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INTERNAZIONALE

La Germania non è un modello da seguire

Internazionale
27 07 2015

“Il sud Europa deve essere più tedesco?”. La domanda, posta dallo Spiegel nel 2012, ritorna oggi, dopo che la chiusura delle trattative greche ha restituito un mix di riforme e austerità ispirato al cosiddetto consenso Berlino-Washington e un piano di privatizzazioni ritagliato sull’esperienza della riunificazione tedesca. Guidata, alla fine degli anni ottanta, dall’attuale ministro delle finanze di Berlino e dominus delle trattative europee, Wolfgang Schäuble.

Per molti, compreso il premier italiano Matteo Renzi, la risposta è sì. Considerata alla fine degli anni novanta “la malata d’Europa”, da quel momento la Germania non conosce crisi. La sua economia è cresciuta del 10 per cento tra il 2009 e il 2014. Il tasso di disoccupazione è al 4,7 per cento, quello giovanile al 7,1.

L’export supera l’import di circa 300 miliardi di euro all’anno, per un surplus commerciale pari al record dell’8,4 per cento del prodotto interno lordo (pil). Il governo ha ottenuto il pareggio assoluto di bilancio e prevede di abbattere il rapporto debito/pil al 60 per cento entro il 2020.

Un sistema dell’istruzione non competitivo

Eppure, da quindici anni l’economia tedesca ha smesso di investire a tassi accettabili, ipotecando negativamente il suo futuro. All’appello mancano 103 miliardi all’anno, necessari per mantenere stabile lo stock di capitale dell’industria.

Le imprese hanno 500 miliardi chiusi in cassaforte, così l’investimento privato è scesodal 21 per cento del 2000 al 17 per cento del 2013. I governi hanno la loro parte di responsabilità. Nonostante bassi tassi d’interesse sui titoli di stato, che rendono conveniente prendere a prestito, gli investimenti pubblici sono al 2 per cento del pil e servirebbero dieci miliardi in più all’anno per mantenere agibili le infrastrutture in futuro.

La Germania tra cinque anni avrà bisogno di 1,7 milioni di immigrati

Anche il sistema dell’istruzione è colpito dal “divario di investimento”. Le università tedesche non riescono a competere con i migliori atenei al livello globale e rimangono indietro nelle classifiche internazionali. Solo un terzo delle persone tra i 30 e i 34 anni è laureato, una quota inferiore alla media Ocse.

Tutto ciò contribuisce al ritardo del paese nella corsa all’innovazione. Decima nell’Unione europea per livello di digitalizzazione, nel settore la Germania non sforna concorrenti al livello globale dalla fondazione della Sap) nel 1972. Ora che l’information technology aumenta il suo peso nell’industria tradizionale, compresa quella automobilistica, il timore è che questo possa diventare il tallone d’Achille della competitività tedesca.

Ma, quando il governo ha tentato di incoraggiare le iscrizioni all’università, ha generato le resistenze delle imprese manifatturiere, preoccupate dal declino delle immatricolazioni al sistema apprendistato, che oggi rappresenta il principale canale di passaggio scuola-lavoro.

Un paese sempre più anziano

La coperta, d’altro canto, è corta: la fertilità tedesca è la più bassa del mondo, con otto neonati ogni mille abitanti. Nel 2035, le persone di più di 65 anni saranno 24 milioni, con un aumento del 50 per cento. Entro il 2100, ci saranno 25 milioni di tedeschi in meno e la Germania avràcessato di essere la superpotenza demografica d’Europa.

A Lohberg, periferia nord di Dinslaken, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 28 gennaio 2015. - Dominik Asbach, Laif/Contrasto A Lohberg, periferia nord di Dinslaken, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 28 gennaio 2015. (Dominik Asbach, Laif/Contrasto)
La soluzione, rappresentata fino a questo momento da un vero e proprio boom dell’immigrazione (400mila migranti netti nel solo 2012), è osteggiata in maniera crescente dalla politica, pronta ad alzare barriere anche per chi arriva dagli altri paesi dell’Unione. Eppure, la Germania nel 2020 avrà bisogno di 1,7 milioni di immigrati e, senza un mercato del lavoro in salute, non potrà mantenere a lungo la sua posizione di preminenza economica.

Aiutata dall’euro, Berlino ha potuto esportare verso il resto del mondo quando l’Europa è entrata in crisi

Le riforme Hartz, concluse dai socialdemocratici nel 2005, sono spesso indicate come la ragione del crollo della disoccupazione. In realtà, l’aumento della competitività tedesca è stato generato da una drastica “moderazione salariale”, interrotta solo negli ultimi anni: prima della grande recessione, gli stipendi sono cresciuti meno della produttività, abbassando i costi di produzione e i prezzi dei prodotti.

Questo è stato permesso dalla struttura di contrattazione tra imprese e sindacati più che dalle riforme, che pure hanno contribuito all’abbattimento del potere contrattuale dei lavoratori attraverso una diminuzione dei sussidi di disoccupazione e la creazione di una sacca da cinque milioni di “impiegati marginali” grazie ai cosiddetti minilavori.

L’effetto aggregato è stato l’abbattimento della “quota lavoro” sul reddito nazionale e un aumento della disuguaglianza nella ricchezza fino ai livelli più alti dell’area euro. Oggi, i poveri sono 12,5 milioni – la quota più elevata dalla riunificazione del paese.

Il sistema bancario peggiore del mondo

Aiutata dall’euro, che rende i suoi prodotti più convenienti, la Germania ha potuto esportare verso il resto del mondo (Asia in testa) quando l’Europa è entrata in crisi. Prima di quel momento, il boom dell’export verso i partner del vecchio continente era stato spinto da un intreccio di relazioni finanziarie che faceva perno sul sistema bancario tedesco.

“Uno dei peggiori al mondo”,secondo l’analista Paul Gambles. La scarsa capitalizzazione delle banche, compresa la Deutsche Bank, lascia il sistema vulnerabile a potenziali crolli.

