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INTERNAZIONALE

Il ritorno di Mare nostrum

Internazionale
03 06 2015

Alla fine dello scorso anno i governi dell’Unione europea, essendosi rifiutati di condividere i costi dell’operazione Mare nostrum con cui la marina italiana aveva tratto in salvo decine di migliaia di rifugiati nel Mediterraneo, l’hanno sostituita con un programma di portata molto minore chiamato Triton. Il suo scopo (anche se non è esattamente così che l’hanno presentato) era di non salvare i rifugiati, perché questi poi si sarebbero riversati nell’Unione europea.

Triton sarebbe stata un’operazione di “sorveglianza costiera”, con un terzo del budget di Mare nostrum e con l’ordine di pattugliare unicamente le acque territoriali maltesi e italiane. Era permesso salvare i rifugiati che fossero riusciti ad arrivare fino a quel punto, ma non effettuare operazioni di “ricerca e soccorso” a largo delle coste libiche, ovvero dove affonda la maggioranza dei barconi.

Inevitabilmente, nei primi mesi di quest’anno le vittime sono state trenta volte superiori rispetto allo stesso periodo dello scorso anno: almeno 1.750. Queste morti hanno destato uno scalpore tale che, in un incontro d’emergenza ad aprile, l’Unione europea ha portato il budget di Triton al livello di quello di Mare nostrum. Ma l’obiettivo non è cambiato. Le operazioni erano ancora limitate alle acque territoriali europee.

Poi però è successo qualcosa di strano. Nell’ultimo fine settimana le navi delle marine italiana, britannica, tedesca e irlandese hanno salvato più di quattromila persone in due giorni, la maggior parte delle quali appena a largo delle coste libiche. Bruxelles non ha condannato l’operazione. Ma non è stata una sua iniziativa: i marinai si sono semplicemente rifiutati di starsene con le mani in mano a guardare annegare delle persone.

I politici europei sono sottoposti alla pressione dei loro elettorati, che chiedono di arginare il flusso di “migranti” (termine che viene preferito a “rifugiati”, poiché suscita meno simpatia) nel Mediterraneo. Lo scorso anno 170mila persone lo hanno attraversato e quest’anno il numero potrebbe essere doppio, a meno che molti di loro non anneghino. Ma gli elettori (o perlomeno molti di loro) non ne vogliono sapere, e la maggior parte dei politici non brilla certo per coraggio.

I politici hanno fatto quello che gli elettori volevano. In una certa misura devono aver capito le conseguenze di un’interruzione delle operazioni di ricerca e soccorso, ma sono riusciti a mentire a loro stessi. Prima di tutto hanno detto che tutte queste operazioni di salvataggio stavano solo incoraggiando un maggior numero di persone a tentare la traversata. Come a dire, smettiamo di salvarli e non verranno più.

Ma questo è ridicolo: si tratta di persone disperate, che hanno già affrontato molti e gravi rischi per arrivare in Libia. Hanno continuato ad arrivare, e l’agghiacciante numero di vittime di questa primavera ha suscitato tanto scalpore che i politici sono stati costretti a fare qualcosa. Ma ovviamente non qualcosa che potesse avere come risultato l’arrivo di più persone in Europa. Per questo hanno dato più fondi all’operazione Triton, ma senza dargli l’obiettivo di salvare i naufraghi.

Al contrario, hanno elaborato l’assurda idea di salvare i rifugiati dall’annegamento distruggendo le navi dei trafficanti di esseri umani sulle coste libiche prima che queste prendano il mare. Hanno detto che eravamo di fronte a una nuova tratta degli schiavi e che così facendo avrebbero salvato i rifugiati. Naturalmente, in realtà gli europei non hanno distrutto nessuna imbarcazione, perché sarebbe un atto di guerra contro la Libia. Ma non avevano fatto i conti con le loro marine militari, che sulla questione hanno una prospettiva molto diversa. I marinai non devono preoccuparsi degli elettori e, in generale, non amano molto i politici, però di sicuro conoscono il mare. E una delle più antiche tradizioni del mare è che non si lasciano affogare le persone.

Chiunque abbia passato un po’ di tempo in mare sa che si tratta di un ambiente intrinsecamente ostile. Soli e senza mezzi in mare non si sopravvive più di qualche minuto o, se si è davvero fortunati e in salute, un’ora o due. Per questo quando vedi qualcuno in mare, fai tutto il possibile per salvarlo: perché la prossima volta potrebbe capitare a te.

Una volta, quando ero in marina, arrivammo per primi sul luogo di una collisione in cui una petroliera era esplosa. Le possibilità che ci fossero dei sopravvissuti era bassa, poiché il petrolio era fuoriuscito e le fiamme avvolgevano il relitto. Eppure abbiamo continuato a cercarli fino al giorno successivo. Nessuno ha avuto niente da ridire. In tempo di pace, per una marina non c’è una priorità più grande.

