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HUFFINGTON POST

Disabilità e sesso, un tabù da affrontare

Huffington Post
29 01 2015

In questo post affronterò la delicata problematica della sessualità per le persone disabili cercando di definire la figura dell'assistente sessuale della quale si sta dibattendo in questi mesi anche in Italia. Il problema centrale è il seguente: anche le persone che soffrono di disabilità fisiche o psichiche hanno gli stessi impulsi sessuali delle persone "normali" ma, proprio a causa dei loro problemi, hanno difficoltà a gestirli.

L'assistente sessuale (che può essere sia un uomo che una donna) ha proprio il compito di aiutare chi non è in grado di gestire la propria sfera sessuale, rispettando i tempi e i limiti del disabile facendogli scoprire l'erotismo attraverso il contatto sia del proprio corpo che di quello dell'altro. Questa figura è già presente da tempo in Germania, Olanda, Danimarca, Austria e Svizzera. In Italia recentemente è stato compiuto un primo importante passo con la proposta di un disegno di legge che è stato firmato anche dal senatore del Partito democratico Sergio Lo Giudice.

Ileana Argentin, deputata Pd in prima linea nella difesa dei diritti delle persone disabili ha dichiarato: "Credo sia necessario garantire la possibilità di esprimere se stessi a 360 gradi e la sessualità fa parte della sfera della personalità di ognuno. Un operatore che agisce sulla sfera sessuale garantisce la piena espressione del soggetto con handicap che altrimenti non avrebbe altro modo per farlo. Quello della sessualità - continua la Argentin - è un argomento che va rilanciato, perché abbatte una barriera culturale ed è necessario per garantire la piena autonomia e la piena integrazione del soggetto disabile".

A Bologna e Firenze e da poco a Latina hanno preso il via i primi corsi di formazione per assistenti sessuali: tra i promotori Maximiliano Ulivieri (ideatore di loveability.it e di altri siti che affrontano problematiche sulla disabilità) e lo psicologo Fabrizio Quattrini. I seminari sono tenuti da sessuologi, psicologi e medici con la collaborazione di professionisti che già svolgono questa attività all'estero.

Durante le lezioni si analizza scrupolosamente anche la sfera emozionale. Ad oggi non è previsto un inserimento nel sistema sanitario nazionale, né l'iscrizione ad un albo o il riconoscimento dell'assistente sessuale come attività specifica.

In conclusione posso affermare che questa figura potrebbe essere un valido aiuto sia per i disabili che per le loro famiglie, costrette spesso a rivolgersi a delle prostitute per aiutare i loro figli in difficoltà su questo tema delicato: inoltre sono convinto che il sesso è un diritto di tutti e certi tabù nel 2015 dovrebbero essere abbattuti senza problemi.

Fulvio Mazza

Huffingtonpost
26 01 2015

di Umberto De Giovannangeli

L'Huffington Post lo aveva anticipato da alcuni giorni. Ma ora è arrivata una autorevole conferma. Che suona come un campanello d'allarme per l'Italia: la "Jihad dei barconi" è iniziata. E a condurla sono le milizie che in Libia hanno giurato fedeltà allo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. La conferma viene da Davos, e da una intervista concessa al Corriere della Sera da Ali Tarhouni, 63 anni, già ministro delle Finanze e del petrolio nel Consiglio nazionale di transizione e, dall'aprile 2014, presidente dell'Assemblea costituente della Libia: "i guerriglieri dell'Isis si sono insediati nella regione di Bengasi". Poi, continuando la marcia verso ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata, quella che fino a poco tempo fa era un vitale centro di commerci e di affari anche per gli stranieri. Infine, scavalcata, almeno per ora, la capitale Tripoli, truppe di jihadisti hanno occupato Sabrata e, infine, il porto di Harat az Zawiyah, ai tempi di Gheddafi scalo di una certa importanza per le rotte petrolifere verso la Turchia e l'Asia.