Circa la metà delle piccole banche europee, lasciate fuori dalla supervisione della Bce, si trova proprioin Germania. Si tratta di banche regionali e municipali con un rapporto in molti casi di dipendenza dalla politica. Queste hanno in pancia debiti garantiti dallo stato pari al 145 per cento del pil tedesco, debiti che in futuro potrebbero finire per pesare sul bilancio pubblico.

Questa implicita garanzia di salvataggio ha spinto le banche a comportamenti azzardati per tutti gli anni 2000. Prestando denaro ai paesi periferici a rischio in cerca di facili ritorni, le banche hanno generato un flusso di capitali in grado di alimentare i deficit commerciali dei paesi del Mediterraneo, che riutilizzavano il denaro per comprare beni e servizi tedeschi, stimolando il boom della Germania mentre accumulavano squilibri insostenibili.

L’attacco dell’uomo Bce

Nel 2010, quando il castello di carte è crollato, l’Europa si è affrettata a salvare il sistema bancario trasferendo le potenziali perdite dal bilancio delle banche a quello dell’eurozona nel suo complesso attraverso il sistema Target2.

Beeck, nel distretto di Duisburg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 25 novembre 2014. - Oliver Tjaden, Laif/Contrasto Beeck, nel distretto di Duisburg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 25 novembre 2014. (Oliver Tjaden, Laif/Contrasto)
La stoccata più dura è arrivata nelle scorse settimane da Yves Mersch, uomo della Bce, durante l’assemblea annuale della DZ Bank, quarto gruppo bancario del paese.

Un’economia che non ha abbastanza lavoratori qualificati e che non ristruttura ponti e strade consuma la sua ricchezza e non è credibile quando afferma di voler crescere in maniera dinamica e sostenibile. Una società in cui gli ottantenni aumenteranno del 50 per cento nei prossimi quindici anni rischia di perdere la sua volontà di riformare e di integrare. Questo crea una tendenza a proteggere i diritti acquisiti e a sposare il conservatorismo di una società chiusa. Per questo i governi non dovrebbero solo richiedere riforme altrove ma innanzitutto attuarle nel proprio paese

A Berlino, che secondo le classifiche Ocse negli anni di Angela Merkel è caduta al 28º posto su 34 per propensione alle riforme, saranno fischiate molte orecchie.

I problemi sottolineati da Mersch non sono solamente tedeschi. Ma la soluzione del “consenso Berlino-Washington”, la medicina amara fatta trangugiare a Tsipras, equivale alla richiesta di barattare stabilità domestica con competitività estera.

Il modello è quello di un’eurozona con crescenti disuguaglianze, ampie sacche di disoccupazione soprattutto al sud e salari moderati con il solo scopo di aumentare l’export. Un’idea neomercantilista dell’economia che rischia di porre una pressione recessiva su tutta l’economia globale, dando nello stesso tempo fiato a elementi di destabilizzazione interna al continente.

Quello tedesco non è un modello da seguire.

Nicolò Cavalli, ricercatore e giornalista 


Internazionale
22 07 2015

Il 10 luglio Sandra Bland viene arrestata dalla polizia di Waller County, in Texas, per un’infrazione stradale e resistenza agli agenti. Tre giorni dopo viene trovata morta in carcere, ufficialmente per suicidio. Bland, 28 anni e nera, era un’attivista per i diritti civili e anche se il coroner ha stabilito che la sua morte è dovuta a impiccagione, la famiglia ha chiesto una nuova autopsia vista la modalità violenta del suo arresto. La donna aveva appena ottenuto un lavoro alla Prairie View A&M University ed era molto attiva sui social network nel denunciare la brutalità della polizia. I dubbi sono aumentati in seguito alla diffusione del video integrale da parte del dipartimento di giustizia del Texas.

Si vede il fermo dell’auto, il poliziotto che dopo alcuni minuti chiede alla donna di uscire dall’auto e di gettare la sigaretta, lei che rifiuta e lui che la obbliga a uscire minacciandola con un Taser. Dall’audio si capisce che la conversazione a quel punto diventa ancora più violenta, si sente la donna urlare e dire al poliziotto che le fa male ai polsi e s’intuisce che viene ammanettata a terra, come si vede in altri video amatoriali. Arrivano altri agenti e infine all’arresto.
 
Alcuni blogger, registi e giornalisti ora notano delle anomalie che potrebbero segnalare delle manomissioni delle immagini. Per esempio, segnala il reporter Ben Norton, al minuto 25 un uomo appare e scompare dalla scena, intorno al minuto 32 lo stesso succede con un’auto bianca e altri episodi simili sono sparsi in tutto il video.
Il poliziotto dell’arresto, Brian Encinia, sostiene di essere stato colpito da Bland e ora è stato messo in congedo.

Internazionale
21 07 2015

La corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver violato i diritti dei gay e ha stabilito che dovrà introdurre il riconoscimento legale per le coppie omosessuali. Secondo una sentenza del tribunale di Strasburgo, l’Italia ha violato l’articolo 8 della convenzione europea dei diritti umani sul diritto al rispetto per la vita privata e familiare.

“La corte ha considerato che la tutela legale attualmente disponibile in Italia per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile”, si legge in una nota della corte.

Il caso era stato sollevato da tre coppie omosessuali, guidate da Enrico Oliari, presidente dell’associazione Gaylib, che hanno fatto ricorso a Strasburgo contro l’impossibilità di vedersi riconoscere l’unione in patria.

Internazionale
17 07 2015

Un intrigo internazionale, un tentativo di insabbiamento o un faticoso cammino giudiziario verso la verità? È difficile definire con esattezza il caso dell’ex nunzio apostolico Józef Wesołowski, accusato di gravi reati legati alla pedofilia e per questo sottoposto a processo in Vaticano. Forse la vicenda è tutte e tre queste cose insieme e la battaglia intorno all’ex arcivescovo fa parte di quel processo di riforma portato avanti – non senza ostacoli – da papa Francesco.

Sta di fatto che la storia non sembra avere ancora contorni ben definiti e rimane avvolta in molte incertezze.