Non ero sulle navi coinvolte nell’operazione Triton e non ho potuto sentire cosa dicevano i loro marinai, ma sono certo che fossero indignati per gli ordini ricevuti. Per questo motivo si sono spinti gradualmente fuori dai limiti territoriali stabiliti, fino alle zone in cui le persone stavano effettivamente morendo. E nessun politico ha avuto il coraggio di dire loro di tornare indietro, rischiando di passare per un mostro.

In seguito questa è diventata la nuova politica di fatto dell’Unione europea: ovvero quella di Mare nostrum prima che i governi europei decidessero di immischiarsi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Tutti i limiti del renzismo

Internazionale 
01 06 2015

Qualunque analisi di queste elezioni – anche quando si sapranno bene le percentuali delle singole liste – potrà solo confermare che sono andate male. Il dato di affluenza bassissima, combinato alla questione delle candidature “impresentabili” come unica discussione politica, segna un clamoroso disinteresse per la cosa pubblica, un fenomeno di cui Matteo Renzi, il sindaco a palazzo Chigi, dovrebbe farsi carico.

E con lui dovrebbero farsene carico tutti coloro che hanno ridotto il governo a un laboratorio di larghe intese, facendo sì che la classe politica sia recepita interamente come ostile o aliena – il 20 per cento nazionale del Movimento 5 stelle e il 20 per cento della Lega in Toscana sono i dati più rilevanti.

Ma è la retorica politica renziana, fatta di #rottamazione, #lavoltabuona e #cambiaverso, ad avere la responsabilità più grande di aver contribuito a produrre – nell’ordine – l’aumento dell’astensionismo, la resurrezione del centrodestra, la spaccatura del Pd.

Come facevano notare qualche settimana fa Alessandro Leogrande e Claudio Cerasa, la vera difficoltà di Renzi non è quella di tenere a bada la minoranza riottosa, ma l’incapacità di governare i potentati locali: il partito della nazione, una compagine che sembra forte al centro ma debole in periferia, si rivela un partito d’opinione a voler essere buoni, un agglomerato di volti televisivi (come la sconfittissima Alessandra Moretti), in definitiva un non partito.

E questa impressione è testimoniata dal fatto di ritrovarsi politici di livello mediocre come Raffaella Paita e la stessa Moretti a perdere contro un centrodestra vigoroso in due regioni come la Liguria e il Veneto, segnate – per esempio – da tematiche ambientali che nel Pd nessuno mette più in agenda; oppure a dover sostenere fino all’ultimo Vincenzo De Luca, contro un dissenso civile diffuso, la mannaia della legge Severino e le liste dell’antimafia; oppure a rischiare la sconfitta in una regione rossa come l’Umbria, un tempo modello del buon governo e delle relazioni felici con il territorio.

Emergono insomma da questa tornata elettorale i limiti di un’azione di governo, quella di Renzi, legittimata finora solo dal voto alle europee.

L’immagine che si ricava è che l’ex sindaco di Firenze sia riuscito sì a prendersi un partito debole, a suo stesso dire “scalabile”, ma d’altra parte non sia stato capace né di nutrire un nuovo spirito di partecipazione politica (intercettando almeno un refolo di quel desiderio di trasformazione, di radicalità, di politica dal basso che soffia nel resto dell’Europa) né di formare una nuova classe dirigente: vecchi feudatari (come De Luca o lo stesso Michele Emiliano) si accompagnavano nelle liste a personaggi da talk-show, davvero miseri dal punto di vista della preparazione politica.

Le primarie, anche perché incapaci di aprire alla sinistra più radicale, hanno fatto emergere la forza le clientele, che del resto, a loro volta, probabilmente hanno considerato il Pd scalabile in periferia. Non è tanto una questione di “presentabilità” dunque quanto di fiducia in un partito che sia l’espressione di un’idea di società che segni una trasformazione; e il Pd non lo è.

La rottamazione si è rivelata – proprio come per le pubblicità delle concessionarie – un incentivo promozionale a breve durata.

di Cristian Raimo

 

 

Il movimento del ventunesimo secolo

Internazionale
29 05 2015

Nei mesi passati molti hanno usato la parola “schiavismo” parlando dei migranti che cercano di raggiungere le coste europee. Riferendosi alle persone che trasportano i migranti sulle barche, Matteo Renzi ha scritto: “I trafficanti di esseri umani sono gli schiavisti del ventunesimo secolo”.

Ma è falso, dicono in una lettera uscita su OpenDemocracy – e pubblicata questa settimana anche su Internazionale – 310 studiosi di migrazioni e schiavismo che lavorano nelle università di mezzo mondo: gli schiavi africani non volevano lasciare la loro terra, mentre le persone che oggi si imbarcano per l’Europa vogliono andar via, e se potessero entrare liberamente prenderebbero voli low cost, decisamente più economici e sicuri delle traversate in mare.

Parlare di schiavisti serve solo a legittimare l’uso della forza e le azioni militari. I 310 studiosi, a cui se ne stanno aggiungendo altri, chiedono ai leader politici europei di non usare più l’analogia della tratta degli schiavi e di mettere invece in pratica il diritto alla libertà di movimento rivendicato nelle battaglie contro lo schiavismo dagli attivisti afroamericani dell’ottocento.