Oggi dallo specchio di mare che va da Sabrata fino a Zawiyah e di lì fino a Zuara, piccolo porticciolo di pescatori, partono quasi tutte le imbarcazioni di migranti diretti a Lampedusa, verso la Sicilia o verso Malta. Ormai dall'agosto 2011 - rimarca Giuseppe Sarcina, l'inviato del Corriere della Sera, profondo conoscitore della realtà libica - con la fine del Colonnello, da quelle parti non si vede più una divisa. Non dell'esercito, non della polizia. Terra di nessuno. O meglio terra di pascolo per bande di contrabbandieri, grassatori, trafficanti di uomini, donne e bambini. Situazione ideale per i reparti dei fondamentalisti islamici, sempre meglio equipaggiati, sempre meglio armati.

La creazione di una enclave del Califfato in terra libica è stata realizzata dai militanti del Majis Shura Shabab al-Islam, il Consiglio della Shura per i Giovani dell'Islam, sotto la guida di un veterano dell'Isis, Aby Nabil al Anbari, inviato due mesi fa in Libia da al Baghdadi, e con il sostegno decisivo di circa 300 libici rientrati in patria dopo aver combattuto per il Califfato nella brigata al Battar in Siria e in Iraq. Derna è stata ribattezzata 'Barqa', il nome arabo per Cirenaica. Intervistato dalla Cnn, Norman Benotman, ex leader del Libyan Islamic Fighting Group ora esperto in comunicazioni strategiche della fondazione britannica Quilliam, ha spiegato che gli affiliati all'Isis esercitano uno stretto controllo su Derna, sui suoi tribunali, sull'amministrazione, sulle scuole e sulla radio locale: "ormai la città è tale e quale ad al-Raqqa, il quartier generale dell'Isis in Siria. L'Isis costituisce una seria minaccia in Libia. È in procinto di creare un emirato islamico nell'est del paese".

Particolarmente allarmante è la notizia, confermata dall'intelligence Usa, di campi d'addestramento, con centinaia di jihadisti, nell'est della Libia in mano a vari gruppi di fondamentalisti islamici. "I luoghi di training più famosi sono vicino Sirte, a Sabratha e a Derna (roccaforte dell'Isis)", ha specificato il funzionario libico al Sadek Ben Ali. Altri "campi segreti" sarebbero inoltre spuntati nel sud del paese fuori controllo: "Rifugio per gli estremisti in fuga dall'intervento francese in Mali", ha precisato l'esperto di Libia alla Cambridge University, Jason Pack. Così è. E sarà sempre peggio vista l'incapacità dimostrata dall'Europa di mettere assieme una strategia articolata, che sia qualcosa di più della condivisione di informazioni tra le intelligence dei singoli paesi, in grado di affrontare la nuova minaccia jihadista.

Una minaccia che tende sempre più ad espandersi: dalla Libia alla Nigeria, dalla Somalia al Mali, dal Chad al Sudan, estendendosi al Kenya, dal Maghreb al Sahel all'immensa area subsahariana. Le forze in campo sono possenti, bene addestrate, meglio ancora armate: Boko Haram, al Sheebab, al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Al Sharia, Isis. Il quadro della penetrazione jihad-qaedista in Africa è impressionante. La sola Aqmi, ad esempio, è operativa in Algeria, Libia, Mauritania, Tunisia, Mali, Niger, Senegal e Nigeria. Attentati e rapimenti di occidentali sono all'ordine del giorno per procurarsi denaro e oliare gli ingranaggi della causa jihadista. D'altro canto, annota Mostafa El Ayoub, analista dell'Islam radicale, L'Aqmi o l'Isis sono strumenti di controllo e di pressione in mano a chi ambisce a far entrare la regione nella propria sfera d'influenza religiosa.

L'Arabia Saudita, culla del salafismo, è lì che manovra per sloggiare il Qatar alleato di Ennahda tunisina. Con il petrodollaro i sauditi comprano tutto ciò che è "acquistabile" nel Maghreb - e anche nell'Africa subsahariana - tranne in Algeria che, con la sua ricchezza in petrolio e gas e la sua tradizione militare, sfugge al controllo e alla pressione "geo-religiosa" del regno saudita.