Józef Wesołowski è stato accusato di abusi sui minori e di possesso di un gigantesco archivio pedopornorafico negli anni che vanno dal 2008 al 2014. In particolare avrebbe commesso la maggior parte dei reati nella Repubblica Dominicana dove aveva svolto il suo ultimo incarico come ambasciatore del papa, quindi avrebbe proseguito l’attività criminosa in Vaticano.

Da qui la decisione della Santa sede di procedere alla riduzione allo stato laicale dell’arcivescovo in base a un procedimento canonico; contro questa sentenza Wesołowski ha presentato ricorso in appello. Quest’ultimo è ancora pendente, quasi a dire che anche sul piano ecclesiale la questione è ancora aperta.

Tuttavia Bergoglio, come ha precisato nel settembre 2014 il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, ha dato il via libera all’arresto dell’ex nunzio quando ha deciso di dare impulso all’indagine del promotore di giustizia vaticano (una sorta di pubblico ministero), Gian Pietro Milano, che si è conclusa nel giugno scorso con il rinvio a giudizio dell’imputato.

L’11 luglio doveva dunque cominciare nella cittadella vaticana un processo per pedofilia clamoroso, senza precedenti, contro un ex arcivescovo e nunzio apostolico.

Ma “in apertura di dibattimento il promotore di giustizia ha comunicato che l’imputato non era presente in aula in quanto ricoverato in ospedale. Il tribunale ha preso atto dell’impedimento a comparire dell’imputato, a seguito dell’insorgere di un improvviso malore, che ha reso necessario il suo trasferimento presso una struttura ospedaliera pubblica, ove risulta attualmente ricoverato nel reparto di terapia intensiva”.

Così recitava il comunicato ufficiale diffuso dal Vaticano la mattina stessa dell’inizio del processo. Il Vaticano parla di “ricovero in una clinica” ancora in corso il 16 luglio.

La prima udienza, annunciata come particolarmente densa di spiegazioni circa il merito delle accuse e delle contestazioni, è durata in tutto sei minuti, il procedimento è stato poi rinviato a data da destinarsi.

La decisione non è piaciuta alla procuratrice generale della Repubblica Dominicana, Yeni Berenice Reynoso, che ha sottolineato come, sollevando la questione delle precarie condizioni di salute, l’ex diplomatico vaticano di 67 anni, intenda semplicemente sottrarsi alla giustizia.

A Wesołowski del resto sono contestati in particolare cinque casi di abuso sessuale su minori avvenuti nel paese caraibico; gli episodi sarebbero molti di più, ma su questi cinque sono state raccolte testimonianze e prove importanti attraverso indagini complesse. Ancora, va sottolineata la scelta di rendere pubblica la prima udienza da parte vaticana. A questo scopo era stato predisposto pure un pool di giornalisti autorizzati ad assistere all’inizio del procedimento; inoltre, dal punto di vista strettamente giuridico, la vicenda aveva un suo complicato ma perfetto incastro.

Un passo indietro
Nel luglio del 2013 papa Francesco, eletto da pochi mesi come successore di Benedetto XVI, aveva introdotto con un motu proprio, cioè un provvedimento legislativo di diretta emanazione del pontefice, un aggiornamento della legge penale nella quale si prevedeva tra l’altro un inasprimento delle pene per diversi reati compresi quelli relativi agli abusi sessuali tra cui anche il possesso di materiale pedopornografico, la violenza sessuale, la prostituzione e altro.

Si noti che il caso Wesołowski comincia a emergere tra Vaticano e Caraibi proprio nell’estate del 2013, quando cioè la vicenda dell’ex nunzio diventa un caso giudiziario nella Repubblica Dominicana. È in quel periodo che il cardinale e arcivescovo di Santo Domingo, Nicolás de Jesús López Rodríguez, informa Bergoglio di quanto sta per accadere. A quel punto il nunzio viene richiamato a Roma e destituito da ogni incarico.

Successivamente prendono il via il processo canonico e poi quello penale. Tuttavia con la contestazione a Wesołowski di aver conservato materiale vietato nei suoi computer fino al 2014, la giustizia vaticana risolveva il problema dell’impossibilità di applicare retroattivamente la nuova legge penale del 2013. Insomma la Santa sede aveva costruito intorno all’ex nunzio un meccanismo complesso ma difficile da smontare.

D’altro canto la vicenda si portava dietro una serie di ricadute internazionali. In primo luogo Wesołowski oltre a quella vaticana aveva anche la nazionalità polacca, da cui l’interessamento delle autorità di Varsavia verso l’ex nunzio. È stata anche ventilata l’ipotesi di una richiesta di estradizione da parte della Polonia. L’ex diplomatico, inoltre, non era l’unico a essere stato accusato di abusi sui minori nella Repubblica Dominicana, con lui figuravano infatti altri sacerdoti, pure di origine polacca, successivamente sottoposti a giudizio in patria.

C’era un legame tra queste diverse storie?

È questa un’altra domanda che finora non ha ricevuto risposta. Inoltre la vicenda Wesołowski ha avuto, poco più di un anno fa, anche un’ulteriore eco internazionale.

Quando nel maggio del 2014 il Vaticano è stato ascoltato dal comitato della convenzione Onu di Ginevra contro la tortura (procedura cui sono sottoposti gli stati aderenti alla convenzione), la vicenda Wesołowski è tornata a galla: infatti era stata inserita tra le varie richieste di chiarimento avanzate dai rappresentanti delle Nazioni Unite alla delegazione vaticana.

Una bomba a orologeria?
Nel corso di questi due (o poco più) funambolici anni di pontificato, papa Francesco ha dovuto affrontare alcune emergenze che gravavano sulla chiesa in modo drammatico.

La prima era quella degli scandali finanziari che ha fatto da detonatore alla battaglia per riorganizzare i dicasteri economici mentre il Vaticano si adeguava agli standard internazionali in materia di antiriciclaggio.

La seconda riguardava lo scandalo degli abusi sessuali sui minori. Considerato che alcune conferenze episcopali facevano resistenza passiva sull’argomento (tra queste quella italiana), il papa, come in altri settori, ha manovrato dall’alto facendosi aiutare da un gruppo di collaboratori.