L’importanza che con il passare del tempo sta assumendo il dibattito sulle migrazioni è stata sintetizzata bene da Angela Davis, attivista del movimento afroamericano e da sempre militante di sinistra.

Incontrando un gruppo di rifugiati a Berlino, ha detto: “Il movimento dei migranti è il movimento del ventunesimo secolo, è il movimento che sta sfidando gli effetti del capitalismo globale, è il movimento che reclama i diritti civili per tutti gli esseri umani”.

Giovanni De Mauro

Donne contro i jihadisti

Internazionale
26 04 2015

Le forze armate curde combattono contro il gruppo Stato islamico fin da quando i jihadisti hanno conquistato ampie parti di territorio in Iraq e in Siria.

In prima linea ci sono i militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che dal 1984 hanno preso le armi per ritagliarsi una patria indipendente in Turchia. Ma la battaglia contro lo Stato islamico ha attirato al fronte molte donne. Molte di loro – provenienti da tutti gli angoli della regione curda, che si estende tra Siria, Turchia, Iran e Iraq – hanno tagliato i legami con le loro famiglie.

La fotografa della Reuters Asmaa Waguih è stata a marzo del 2015 sul monte Sinjar, in Iraq, per documentare la vita delle milizie femminili del Pkk.

L’area di Sinjar è stata teatro lo scorso anno di una violenta offensiva dello Stato islamico, durante la quale centinaia di persone appartenenti alla minoranza irachena yazidi sono state uccise e migliaia catturate e violentate.

In Italia abortire è ancora un diritto a metà

Internazionale
22 05 2015

Nel 2014, negli Stati Uniti, 15 stati hanno emanato 26 nuove restrizioni alle leggi sull’interruzione di gravidanza. Si è calcolato che oltre la metà della popolazione femminile statunitense in età riproduttiva viva in stati che sono ostili o estremamente ostili al diritto d’aborto.

In Europa, a dicembre del 2013, il parlamento europeo ha bocciato la risoluzione Estrela, con cui si chiedeva un impegno concreto degli stati per il diritto all’aborto sicuro e legale ovunque nell’Unione. La risoluzione è stata respinta per soli sette voti. È stata decisiva l’astensione di sei deputati italiani del Partito Democratico: Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, David Sassoli e Patrizia Toia.

In Italia, a Roma, il 17 novembre 2014, all’ingresso del “repartino” del policlinico Umberto I, in cui si effettuano le interruzioni di gravidanza, è stato affisso un foglio di carta: “Le prenotazioni sono temporaneamente sospese”. Il motivo della comunicazione era tanto semplice quanto emblematico: l’unico medico disposto a praticare gli aborti era andato in pensione, tutti gli altri ginecologi della struttura erano obiettori di coscienza.

Questo è il presente di un diritto: la sua negazione.

L’aborto non è una questione privata

Giugno 1973: a Padova, una donna, Gigliola Pierobon, subisce un processo con l’accusa di procurato aborto.
Nel 1973 in Italia erano ancora in vigore le norme del codice penale fascista del 1930, il codice Rocco, che definiva l’aborto reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Pena prevista: da uno a cinque anni di reclusione per le donne che si procuravano da sole l’aborto; da due a cinque anni per quelle che si sottoponevano all’interruzione e a chi la praticava, con una possibile riduzione della pena solo “se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”.

Gigliola Pierobon aveva abortito nel 1967, quando aveva 17 anni. Stesa su un tavolo da cucina, senza sedativi, le era stato introdotto un lungo ago di ferro nella vagina. L’operazione le aveva causato un’infezione, curata da sola, in silenzio.

Ma la Gigliola del 1967 non è la Gigliola del 1973, in quegli anni si è avvicinata al femminismo, non è più sola come sei anni prima, su quel tavolo. Appena riceve la notifica del rinvio a giudizio ne parla con le compagne.

Il processo Pierobon diventa un fatto politico, un fatto pubblico. Le femministe scendono in piazza con una grande manifestazione, invadono il tribunale e si autodenunciano.

Il 6 dicembre 1975 più di ventimila donne sfilano a Roma in favore dell’aborto “libero, gratuito e assistito”.

Una parte del movimento femminista sostiene che sia importante intervenire sulla materia attraverso una legge, altre ritengono che l’unica strada verso l’autodeterminazione sia quella della cancellazione del reato di aborto. Il legislatore riesce a scontentare entrambe, approvando, il 22 maggio 1978, la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

Ventidue articoli, stringati, chiari, un testo di legge che possiamo capire tutti, leggendolo. Il suo intento è esplicito, già dal titolo: la legge 194 è, in prima istanza, una legge sulla salvaguardia della maternità, la disciplina dell’aborto arriva solo in seconda battuta. Molte femministe la definiscono una legge truffa, perché nega il diritto della donna di scegliere per se stessa.