L'Africa settentrionale è un terreno fertile per il fondamentalismo islamico, sul quale Isis potrebbe attecchire velocemente facendo molti proseliti nell'estremismo locale. Un processo già in atto. Fonti di intelligence occidentali hanno peraltro rimarcato come siano sempre più evidenti i legami tra Boko Haram e AqimI primi contatti risalgono al 2010 secondo quanto è stato affermato dal leader di Aqim, Abdelmalek Droukdel, le cui dichiarazioni vennero riportate dalla Reuters nel gennaio 2012, il quale asserisce che a partire da quel momento è stata fornita assistenza, addestramento ed armi a Boko Haram. Sembra anche accertato che anche nel corso del 2013 un gruppo di miliziani di Boko Haram siano stati inviati in Mali per addestrarsi. Secondo la stampa inglese il portavoce di Boko Haram avrebbe incontrato figure di spicco di al-Qaeda lo scorso febbraio, addirittura in territorio saudita. L'obiettivo è quello di unificare i maggiori gruppi jihadisti del grande Maghreb (dal Marocco all'Egitto) e del Sahel (dal Mali al Sudan passando da Chad, Niger e nord della Nigeria) eleggendo un nuovo emiro della zona. in gioco ci sarebbe il progetto della creazione dello Stato Islamico del Maghreb Al Aqsa sul modello di quello d'Iraq e Siria. Nero Islam. Un "Califfato" che dal Nord Nigeria si estende fino alla sua propaggine nordafricana: la Libia. Il cerchio si chiude. E inizia la "Jihad dei barconi".

Noi stiamo con le spose

Huffington Post
22 01 2015

Sulla stampa in questi giorni sono apparse fantasiose ricostruzioni su presunte filiere che in Italia aiuterebbero i "clandestini musulmani" provenienti dalla Siria. Una definizione sbagliata e anche discriminatoria. Dalla Siria, purtroppo, arrivano solo richiedenti asilo per essere riconosciuti come rifugiati. Sono più di 3 milioni i siriani in fuga da un paese in guerra da quattro anni. I dati sono pubblici. In più il rifugiato non è connotabile dal suo credo religioso: sarebbe strano parlare di "clandestini cristiani" o "clandestini ebrei" o "clandestini yazidi".

È di dicembre scorso poi la notizia che il Programma alimentare mondiale non avrebbe avuto risorse per distribuire cibo ai rifugiati siriani che da anni vivono in Libano, Giordania, Iraq, Turchia. In condizioni precarie, sotto delle tende ed ora affamati. È ovvio che guardino a noi, per non soccombere.

I siriani in fuga, una volta arrivati nello spazio dell'Unione europea cercano comunque di raggiungere la Germania, la Svezia, in generale il nord Europa, dove oltre all'accoglienza ci sono anche opportunità reali di costruirsi una vita. In Italia, da tempo, i rifugiati non vogliono rimanerci.

Un film molto bello realizzato da Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, Io sto con la Sposa, è stato presentato alla Mostra di Venezia e sarebbe opportuno farlo vedere a tanti opinion maker. Il film racconta di un finto corteo nuziale che da Milano arriva in Svezia, accompagnando un gruppo di rifugiati siriani che vogliono scappare in quel paese.

Il ministero dell'Interno italiano ha in ogni caso aumentato i posti del sistema di accoglienza Sprar, ma questo rimane insufficiente a garantire al rifugiato la possibilità di trovare poi delle reali opportunità nel paese di accoglienza. Soprattutto se il paese si chiama Grecia, Bulgaria o Italia, con recessione ed alto tasso di disoccupazione giovanile. Un giovane rifugiato cercherà di andare altrove a tutti i costi. Il regolamento di Dublino dell'Unione europea stabilisce però che la richiesta di asilo vada fatta nel primo paese in cui entra il rifugiato, per questo chi sbarca sulle coste italiane cerca di andare via subito senza farsi foto segnalare. Se invece sono identificati e poi chiedono asilo politico in Svezia,o in altro paese,vengono subito rimandati in Italia o nel prima paese di arrivo.

Questa è la situazione.

Giusto o sbagliato che sia i siriani non vogliono rimanere in Italia ed intorno al loro dramma si è creata un'ampia rete di solidarietà informale, talvolta anche sostenuta dalle istituzioni. A Milano sono stati in tanti ad andare alla stazione centrale per portare coperte ed aiuti ad intere famiglie che erano lì di passaggio. Dal 2012 il numero è sempre crescente. Basta farsi due passi non camminando con i paraocchi. Il Comune ha anche dato dei dormitori temporanei. Queste famiglie, anche con bambini molto piccoli, cercano di raggiungere l'Europa del nord e chiedono aiuto, a chiunque. Ci sono trafficanti senza scrupoli che cercano di lucrare su di loro e ci sono volontarie e volontari che cercano di dargli una mano disinteressata e delle indicazioni su quali siano le strade da prendere, i mezzi di trasporto più appropriati.