Così è nata la Pontificia commissione per la tutela dei minori, guidata dal cardinale Sean Patrick O’Malley, frate cappuccino arcivescovo di Boston, che si avvale del supporto di ex vittime di abusi, di studiosi e psicologi tra cui diverse donne, novità non scontata Oltretevere.

Con il passare dei mesi alcuni vescovi anche di alto rango sono stati allontanati, mentre la vicenda Wesołowski doveva assumere un valore simbolico in questa strategia dimostrando che la chiesa sapeva andare fino in fondo.

Tuttavia non si può dimenticare che l’ex nunzio non è un qualsiasi prete di una parrocchia cittadina – come in tanti casi italiani recenti – coinvolto in reati che urtano la sensibilità e la moralità comuni oltre a essere particolarmente odiosi e gravi.

Wesołowski vanta una carriera di alto livello nella diplomazia vaticana, fa parte degli uomini legati a Karol Wojtyla che lo ordinò prima sacerdote poi arcivescovo, ha lavorato in diverse nunziature, dalla Costa Rica al Giappone, dall’India alla Svizzera, quindi ha ricoperto l’incarico di nunzio in Bolivia all’inizio degli anni duemila, è stato poi l’ambasciatore del papa in alcuni paesi caucasici quindi, nel 2008, lo ritroviamo come nunzio nella Repubblica Dominicana.

Ci resta fino all’agosto del 2013, l’estate dello scandalo. Le storie raccontate dai ragazzi coinvolti negli abusi sono pesanti, drammatiche, Wesołowski ha l’identikit di una persona malata che approfitta dei più deboli. E allora, inevitabilmente, sorgono dubbi circa il fatto che altri episodi possano essersi verificati in precedenza, sulle eventuali coperture di cui ha goduto a Roma e altrove per tanti anni, sulle possibili complicità diffuse in ambiente ecclesiale e non.

Sono tutte domande che dovranno trovare una risposta durante il processo

Francesco Peloso

Internazionale
16 07 2015

Il presidente statunitense Barack Obama visiterà oggi una delle più antiche prigioni dell’Oklahoma, l’istituto correzionale federale di El Reno: sarà il primo carcere della storia degli Stati Uniti a ricevere un presidente in carica. Nella visita Obama incontrerà detenuti e guardie carcerarie, e sarà ripreso dalle telecamere di Vice per uno speciale che andrà in onda il prossimo autunno su Hbo.

La struttura ospita mille detenuti nella sezione di media sicurezza e circa 250 nella sezione di minima sicurezza; tra guardie carcerarie e operatori ci lavorano oltre 330 persone. Tra i carcerati che sono passati per il carcere dell’Oklahoma, ci sono Timothy McVeigh (responsabile dell’attentato di Oklahoma City) e l’ex sindaco di Detroit Kwame Kilpatrick, condannato per corruzione nel 2013 a 28 anni di carcere che sta scontando proprio a El Reno.

Lunedì Obama ha commutato le pene di 46 detenuti condannati per reati di droga, motivando la decisione con la necessità di correggere le condanne troppo severe inflitte negli ultimi decenni. Il giorno dopo il presidente ha parlato della necessità di depenalizzare i reati minori, in un intervento durante la convention della National association for the advancement of colored people, la più nota associazione antirazzista afroamericana. Il suo portavoce Josh Earnest ha detto che la questione sarà approfondita durante la visita a El Reno.

Nel 2013, Obama ridusse la pena di uno spacciatore detenuto a El Reno, Jason Hernandez, inizialmente condannato all’ergastolo.

Il sistema carcerario
-Con 2,2 milioni di detenuti in tutto il paese, gli Stati Uniti hanno più detenuti di 35 paesi europei messi insieme.

-Un quarto della popolazione carceraria mondiale è concentrata nelle carceri degli Stati Uniti mentre il paese rappresenta il 5 per cento della popolazione mondiale. “Il tasso di carcerazione è quattro volte più alto di quello della Cina”, ha denunciato il presidente. La prima causa di questi numeri è la durata delle pene. Secondo Human Rights Watch, le leggi adottate a partire dal 1980 per garantire “più severità contro il crimine” hanno riempito le prigioni federali e statali di criminali in maggioranza non violenti.

Segregazione razziale
-Nelle carceri statunitensi sono detenuti quasi 71mila minorenni.

-Obama ha denunciato spesso come i neri, a parità di crimini commessi, abbiano “maggiori probabilità di essere arrestati e di esseri condannati a pene più pesanti”: neri e gli ispanici rappresentano infatti il 60 per cento della popolazione carceraria e sono il 30 per cento della popolazione degli Stati Uniti.

-Sono oggi in carcere un nero ogni 35 e un ispanico ogni 88, contro un bianco su 214. E un bambino nero su nove ha il padre in prigione, ha fatto notare il presidente statunitense.

Conseguenze
-Il sistema carcerario statunitense costa 80 miliardi di dollari all’anno, pari a un terzo del bilancio del ministero della giustizia.

-Ogni stato spende in media un miliardo di dollari l’anno per i suoi centri di detenzione, molto più di qualsiasi altra voce di bilancio ad eccezione della copertura sanitaria per i poveri.

-Questo non impedisce però che le condizioni di detenzione peggiorino: da una ricerca condotta dalla University of Columbia nelle carceri dell’Illinois è emersa la presenza di parassiti, scantinati allagati, carenza di servizi sanitari e dormitori affollati in diversi penitenziari dello stato, con persone detenute anche solo per aver guidato con la patente scaduta.

Internazionale
15 07 2015

L’accoglienza dei migranti è un business.E non solo per chi sulla pelle dei profughi fa affari illeciti. Assistere le persone che ogni giorno arrivano sulle coste italiane, ospitare nelle strutture i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale muove introiti che favoriscono innanzitutto gli enti territoriali e aumentano le entrate a livello locale. Profitti che in alcuni casi sono una vera e propria manna dal cielo, soprattutto per le zone in cui si soffre più la crisi.