Al contempo la legge scatena le ansie moralistiche e apocalittiche della società conservatrice e del mondo cattolico. Contraddizioni che si riflettono da subito e con chiarezza nella pratica, diventando ostacoli: obiezione; obbligo di indagare sui motivi che spingono ad abortire; nessun provvedimento nei confronti dei medici che si rifiutano di rilasciare il certificato di richiesta di interruzione della gravidanza.

Ostacoli che non bastano a chi non vuole una legge che renda l’aborto legale e pubblico. Nel 1981 si andrà al voto per il referendum abrogativo. La vittoria dei no all’abrogazione della legge sarà schiacciante.

Basta un poco di zucchero

Uno degli articoli della 194 prevede che ogni anno il ministero della salute presenti una relazione sull’attuazione della legge. Andamento del fenomeno, caratteristiche delle donne che fanno ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (ivg), modalità di svolgimento e perfino un monitoraggio ad hoc su ivg e obiezione di coscienza.

A leggere le parole della ministra Lorenzin, nella relazione presentata il 15 ottobre del 2014, parrebbe che l’Italia offra il migliore degli aborti possibili.

Innanzitutto si sottolinea più e più volte la riduzione del numero di ivg, che ha subìto un decremento del 4,2 per cento rispetto al 2012. Un risultato che il ministero ritiene molto positivo e che lega direttamente all’efficacia della prevenzione: “La riduzione dei tassi di abortività osservata recentemente anche tra le donne immigrate sembra indicare che tutti gli sforzi fatti in questi anni, specie dai consultori familiari, per aiutare a prevenire le gravidanze indesiderate e il ricorso all’ivg stiano dando i loro frutti anche nella popolazione immigrata”. Analisi che si perdono nel vuoto degli eternamente inattesi impegni dei nostri governi sul fronte dell’educazione sessuale e della promozione dei metodi contraccettivi.

E poco importa se il numero degli aborti clandestini è enorme ed è quantificato – ottimisticamente, poiché non ci sono dati certi, con una ricognizione ferma al 2005 – tra i 12mila e i 15mila casi per le italiane e tra i tremila e i cinquemila per le straniere. Indagare su un fenomeno che tutte le analisi reputano in crescita e che è cambiato enormemente grazie alla possibilità di ricorrere ai farmaci, anche acquistandoli online, sarebbe quantomeno doveroso.

“Sono in diminuzione i tempi di attesa tra rilascio della certificazione e intervento (possibile indicatore di efficienza dei servizi). La percentuale di ivg effettuate entro 14 giorni dal rilascio del documento è infatti aumentata rispetto a quella riscontrata nel 2011 ed è leggermente diminuita la percentuale di ivg effettuate oltre tre settimane di attesa, persistendo comunque una non trascurabile variabilità tra regioni”.

Il verbo diminuire e il segno percentuale sono lo zucchero a velo su un pandoro scaduto, in numeri significa che ben sedici donne su cento sono costrette ad aspettare più di tre settimane dal rilascio del certificato per effettuare l’interruzione di gravidanza, interruzione che è consentita entro i novanta giorni. Anche l’intervallo di 14 giorni diventa un tempo enorme, da questa prospettiva.

Nella relazione, la prima che riporta i dati di un monitoraggio sulle attività di ivg e obiezione di coscienza voluto da un tavolo tecnico attivato presso il ministero della salute a giugno del 2013, si arriva ad affermare che “il numero di non obiettori è congruo rispetto alle ivg effettuate, e il numero degli obiettori di coscienza non impedisce ai non obiettori di svolgere anche altre attività oltre le ivg”.

I dati dicono che “considerando 44 settimane lavorative in un anno, il numero di ivg per ogni ginecologo non obiettore, settimanalmente, va dalle 0,4 della Valle D’Aosta alle 4,2 del Lazio, con una media nazionale di 1,4 ivg a settimana”.

Un caso di inversione dell’onere della prova: si va a vedere quanto lavorano i non obiettori e si dice che va bene così. Il fatto che ci sia una percentuale altissima di medici obiettori non ostacola il servizio e non impedisce ai non obiettori di svolgere anche altre mansioni.

Dei numeri si possono fare letture mistificanti tanto quanto delle parole. In Italia il tasso di obiezione è del 69,6 per cento per i ginecologi, del 47,5 per cento per gli anestesisti e del 45 per cento per il personale medico. Sono percentuali altissime, inammissibili. È come se il 70 per cento degli edicolanti non vendesse quotidiani.

Percentuale di ginecologi che praticano l’obiezione di coscienza in Italia. Fonte: ministero della salute, 2013

Un ottimismo fuori luogo, una distorsione che contrasta con le testimonianze dei non obiettori e con le esperienze delle donne che hanno abortito. Gli alti tassi di obiezione – quello del Molise arriva al 90,3 per cento – legittimano il riferimento all’obiezione di struttura ossia la negazione del servizio, vietata dalla 194, e rendono di fatto la legge sempre più spesso inapplicabile.