In realtà l'Europa si è accorta da tempo di questo flusso verso nord ed ha chiesto all'Italia di essere molto più severa. Gli austriaci hanno chiuso i varchi e molti siriani si stanno affollando ora nella provincia di Bolzano. I francesi spesso li rimandano indietro. Le autorità italiane sono diventate sempre più dure nel pretendere la foto-segnalazione con casi, anche apparsi sulla stampa, di identificazioni forzate.

A tutto questo ci sarebbe una prima soluzione. Efficace. Il senatore Manconi l'ha proposta mesi fa, anche in sede Europea. Le domande d'asilo per l'Europa si potrebbero accogliere nei paesi di transito. In Libano, Giordania. In quei paesi dove i rifugiati cercano un primo soccorso, ma che sono anch'essi così fragili da non poter garantire una reale accoglienza di lungo periodo. Gli Stati Uniti, l'Australia, la Nuova Zelanda, già utilizzano questo sistema. I soli Stati Uniti hanno aperto una quota di 69.500 persone per il 2014. È un sistema che ridurrebbe il numero di persone che tentano la via del mare o altre strade. Che non risolve, ma che aiuterebbe e chiamerebbe ciascuno Stato europeo ad assumersi delle responsabilità chiare, definendo ogni anno quanti rifugiati può accogliere. È chiaro però che le guerre del nostro tempo faranno fuggire sempre più persone di quante ne possiamo accogliere. Al momento solo tra Siria ed Iraq ci sono circa 13 milioni tra sfollati e rifugiati. Questo è l'unico dato di fondo certo.

E per questo noi siamo sempre "dalla parte delle spose", di coloro che subiscono le guerre e cercano comunque delle strade per continuare a vivere in modo dignitoso. E siamo sempre contrari a chi invece le guerre le alimenta con armi, sfruttamento e informazioni sbagliate, foriere di ignoranza, odio e razzismo.

Domenico Chirico

Il Fatto Quotidiano
21 01 2015

Incontriamo Claude Lanzmann in albergo, al termine del suo tour de force tra aerei, interviste e incontri romani. È arrivato dalla Francia per presentare nel nostro paese il volume L'ultimo degli ingiusti, tratto dal suo film omonimo uscito nel 2013.

Il Maestro è stanco, sorseggia un bicchiere di whisky, non ne può più di rispondere sempre alle stesse domande, e il cronista deve fare attenzione a non mettere il piede il fallo. Non si distrae mai, all'alba dei suoi novanta anni. Se sbagli una domanda, sei fregato. Mi vengono in mente le parole di un vecchio adagio: le domande si dividono in due categorie, quelle che non hanno risposta e quelle che non meritano risposta.

Stiamo parlando di un monumento vivente, l'artista che ha consacrato la sua vita alla memoria dello sterminio degli ebrei, prima con il fondamentale Shoah (durata: dieci ore e qualche minuto) e poi con L'ultimo degli ingiusti, il film che raccoglie la testimonianza di Benjamin Murmelstein, rabbino e intellettuale viennese, noto nel mondo come ultimo decano del ghetto di Theresienstadt.

L'intervista di Lanzmann a Murmelstein si svolse nel 1975 sul tetto di un albergo di Roma, città dove questi visse per quarant'anni dopo la guerra.

Perché Roma? Come fu la sua esistenza dopo Theresienstadt?
Egli scelse questa città perché era l'unico luogo che gli era consentito, o forse il solo posto in cui aveva piacere di risiedere. Dopo la guerra fu processato, poi assolto, a Praga, e tentò di trasferirsi in Israele, ma le autorità gli negarono il permesso di soggiorno. Si considerava un ebreo in esilio, e non è semplice vivere da esule.