Secondo gli ultimi dati forniti dal ministro dell’interno Angelino Alfano, a giugno erano 78mila i migranti ospitati nei centri italiani, tra strutture temporanee (48mila), strutture di accoglienza per richiedenti asilo (20mila) e centri governativi (10mila). Per la loro assistenza lo stato stanzia ai centri convenzionati una somma media giornaliera di circa 35 euro al giorno a migrante (in cui rientrano anche i 2,5 euro al giorno del pocket money che spetta agli ospiti per le piccole spese giornaliere).

“Quello dei 35 euro è il costo calcolato mediamente per i progetti del Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo (Sprar). Ma nel tempo si è attestato come costo medio anche per l’accoglienza straordinaria messa in pratica dalle prefetture”, spiega Daniela Di Capua, direttrice dello servizio centrale Sprar. “Il costo viene calcolato in base al progetto che l’ente titolare presenta al momento in cui partecipa al bando. Nel presentare il budget ci si adegua anche al costo della vita locale, ci sono infatti territori in cui i servizi sono assenti e devono essere attivati, mentre in altri già esistono. Di tutto questo si tiene conto nel calcolare la spesa”. Stando alle cifre dichiarate dal ministero, dunque, la spesa massima quotidiana per l’accoglienza è di 2,73 milioni di euro, circa 82 milioni al mese, oltre 980 all’anno.

I soldi restano nei comuni

“Sono soldi che non vanno assolutamente in mano ai migranti ma che rappresentano il costo del loro mantenimento”, continua Di Capua. “Se togliamo i 2,5 euro circa di pocket money, restano più di 32 euro (il 92 per cento del totale) a migrante che servono, prima di tutto, per coprire la spesa del personale: cioè per pagare gli stipendi, i contributi e i contratti degli operatori che lavorano nei centri, e che sono soprattutto giovani italiani. Una parte è spesa per l’alloggio e per il mantenimento delle strutture, che alcune volte sono di proprietà dei comuni e vengono ristrutturate e altre volte sono prese in affitto da privati della zona. Infine, una parte serve a pagare i fornitori, da quelli di generi alimentari alle farmacie fino alle cartolerie”.

L’accoglienza è vantaggiosa da diversi punti di vista, quello culturale sicuramente, ma anche quello economico

Si tratta di una spesa che sostanzialmente rimane nei comuni, spiega ancora la direttrice del servizio Sprar, non solo quelli vincitori dei bandi per l’accoglienza ma anche quelli limitrofi: “L’accoglienza è vantaggiosa da diversi punti di vista, quello culturale sicuramente, ma anche quello economico”, dice Di Capua. “Nel caso dello Sprar sono 400 circa i comuni direttamente coinvolti nei progetti, ma secondo i nostri calcoli a beneficiarne sono almeno il triplo, cioè oltre mille. Questo perché spesso gli enti territoriali fanno accordi con comuni limitrofi per gestire meglio l’accoglienza. Stiamo portando avanti un monitoraggio proprio su questo e dai primi risultati emerge che il flusso finanziario ha un impatto positivo su un territorio ampio”.

Dal cibo ai vestiti

Per la ripartizione dei fondi erogati per l’accoglienza, fa fede la convenzione che il gestore del centro stipula con la prefettura di riferimento: dentro quei 35 euro pro capite pro die ci devono rientrare l’acquisto e l’erogazione dei pasti, i servizi, il pocket money, la manutenzione delle strutture e in alcuni casi anche i progetti di integrazione.

In una convenzione standard, per esempio, viene messo nero su bianco che i pasti al giorno devono essere tre – colazione, pranzo e cena – sette giorni alla settimana. Nella scelta delle pietanze (che devono essere genuine e di qualità) si chiede di prestare attenzione a cibi “non in contrasto con i princìpi e le abitudini dei richiedenti asilo”, in particolare rispettando i vincoli religiosi. Inoltra ai migranti va fornita una carta ricaricabile da 15 euro, prodotti per l’igiene personale, vestiti, un posto letto adeguato, un servizio di lavanderia, assistenza nel caso di nuclei familiari con bambini. Infine gli ambienti devono essere puliti assicurando un “comfort igienico e ambientale”.

“Tolti i 2,5 euro di pocket money e il cibo che mangiano, ai migranti non va nient’altro”, sottolinea don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco e della fondazione Caritas in veritate, che a Fermo ospita cento rifugiati in un progetto di prima accoglienza. “Il resto viene speso sul territorio. Bisogna assicurare personale adeguato: educatori, mediatori culturali, uno psicologo e una cuoca. E questi sono posti di lavoro. Il cibo poi viene comprato sempre in zona, così come le medicine e i vestiti”.

Quando c’è stato il terremoto all’Aquila lo stato pagava per l’accoglienza ai terremotati 64 euro al giorno

“L’accoglienza è chiaramente un vantaggio, questo nessuno lo dice”, aggiunge Albanesi. “Al sud in particolare è un modo anche per sistemare le persone, il caso più eclatante è il Cara di Mineo, dove il consorzio dei comuni, titolare del progetto, era interessato non tanto alla speculazione finanziaria quanto ai 500 posti di lavoro per le persone del luogo”.

Ovviamente, spiega ancora Albanesi, sono in tanti quelli che continuano a lucrare sull’accoglienza, perché il ritorno economico è sostanzioso, soprattutto in un momento di crisi. Il presidente della Comunità di Capodarco sottolinea infine il paradosso di chi continua a parlare di costi enormi per l’accoglienza: “Quando c’è stato il terremoto all’Aquila lo stato pagava per l’accoglienza ai terremotati 64 euro al giorno. Molti erano sistemati negli alberghi della costiera adriatica, ma nessuno ha protestato. Perché oggi 35 euro ci sembrano così tanti? Solo perché queste persone sono nere?”.