Una situazione critica, quella italiana, sanzionata nel 2014 anche dal comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, che ha riconosciuto che a causa delle elevatissime percentuali di obiezione di coscienza l’Italia viola il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire.

Quella in cui viviamo è un’epoca reazionaria, ancor più che conservatrice. “Le politiche dell’utero, come la censura o la restrizione della libertà di manifestazione, sono un buon indicatore delle derive nazionaliste e totalitarie”, ha scritto Paul Preciado in un articolo su Libération (qui una mia traduzione).

I gruppi e i collettivi femministi sono stati e continuano a essere un argine resistente all’erosione del diritto di scelta, hanno condotto battaglie dure, allegre, colorate, fantasiose, radicali, fondamentali per un aborto libero e sicuro, per la salute sessuale, per i consultori laici e accessibili, per l’abolizione dell’obiezione alla legge 194.

Perché sì, la legge 194 è migliorabile. Ma dalla 194 non si può tornare indietro.

Valentina Greco

Dove si commettono più reati ambientali in Italia

Internazionale
21 05 2015

Nel 2013 i reati ambientali in Italia sono scesi del 14,2 per cento rispetto all’anno precedente. Il calo è dovuto soprattutto alla diminuzione degli incendi boschivi, passati da 8.304 a 3.042, secondo l’ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente.

Il rapporto è realizzato in collaborazione con le forze dell’ordine (carabinieri, corpo forestale dello stato e delle regioni a statuto speciale, capitanerie di porto, guardia di finanza, polizia, direzione investigativa antimafia), con l’istituto di ricerche Cresme (per quanto riguarda l’abusivismo edilizio), magistrati impegnati nella lotta alla criminalità ambientale e avvocati dei centri di azione giuridica di Legambiente.

Con l’introduzione nel codice penale di nuovi reati legati all’inquinamento, prevista dalla legge approvata il 19 maggio dal parlamento italiano, il dato relativo al 2014 potrebbe aumentare.

Le regioni del sud sono quelle dove sono stati commessi più reati ambientali: Campania (16,1 per cento), seguita da Sicilia, Puglia e Calabria. Al primo posto al nord c’è la Lombardia, con il 4,3 per cento delle infrazioni accertate. Le province più coinvolte sono quelle di Napoli, Roma e Salerno.

Tra le tipologie di reato più frequenti ci sono quelle che riguardano il ciclo alimentare (nei settori della ristorazione, delle carni e dell’allevamento, di produzione delle farine, pane, paste e prodotti ittici), i delitti contro gli animali e la fauna selvatica e il ciclo dei rifiuti, che ha avuto un aumento del 14 per cento rispetto al 2012.

Internazionale
19 04 2015

In Macedonia circa 150 persone hanno risposto all’appello del leader dell’opposizione Zoran Zaev che ha chiesto di occupare la piazza davanti al parlamento di Skopje fino a quando il primo ministro conservatore Nikola Gruevski non consegnerà le sue dimissioni. Gruevski è accusato di aver cercato di organizzare brogli elettorali e di coprire la morte di un ragazzo di 22 anni. Ieri migliaia di persone sono scese in strada per chiedere nuove elezioni.

Anche cinquanta sostenitori del premier si sono accampati con alcune tende a circa due chilometri dai contestatori per confermare il loro sostegno al governo. Askanews

Guerra mondiale all'istruzione

Internazionale
14 05 2015

Il 30 aprile un tribunale pachistano ha condannato dieci terroristi coinvolti nell’attentato del 2012 contro Malala Yousafzai, allora quindicenne. Il caso di Yousafzai o la strage nella scuola pubblica di Peshawar nel dicembre 2014 o le imprese del gruppo Boko haram in Nigeria hanno avuto grande eco nell’informazione e si lasciano facilmente inquadrare nel diffuso stereotipo antislamico. Ma la cosa è più complicata. Dall’islam stesso, anche da gruppi fondamentalisti, arrivano condanne e sconfessioni. E soprattutto si osserva che le aggressioni terroristiche ad alunni e alunne, insegnanti, edifici scolastici, non rare dagli anni settanta del novecento, si sono ormai diffuse e intensificate in molte parti del mondo.

Nel 2014 un rapporto del National consortium for the study of terrorism ha elencato 110 paesi in cui tra il 1970 e il 2013 ci sono stati 3.400 attacchi a scuole. I numeri di alcuni paesi, dalla Colombia alla Russia, sono impressionanti. Il fenomeno è globale. Censirlo e capirlo è dal 2010 la missione della Global coalition to protect education from attack (Gcpea). È giusto individuare le differenti cause prossime che armano la mano di terroristi, dai narcotrafficanti alle minoranze oppresse o ai fondamentalisti.

Ma una causa prima e comune forse c’è. L’istruzione dà comunque strumenti di libertà, incrina equilibri tradizionali. Proprio questo la rende invisa a chi campa su diseguaglianze, servitù, ignoranza. E forse non si tratta solo dei terroristi.