Come se la passava?
A Roma trascorse l'esistenza in una miseria costante e totale. Per lui, la moglie e suo figlio Wolf fu terribilmente dura: lavorava nel commercio di lampade, faceva il rappresentante, soprattutto in Sardegna.

Mantenne dei rapporti con la comunità ebraica?
Non quella di Roma, con cui si ignorarono. Però, al tempo del processo Eichmann, provò ad averne con Israele: aveva pubblicato un libro sulla sua vicenda e voleva essere interrogato. Gli risposero che la sua testimonianza era valida come riscontro, non come prova autonoma. Volevano sapere solo quello che faceva comodo. A quell'epoca scrisse anche una serie di articoli polemici contro Hannah Arendt, con cui non era d'accordo: né sulla "banalità" di Eichmann né, ovviamente, sul giudizio nei confronti dei dirigenti ebrei dei ghetti.

Lei criticò aspramente la comunità ebraica di Roma per aver rifiutato a Murmelstein l'iscrizione e poi la sepoltura al cimitero. Come si spiega questa esclusione?
Con il conformismo formidabile, non solo dei romani ma generale.

Lanzmann assume una posizione netta per difendere il suo intervistato. Un'opinione radicale ed eccentrica, se si considera, per esempio, la dichiarazione di Gershom Scholem: il decano di Theresienstadt meritava di essere impiccato. Lo stesso Scholem che, a proposito di Eichmann, si era schierato contro la pena di morte. I sopravvissuti a quel ghetto odiavano Murmelstein. Non gli perdonarono mai il rapporto diretto con Eichmann e le SS, i modi bruschi, alcune decisioni drammatiche. A Theresienstadt morirono oltre trenta mila ebrei e quasi novantamila furono deportati nelle camere a gas all'Est. Ma Murmelstein difese sempre le sue scelte. Compresa quella - davvero estrema - di compiacere la menzogna dei nazisti, che avevano eletto Theresienstadt a "città regalata agli ebrei", vetrina per la Croce Rossa e gli osservatori internazionali. Pur di salvare più vite possibili, questo re degli ebrei, simbolo del "potere senza potere", contribuì a organizzare i lavori di abbellimento del ghetto e persino alle riprese dei filmati in cui i reclusi appaiono giocare a scacchi, a calcio, mentre mangiano riccamente. L'oscenità dell'inganno al servizio dello sterminio.

Perché considera la storia del ghetto di Theresienstadt emblematica per comprendere la Shoah?
Fondamentale. Talmente importante che in Repubblica Ceca, dove i fatti si sono svolti, non ne vogliono sapere. Nessuna presentazione del film. E pensare che all'epoca di Shoah mi accadde a Praga un episodio straordinario. Mi vidi venire incontro un ometto basso; era Vaclav Havel, molto prima di diventare presidente. Mi informò di un suo regalo, "bello e raro": la traduzione del mio documentario completata in carcere insieme a suo fratello. Incredibile. Ma ai cechi oggi non gliene importa niente.

Leggendo il libro, si ha l'impressione che lei si fidi completamente delle parole di Murmelstein quando parla di sé e descrive le atrocità del ghetto...
Sì. Egli spiega magnificamente e non nasconde niente. È un testimone assolutamente prezioso. Il solo ad aver vissuto e integrato tutto questo, l'unico decano dei ghetti a essere ritornato.

Le parve contento di poter raccontare la propria versione dei fatti?
Era soddisfatto di potersi spiegare e raccontare sui mezzi di comunicazione. Ma i media erano un passo indietro, e lui non credeva che potessero comprendere la sua storia. Forse oggi le cose cominciano a mutare. Ci vuole tempo. Ma le persone capiranno e cambieranno idea. È significativo che mi abbiano consentito di fare questo film.

Primo Levi coniò la fortunatissima espressione di "zona grigia", secondo lei l'ultimo degli ingiusti ne è un esempio estremo?
La "zona grigia" fu un'invenzione di Levi. Murmelstein si trovava proprio nella zona nera. Fu completamente immerso nel male per tutto, ma proprio tutto il tempo.

Perché il documentario su Murmelstein ha avuto bisogno di una gestazione così lunga, dal 1975 al 2013?
All'epoca, non esisteva un produttore così matto da permettere a un tipo come me di rimanere a Roma una settimana intera, girando mattina, pomeriggio e sera, intervistando un personaggio controverso come Murmelstein. Sempre a girare, girare, girare. Andava contro tutte le regole del cinema.