Dopo l’inchiesta Mafia capitale, su tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’accoglienza si è abbattuta un’ondata di disprezzo

Ad Asti, la onlus Piam, che da anni si occupa di tratta ma anche di accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati, ha lanciato addirittura una campagna mediatica dal titolo “L’accoglienza fa bene”. “Le regioni guadagnano (l’iva), l’Inps sta meglio (con i contributi versati ai lavoratori dell’accoglienza ), noi ne beneficiamo (una buona accoglienza è più salutare per tutti, le malattie si prevengono con un tetto, qualche pasto e una buona doccia)”, si legge in uno dei suoi spot.

“Gestiamo uno Sprar con 60 persone, ma nell’ultimo anno abbiamo ampliato il numero dell’accoglienza attraverso una convenzione con la prefettura, e in totale struttura ospitiamo 140 migranti”, spiega Alberto Mossino, presidente di Piam. “Una parte dei fondi Sprar sono destinati alla comunicazione, e normalmente le organizzazioni li spendono in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Noi abbiamo pensato di lanciare questa campagna per rispondere ai tanti pugni che ci arrivano da ogni parte”, spiega.

“Dopo l’inchiesta Mafia capitale, su tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’accoglienza si è abbattuta un’ondata di disprezzo. E perciò volevamo chiarire alcune cose: innanzitutto che l’accoglienza fa bene perché ne beneficia chi lavora nei luoghi in cui essa viene messa in pratica. Un esempio? Questa mattina ho speso 500 euro in vestiti per i migranti che sono arrivati nel nostro centro, li ho comprati in un negozio qui vicino. Sempre qui compriamo gli alimenti, e quando abbiamo qualche lavoretto da fare ci rivolgiamo in zona. A Natale abbiamo speso quattromila euro per comprare delle biciclette ai migranti da un artigiano che lavora poco distante da noi. Questo va detto, bisogna chiarire che le ricadute ci sono”.

Mossino invita però anche a fare i giusti distinguo: “C’è chi lavora bene e chi specula. Purtroppo i controlli, soprattutto nei casi dell’accoglienza straordinaria sono troppo pochi. Ci sono centri riempiti all’inverosimile, dove gli standard sono totalmente inadeguati ma nessuno se ne preoccupa. C’è chi si mette in questo giro solo per speculare, perché in questo momento è un guadagno che fa gola a tanti”.

Questo articolo è stato pubblicato su Redattore Sociale.

di Eleonora Camilli, giornalista 

Internazionale
13 07 2015

Un ragazzo biondo e sorridente in maglia gialla dall’alto di un cartellone pubblicitario ci avverte che dal primo giugno l’Ikea rimane aperta fino alle 22. Il ragazzo con il dito alzato dice: “Hai un’ora in più. Dopo la cena hai un’ora in più per fare acquisti”. Un’isola gialla e blu sulla via Tuscolana nella torrida estate romana: aria condizionata e cucina nordica a basso costo. Ecco forse le polpettine con la marmellata di frutti rossi e il purè di patate non sono proprio piatti estivi, ma vuoi mettere una cena al fresco circondati da librerie Billy e da famiglie sorridenti? Tutto alla modica cifra di 6,99 euro a persona.

Quando ha aperto il primo negozio Ikea a Roma nel 2000, i romani hanno scoperto lo stile informale, spartano e politicamente corretto degli svedesi. Era possibile per tutti ristrutturare casa con pochi soldi e con un po’ di fai da te, ci si poteva permettere armadi scorrevoli, librerie componibili, camerette colorate. Il tutto avvolto in un’idea di sostenibilità e di rispetto per l’ambiente e per i lavoratori.

Ma l’11 luglio, in uno dei sabati più caldi e afosi dell’anno, nel negozio dell’Ikea di Anagnina e in altre decine in tutta Italia gli avventori hanno scoperto che i lavoratori dell’Ikea non sono poi così contenti di come vengono trattati dal loro datore di lavoro. Sono proprio gli straordinari, le domeniche e i festivi il motivo del contendere tra azienda e lavoratori.

Lavoratori dell’Ikea manifestano nel negozio di Brescia. - Lavoratori dell’Ikea manifestano nel negozio di Brescia.
“Ikea è stata presa a modello nelle aule universitarie come caso di impresa partecipativa, che coniuga il benessere dei lavoratori con il buon business”, spiega Gioia, che lavora per l’Ikea dal 2000. “Ma in questi ultimi tempi il comportamento dei dirigenti ci ha lasciato senza parole”.

Per la prima volta da quando l’Ikea ha aperto il primo negozio in Italia nel 1989, i sindacati di categoria hanno indetto l’11 luglio uno sciopero su base nazionale, dopo che l’azienda svedese ha deciso di revocare il contratto integrativo aziendale che prevedeva una serie di benefici per i suoi dipendenti rispetto al contratto nazionale del commercio e dopo il fallimento delle trattative tra sindacati e azienda avvenuto il 3 luglio.

“Una pessima Ikea”, era lo slogan della protesta. Secondo i sindacati ha aderito allo sciopero l’80 per cento dei lavoratori, che hanno organizzato presidi e picchetti davanti ai negozi. Tuttavia i negozi sono rimasti aperti e l’azienda ha negato che ci sia stata una vasta partecipazione allo sciopero.

Lavoratori protestano davanti al negozio Ikea di Roma - Lavoratori protestano davanti al negozio Ikea di Roma
“L’azienda vuole revocare il premio fisso aziendale per i suoi dipendenti, un bonus di 59,5 euro al mese, circa 700 euro all’anno, che rappresentano una risorsa per questi lavoratori che per la maggior parte hanno contratti part time. Lavorano venti o trenta ore alla settimana e ricevono uno stipendio base di 500 o 600 euro al mese”, spiega Stefano Chiaraluce, sindacalista della Filcalms Cgil. “Se non si torna al tavolo delle trattative, dal 1 settembre i lavoratori dell’Ikea vedreanno decurtato il loro stipendio attuale del venti per cento”, continua.

In Italia i dipendenti dell’Ikea sono 6.200, a Roma circa 900 persone. L’80 per cento di loro ha un contratto part time di venti o trenta ore. “Fa comodo all’azienda fare contratti di questo tipo, gli garantisce flessibilità. E a chi ha chiesto di fare più ore è stato negato di passare al tempo pieno”, spiega Chiaraluce.