Tullio De Mauro

Internazionale
13 05 2015

E così qualche giorno fa a Roma hanno sgomberato Scup. Ossia un palazzo a via Nola, tra San Giovanni e Pigneto, che era stato occupato tre anni fa e riqualificato, fino a diventare uno spazio multifunzionale (cucina, biblioteca, palestra popolare, cinema, ludoteca, anche luogo di incontro per l’associazionismo). A dire la verità, Scup non è stato solo sgomberato: sono arrivate le ruspe alle 6 del mattino e hanno distrutto quello c’era, raso al suolo le mura.

Nonostante la violenza dell’azione di sgombero, c’è da dire che per molti versi non è stata una sorpresa. Sono almeno un paio d’anni che la questione degli spazi pubblici a Roma viene considerata un mero problema di ordine pubblico. Per esempio a febbraio scorso le ordinanze e i sigilli erano toccati al Rialto, e nel 2014 all’Angelo Mai, al Valle, al cinema America. Certo, ognuno di questi spazi ha una storia a sé (in alcuni casi ci sono delle trattative in corso, in altri il posto è stato riassegnato), ma che ci sia una tendenza a considerare la questione solo dal punto di vista dell’ordine pubblico è chiaro anche dalla notizia di un altro sgombero, quello di un insediamento di migranti, tra cui vari rifugiati eritrei, a Ponte Mammolo.

A essere costante è anche l’imbarazzo dell’amministrazione comunale, o almeno di parte di essa. Ogni volta il vicesindaco Luigi Nieri (Sel) rilascia sconfortate dichiarazioni del tipo: “Non voglio entrare nel merito delle decisioni della magistratura, ma queste realtà vanno difese”. Il che lo fa sembrare più un simpatizzante o addirittura un attivista che un uomo di governo. E lascia capire, quanto meno, che questa ondata di sgomberi sia l’espressione di una tensione tra poteri, in cui la giunta comunale di Ignazio Marino o è connivente o è imbelle.

Gli occupanti di Scup, mentre le ruspe ancora erano in azione, hanno trovato un altro luogo abbandonato, un vecchio deposito molto malmesso a via della Stazione Tuscolana, e da una settimana sono all’opera per ricostruire, con molta fatica, l’esperienza di Scup. Tre giorni fa sono stato a un’assemblea molto partecipata (duecento persone) in cui ci si chiedeva come riorganizzarsi, controllare che non ci siano strutture pericolanti, rimuovere i calcinacci, eliminare la polvere, programmare attività.

Quando si ha a che fare con le occupazioni ci si accorge che mostrano sia un’esigenza sia una proposta e che le amministrazioni non sono in grado di capire.

In un’intervista che feci qualche mese fa all’assessora alla cultura Giovanna Marinelli a proposito della disastrosa – non per colpa sua – situazione dei teatri a Roma (sì, agli sgomberi vanno aggiunte le chiusure del Palladium e dell’Eliseo, per dire, il taglio dei fondi al festival RomaEuropa, il collasso di molti piccoli teatri), lei distingueva giustamente le diverse situazioni e poi difendeva una politica capace di far interagire il pubblico e il privato, a seconda dei casi (“Il teatro del Lido a Ostia l’abbiamo pensato con una gestione diversa da quella del Quarticciolo”).

Ma su una questione sembrava impreparata: l’idea che la gestione del teatro Valle si potesse trasformare in una fondazione dei beni comuni, ossia in quel progetto politico-amministrativo che era nato e cresciuto nei tre anni di occupazione del teatro. “Mi sembrano immaturi”, disse, e più che un’affermazione ingenerosa e liquidatoria, mi parve riflettere un pregiudizio culturale e un deficit politico.

Quello che non viene riconosciuto da amministratori pur abili come Marinelli è che né il pubblico né il privato intercettano alcuni bisogni della città sempre più pressanti, né riescono a valorizzare una vitalità artistica e immaginativa.

Parliamo ancora di teatri. Non c’è bisogno di ricordare come dal Rialto, per esempio, o dal Valle, o dal Kollatino Underground, siano venute fuori tra le compagnie più interessanti della scena romana degli ultimi dieci anni, e come di fatto uno spazio occupato come il Nuovo Cinema Palazzo sia uno dei pochi posti dove poter vedere spettacoli interessanti oggi.

E che se è vero che per fortuna ci sono direttori capaci di gestire spazi pubblici (Antonio Calbi al Teatro di Roma) o spazi privati (Fabio Morgan al Teatro dell’Orologio), la maggior parte dei teatri a Roma è in mano a dei locatari, a gente che affitta la sala e guadagna in questo modo, senza nessuna progettualità artistica, spesso senza nemmeno sensibilità teatrale: cercando di far cassa sull’economia dell’offerta, invece di provare a far crescere la domanda.

Per questo negli ultimi anni, gli attori, i registi, gli scenografi, i tecnici hanno cominciato a occupare. Non in nome di una libertà artistica, come poteva essere nelle cantine degli anni settanta, ma semplicemente per poter fare teatro, per incontrare un pubblico. Con una concezione delle politiche culturali che, anche nei casi in cui è spontanea, mostra un che di rivoluzionario.

