni di bambine e bambini.

Tullio De Mauro

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