La maggior parte del fatturato viene realizzato durante i fine settimana, per questo l’Ikea chiede ai lavoratori maggiore disponibilità a lavorare il sabato e la domenica. “Niente di male, ma il problema è che ora l’azienda vuole pagare di meno i festivi e le domeniche”, spiega Chiaraluce.

Secondo i sindacati, i festivi che ora vengono pagati il 130 per cento in più dei giorni feriali, verranno retribuiti come semplici domeniche, cioè il 70 per cento in più (nel caso dei negozi di Roma). Inoltre si perderanno le maggiorazioni previste per chi lavora di domenica che variano in base al negozio e alla città. “Nel mio caso potrei passare da una maggiorazione domenicale del 70 per cento a una del 30 per cento”, spiega Gioia, una dipendente del negozio di Roma. “La tendenza è quella a equiparare i festivi e le domeniche ai giorni normali”, dice.

Lavoratori manifestano davanti all’Ikea di Roma. - Lavoratori manifestano davanti all’Ikea di Roma.
L’azienda ha annunciato nel maggio del 2015 che non avrebbe rinnovato il contratto integrativo che era scaduto ad agosto del 2014, suscitando le proteste e le preoccupazioni dei lavoratori. “Secondo l’azienda il motivo dei tagli è la crisi, ma anche la necessità di risparmiare sul costo del lavoro per investire sull’apertura di nuovi punti vendita”, dice Gioia. “Ma perché l’espansione deve essere fatta rinunciando ai diritti dei lavoratori?”, chiede.

A preoccupare sindacati e lavoratori, inoltre, c’è l’adesione da parte dell’Ikea a una federazione di imprese della grande distribuzione chiamata Federdistribuzione, che non ha adottato il nuovo contratto nazionale del commercio, rinnovato nel marzo del 2015.

Allo sciopero l’azienda ha replicato in maniera molto dura e in un comunicato ha scritto: “L’intransigenza del sindacato non contribuisce a una prospettiva positiva del confronto avviato. La decisione di sospendere il dialogo e indire uno sciopero nazionale va nella direzione opposta rispetto a quella della trattativa e del confronto, cui Ikea crede da sempre, come da sempre ha manifestato la volontà di arrivare ad un accordo sul contratto integrativo”.

Il 12 luglio i dipendenti dell’Ikea torneranno a indossare le divise gialle, ma se non si trova un accordo sul contratto entro fine luglio promettono nuove proteste. Le trattative riprenderanno il 22 luglio.

“L’azienda dice di ispirarsi a criteri di equità per questi nuovi tagli, valore che fatichiamo davvero a scorgere, se perseguito con tagli lineari a danno soprattutto dei lavoratori più fragili”, afferma Giuliana Mesina segretaria nazionale della Filcams Cgil.

Il piano di Tsipras al voto del parlamento di Atene

Internazionale
10 07 2015

Il parlamento greco è riunito per votare il piano inviato ieri sera alla Commissione europea, alla Banca centrale europea e al Fondo monetario internazionale dal governo di Alexis Tsipras. Quasi certamente la proposta otterrà la maggioranza, perché dopo l’ampia vittoria dei no al referendum di domenica scorsa, Tsipras ha rafforzato la sua posizione anche sul piano interno e i partiti della minoranza gli hanno dato mandato per negoziare con le istituzioni internazionali. Paradossalmente, il primo ministro dovrà faticare di più a convincere il suo stesso partito Syriza ad accettare riforme che una settimana fa erano state giudicate inaccettabili e tacciate di “ricatto”. Comunque, le prime dichiarazioni fanno pensare che Tsipras incasserà l’approvazione del programma di riforme e il pieno mandato per negoziare con le istituzioni internazionali.

Nella tarda serata di ieri, appena un’ora e mezza prima della scadenza, la Grecia ha presentato ai creditori un piano di riforme strutturali che dovrebbero risanare i conti e fare ripartire l’economia del paese in due anni. In questo modo Atene cerca di rendersi credibile agli occhi delle istituzioni – la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale – a cui chiede nuovi aiuti per 50 miliardi.

Le riforme che il premier Alexis Tsipras promette di varare vanno incontro a gran parte delle misure di austerità chieste dai tre creditori internazionali appena prima del referendum. Il pacchetto greco prevede 300 milioni di euro in tagli alle spese per la difesa entro il 2016, un calendario serrato di privatizzazioni che coinvolgerà il porto del Pireo e gli aeroporti regionali, aumenti dell’iva tra cui quella applicata alla ristorazione, che passerà al 23 per cento, un abbattimento degli sgravi fiscali per le attività commerciali nelle isole e una diminuzione progressiva dei sussidi alle pensioni basse entro il 2019. Il paese, entro il 2022, aumenterà anche l’età pensionabile, portandola a 67 anni.

I tagli, in due anni, dovrebbero portare nelle casse dello stato 12 miliardi di euro, contro gli otto previsti nelle proposte precedenti avanzate da Atene. In cambio, la Grecia chiede un piano di aiuti di 53,3 miliardi di euro da ricevere in tre anni, una revisione degli obiettivi di surplus primario e una ristrutturazione del debito.

La proposta è ora al vaglio dei 19 leader dell’eurozona, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. E soprattutto deve incassare l’approvazione del parlamento greco.

Nel fine settimana la partita torna a giocarsi in campo europeo, con una serie serrata di vertici tecnici e politici. Sabato si riuniscono i ministri delle finanze dell’eurozona. Domenica, alle 16 è fissato l’eurosummit tra i capi di stato e di governo dei 19 paesi dell’eurozona, che alle 18 si allarga anche ai leader degli altri paesi dell’Unione europea.

Cosa ha detto Alexis Tsipras al Parlamento Europeo

Tsipras al Parlamento EuropeoInternazionale
08 07 2015

Il primo ministro greco Alexis Tsipras al parlamento europeo di Strasburgo in Francia, l’8 luglio 2015. - Vincent Kessler, Reuters/Contrasto Il primo ministro greco Alexis Tsipras al parlamento europeo di Strasburgo in Francia, l’8 luglio 2015.