Questa rivoluzione è quella descritta in un libro importante uscito qualche settimana fa per Derive Approdi, Del comune, o della rivoluzione nel XX secolo di Pierre Dardot e Christian Laval: ed è la sfida di rivendicare un diritto d’uso che vada a sostituire il diritto di proprietà.

Facciamo un esempio: il processo costituente avviato durante l’occupazione del Valle – la scrittura dello statuto della fondazione – andava proprio in questa direzione. Tentare di fare tesoro del fatto che decine di migliaia di persone sono entrate nel teatro non solo per vedere gli spettacoli, ma per partecipare ad assemblee, per tenere puliti gli spazi, per dare e ricevere formazione, per progettare spettacoli.

Quello che non è stato compreso in quel caso è che gli occupanti, e anche i semplici utenti, non erano semplicemente contro la privatizzazione o per il recupero del teatro alla gestione pubblica, ma ambivano a governare direttamente quel luogo. In nome del fatto che lo “usavano” (il che vuol dire anche lo custodivano, lo volevano trasformare, l’avevano imparato a vivere veramente come loro), volevano ripensare delle regole che fossero adatte al reale uso che le persone richiedevano. Biglietti accessibili, per esempio, aperture lunghe, gestione partecipata, ampliamento delle funzioni.

I critici delle esperienze di occupazione, che sia quella del Valle o quella di Scup, le stigmatizzano accusandole di essere delle privatizzazioni di fatto, che operano nell’illegalità. Questi critici non notano che queste esperienze incarnano delle forme di cittadinanza molto matura, studiata e presa a modello da studiosi dei beni comuni come Elinor Ostrom, che Dardot e Laval citano spesso per sottolineare soprattutto “le pratiche del comune”, piuttosto che i beni comuni. Non si tratta di appropriarsi di qualcosa, ma di renderlo utilizzabile, e vivo.

All’interno della società esistono delle modalità collettive di accordarsi e di creare regole di cooperazione non riconducibili al mercato e allo stato. E questo può essere empiricamente dimostrato in quei numerosi casi in cui dei gruppi hanno fatto a meno della coercizione statale o della proprietà privata.

Il punto è questo: che fare della qualità dell’organizzazione espressa dalle occupazioni? E delle relazioni che si creano? Le buttiamo? Le riduciamo a un problema di ordine pubblico?

Ecco che anche senza studiarsi Dardot e Laval, per leggere quello che accade a Roma basta l’evidenza. Chiunque può riconoscere che viviamo in una città asfittica, provinciale, governata come si può o da una gestione pubblica che ha sempre meno fondi o da società private che erodono pezzi sempre più significanti di amministrazione (come ben racconta per esempio Tomaso Montanari nel suo ultimo Privati del patrimonio). O ancora: una città perduta tra le retoriche dell’indignazione (quelle incarnate da siti tipo romafaschifo, prese in giro da Zerocalcare domenica scorsa su Repubblica e criticate da dinamopress) e un’invasione commerciale che sta trasformando in pochi anni una presunta e potenziale metropoli in una fiera.

In un giorno qualunque, andate a farvi un giro in una qualunque delle periferie vecchie e nuove – Ponte Mammolo, Casalotti, Spinaceto, Palmarola – per vedere come sono luoghi che vivono solo del riflesso di quello che non possono essere, senza nessun progetto se non quello di una sempre più evanescente “riqualificazione”.

Oppure, andate a farvi una passeggiata nel centro storico: la “grande bellezza” è solo una proiezione, che si dissolve nel fumo di decine di nuovi negozi di patatine olandesi o delle costose apericene di sedicenti wine bar. Non esiste uno spazio in cui non si debba pagare per entrare: e quest’economia quasi mai produce relazioni, cultura, e alla fin fine sicurezza (cos’altro è la cosiddetta movida con le risse di Campo de’ Fiori se non un rituale riot del consumo?). Così il tentativo meritorio di Andrea Valeri, l’assessore alla cultura del primo municipio, di censire per poi riassegnare gli spazi abbandonati del centro, ha incontrato di fatto solo ostacoli.

Roma – e non è un caso isolato – è una città logora, che viene abusata invece di essere usata. Il mancato decoro è l’evidente riflesso di una città non vissuta dai suoi stessi abitanti. Le casse comunali si riempiono grazie alle licenze commerciali e alle multe di chi cerca di accedere agli spazi comuni senza riuscirci: varchi elettronici e strisce blu finiscono per diventare il dispositivo di un’amministrazione classista della città.

Quaranta anni fa un assessore alla cultura, Renato Nicolini, portava alla luce, con l’estate romana e la politica dell’effimero, l’ambizione di far sentire i cittadini parte di un vissuto comune.