Rispetto per il popolo greco. “La scelta coraggiosa del popolo greco non è una scelta di rottura con l’Europa, è la scelta di tornare a valori comuni come democrazia, solidarietà, rispetto reciproco e uguaglianza. Il messaggio uscito dal referendum è chiarissimo: l’Europa, la nostra struttura comune, o sarà democratica o avrà serie difficoltà a sopravvivere in queste circostanze difficili. Occorre rispetto per la scelta del nostro popolo”.

Le responsabilità. “Dobbiamo renderci conto che la responsabilità fondamentale del vicolo cieco in cui ci troviamo non riguarda gli ultimi cinque mesi del mio governo, ma i programmi di salvataggio che sono in vigore da cinque anni e mezzo”. “Non sono tra quei politici che danno la colpa dei problemi agli stranieri: per tantissimi anni i governi greci hanno creato uno stato clientelare, hanno alimentato la corruzione tra politica e imprenditoria e arricchito solo una fetta di popolazione. Il 10 per cento dei greci detiene il 56 per cento della ricchezza del paese; e questa enorme disuguaglianza unita ai programmi di austerità, invece di correggere, ha appesantito la crisi”.

Laboratorio fallito. “La Grecia e il popolo greco hanno fatto un sforzo senza precedenti per il cambiamento. In molti paesi europei sono stati applicati programmi di austerità, ma da nessuna parte così duri e per così tanto tempo. La mia patria si è trasformata in un laboratorio di austerità. Ma l’esperimento non ha avuto successo. Rivendichiamo un accordo con i nostri alleati che ci porti direttamente fuori della crisi, che faccia vedere la luce alla fine del tunnel”.

I soldi europei solo alle banche. “I fondi che sono stati stanziati non sono mai arrivati al popolo greco. Sono stati stanziati per salvare le banche greche ed europee ma non sono mai arrivati al popolo greco”.

Oggi la proposta greca all’Esm. “La lotta alla disoccupazione è il primo obiettivo della sua proposta”. “La nostra proposta comprende la richiesta di un impegno immediato a lanciare un dibattito di merito sulla sostenibilità del debito pubblico, non ci possono essere tabù tra di noi per trovare le soluzioni necessarie”. “Oggi invieremo la nostra richiesta al Fondo salvastati europeo (Esm)”. “La proposta del governo greco per la ristrutturazione del debito non ha l’obiettivo di gravare ancora di più sui contribuenti europei”.

Fiducioso. “L’Europa si trova a un incrocio importante”. “È un problema europeo e non solamente greco, e per un problema europeo serve una soluzione europea. Ma la nostra è una storia di convergenze e non di divergenze, una storia di unioni e non di divisioni. Per questo parliamo di Europa unita e non divisa. Serve un compromesso condiviso in modo da evitare una frattura storica”. “Sono certo che ci assumeremo la nostra responsabilità storica e sono fiducioso che entro due, tre giorni riusciremo a rispettare gli obblighi nell’interesse della Grecia e anche dell’eurozona”.


Il mondo tra due punti interrogativi

Internazionale
01 07 2015

La crisi greca inquieta profondamente Stati Uniti e Cina, che non nascondono la loro apprensione. Questo perché la crisi è potenzialmente mondiale. Un nuovo momento di difficoltà dell’eurozona intaccherebbe infatti la coesione degli europei e di conseguenza il progetto comunitario, già messo a dura prova dalla questione dei migranti, dall’ascesa dell’euroscetticismo e dalle pretese britanniche.

Sfortunatamente la crisi greca non è nemmeno l’unico punto di domanda che incombe sulla scena internazionale. In teoria, il negoziato sul nucleare iraniano avrebbe dovuto concludersi oggi.

Invece la trattativa si prolungherà – di pochi giorni o per diverse settimane, ancora non lo sappiamo – e al momento non è sicuro che si arriverà a un compromesso. In linea di principio è assodato che le grandi potenze sono disposte a cancellare le sanzioni economiche contro l’Iran, che dal canto suo accetterà di ridurre la portata del suo programma nucleare al punto da non poter fabbricare la bomba in meno di un anno.

Questo scambio permetterebbe alla Repubblica islamica di rimettere in sesto la sua economia, mentre le grandi potenze avrebbero dodici mesi di tempo per reagire se la teocrazia iraniana decidesse di riprendere la sua marcia verso la bomba. Su questo sono tutti d’accordo, ma non esiste un’intesa sulla durata del compromesso, sui mezzi per verificarlo e, soprattutt,o sul ritmo della cancellazione delle sanzioni.

Gli iraniani esigono che le sanzioni cessino al momento della firma di un accordo, mentre le grandi potenze vorrebbero una cancellazione progressiva e automaticamente reversibile in caso di dubbi sulla buona fede di Teheran.

In questo momento ogni virgola è oggetto di discussioni interminabili, ulteriormente rallentate dal fatto che, nonostante la disponibilità alla firma degli americani, i russi sono sospettosi e la Francia lo è ancora di più, mentre il regime iraniano è talmente diviso che i negoziatori devono costantemente tenere d’occhio le reazioni nella loro capitale.

Le similitudini con la crisi greca sono evidenti, ma davvero il negoziato iraniano è complicato quanto quello greco? A priori sembra una questione più semplice, perché la cancellazione delle sanzioni è vitale per la Repubblica islamica e perché gli Stati Uniti hanno un bisogno enorme del compromesso, senza il quale sarebbero costretti a bombardare le strutture nucleari iraniane perdendo il fondamentale appoggio di Teheran nella lotta agli estremisti dello Stato islamico e nella stabilizzazione dell’Iraq all’interno delle frontiere attuali.

Da un punto di vista razionale tutto lascia pensare che arriveremo a un accordo nella prossima settimana. Il problema è che la politica non è solo razionalità, come dimostra la crisi greca.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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