E per questo è ovvio che se quest’idea di città non parte da un desiderio di appartenenza, ma di consumo, non si potrà mai pensare di modificarne la cultura del governo, e sarà sempre una città amministrata sul filo dell’emergenza o sull’orlo del tracrollo.

Internazionale
13 05 2015

Un momento dello sgombero dell’insediamento in via delle Messi d’Oro a Ponte Mammolo, a Roma, l’11 maggio 2015. Massimo Percossi, Ansa
Fino all’11 maggio in via delle Messi d’Oro, a Roma, sorgeva uno storico borghetto, una volta abitato da decine di famiglie italiane che lungo gli anni avevano trovato soluzioni abitative migliori. Nello stesso luogo hanno poi vissuto diversi gruppi di migranti (ucraini, indiani, ecuadoriani, etiopi, eritrei): alcuni di loro riconosciuti come rifugiati, altri in transito e diretti verso il Nordeuropa, altri lavoratori regolari ma senza i mezzi per pagarsi un affitto.

Questo luogo era talmente noto nel quartiere che a sorpresa papa Francesco l’aveva visitato in febbraio prima di andare alla parrocchia del quartiere, san Michele Arcangelo.

L’11 maggio, senza nessun preavviso, le forze dell’ordine hanno raso al suolo le case di fortuna, lasciando più di duecento persone senza un’abitazione.

Tra loro c’è Herouth, che ha solo due anni ed è il più piccolo. Lui e i suoi genitori, eritrei, sono arrivati in Italia da una settimana. Dalla Sicilia hanno fatto tappa a Roma: si erano fermati a Ponte Mammolo con il progetto di continuare il viaggio verso il Nordeuropa.

La Germania è la meta del ragazzo originario del Ghana che rovista tra le macerie del campo. “Ho la residenza a Reggio Emilia, ma quando vengo a Roma per lavoro mi fermo qui. Avevo lasciato le mie cose: i documenti di mio figlio e dei soldi che avevo messo da parte per il viaggio. Non c’è più niente, è impossibile anche solo provare a recuperare qualcosa. Se solo ci avessero avvertito”, racconta a Redattore Sociale.

A José e alla sua famiglia invece sono rimasti un’automobile, qualche vestito, una scatola piena di documenti e dei giocattoli. Nient’altro. Insieme ad altre tre famiglie dell’Ecuador nel borghetto aveva costruito delle piccole abitazioni in muratura, chiesto l’allaccio di luce e gas e preso la residenza. Le ruspe hanno raso al suolo ogni cosa: le foto, i mobili, la tv, la lavatrice. Tutto è andato perso. “Ci hanno dato meno di un’ora per portare via le nostre cose”, racconta José, arrivato in Italia tredici anni fa. Ha un regolare permesso di soggiorno e per lavoro assiste un anziano.

Cacciati senza preavviso
Secondo la legge prima di effettuare uno sgombero forzato gli occupanti devono essere avvisati, per avere il tempo di portare via i loro effetti personali e trovare un altro alloggio. Questa volta però nessuno ha ricevuto un preavviso, anche se Francesca Danese, l’assessora alle politiche sociali di Roma, afferma di aver ordinato lo sgombero per il bene dei migranti: “Vivevano in condizioni igienico sanitarie pietose”.

Mentre abitanti, associazioni e i centri sociali della zona si stanno organizzando per portare generi di prima necessità, circolano le prime dichiarazioni polemiche proprio sulle modalità dello sgombero. Medu (Medici per i diritti umani) ha inviato una lettera aperta al sindaco Marino: “Se dopo anni di assenza delle istituzioni, procedere allo smantellamento di un luogo malsano e insicuro come la baraccopoli di Ponte Mammolo è condivisibile, il metodo e le modalità con cui sono stati realizzati sono semplicemente vergognosi”. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha espresso preoccupazione: “Sorprende che il comune abbia deciso di interrompere un percorso di concertazione con la società civile e con gli abitanti dell’insediamento informale e che sia stato deciso di eseguire uno sgombero coatto prima che fosse pianificata una soluzione alloggiativa alternativa e stabile”.

“Non si può agire con mano militare su questi temi”, ribadisce il Consiglio italiano per i rifugiati.

Anche la Comunità di Sant’Egidio esprime perplessità sulle modalità dello sgombero: “Ci si chiede con amarezza perché non si sia fatto un trasferimento concordato con gli abitanti, ma si sia scelta la strada di uno sgombero improvviso che provoca inutili tensioni e umiliazioni, oltre che la perdita di beni come elettrodomestici, documenti ed altro, che vengono distrutti insieme alle baracche. Umiliazioni che subiranno tra gli altri alcuni giovani studenti che erano a scuola o alcuni lavoratori che erano usciti al mattino senza sapere nulla: al loro ritorno troveranno la propria abitazione distrutta insieme ad alcuni beni. Mentre l’Europa si interroga su come far crescere la solidarietà nei confronti di profughi e migranti, perché non promuovere anche a Roma nuove politiche di solidarietà, senza inutili umiliazioni verso persone che hanno già sofferto abbastanza?”.

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