Perché si è imbarcato in questa impresa a tanti anni dall'uscita di Shoah?
Ero pazzo di rabbia, provavo un senso di rivolta. Mi pareva che si fossero serviti di me, usando gli spezzoni che avevo girato, e poi donato, senza chiedermi nulla. Mi sentivo derubato.

È felice di aver pubblicato questo libro, e, prima, di aver girato L'ultimo degli ingiusti?
Se c'è una cosa di cui posso essere fiero, nella mia vita, è aver fatto questo film. Risarcire un uomo che aveva sofferto così tanto... Questo farebbe di me quasi un cristiano (ride). Può darsi che in alto, negli appartamenti del cielo, Murmelstein abbia visto il film e ne sia rimasto contento. Anche se personalmente non l'ho fatto per lui. Ma per la verità.

Benjamin Murmelstein non negò di aver agito anche per il piacere generato dal potere. Murmelstein non si uccise come Adam Czerniakow, presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, che non volle assistere alla deportazione del suo popolo. Scelse di rimanere, collaborando coi carnefici. Mise in salvo molte persone, convinto che collaborare, sopravvivere, talvolta rischiando, fosse il solo modo per sconfiggere i nazisti. Difficile stabilire se avesse ragione. Ma è arduo dissentire quando afferma: "Un decano degli ebrei può essere condannato. Anzi, deve essere condannato. Ma non può essere giudicato, perché nessuno può mettersi nei suoi panni".

Huffington Post
15 01 2015

Questa è la lettera indirizzata ai leader del mondo e a chiunque, firmata da 32 personaggi noti tra cui Malala Yousafzai, Ben Affleck, Bill Gates, la Regina Rania di Giordania e molti altri. La lettera promuove e supporta la nuova campagna action/2015 che vede mobilitate più di 1000 organizzazioni nel mondo, fra cui Save the Children e GCAP - Global Call to Action against Poverty (la Coalizione contro la povertà) - che chiede con forza ai leader mondiali di mettere in atto azioni concrete per arrestare i cambiamenti climatici prodotti dall'azione umana, sradicare la povertà e rimuovere le disuguaglianze entro il 2030.

Cari Leader del Mondo e cari Chiunque altro,

Ci sono momenti nella storia che diventano di svolta. Secondo noi il 2015 sarà uno di questi. Sarà l'anno più importante, dall'inizio del nuovo millennio, per prendere delle decisioni globali...

Crediamo che sia veramente possibile che il 2015 si concluda con un nuovo accordo globale per un percorso condiviso verso un futuro migliore e più sicuro per le persone e per il pianeta, che ispirerà i cittadini di tutto il mondo. Possiamo scegliere la strada dello sviluppo sostenibile. Oppure no, impedendo che ciò accada per generazioni. Da che parte della storia volete stare?

Ci sono milioni di voci che potreste decider di ignorare - voci di persone che voi rappresentate. Sono voci di tutte le età e di ogni parte del pianeta: voci di ragazze che oggi non possono avere un'istruzione, o di madri incinte che non hanno cure adeguate, di giovani che non hanno un lavoro dignitoso o di famiglie appartenenti a minoranze che subiscono discriminazioni da pubblici ufficiali corrotti, o agricoltori costretti a migrare nelle città come rifugiati a causa dei cambiamenti climatici, e di miliardi di altre persone. Le loro voci ruggiranno sempre più forti contro l'ineguaglianza e l'ingiustizia che inchioda le persone alla povertà. Tutti loro e noi che stiamo dalla loro parte vi chiediamo di arrivare ad un nuovo, grande accordo globale per la nostra unica famiglia umana, e poi di metterlo in atto tutti insieme. La grande notizia è che nel 2015 avete la storica opportunità di fare questo.

Due cruciali Summit delle Nazioni Unite si terranno quest'anno. Il primo in settembre, dove il mondo deve stabilire nuovi obiettivi per sradicare la povertà estrema, combattere la disuguaglianza e assicurare un pianeta più sostenibile. Il secondo è il summit sul clima a dicembre, dove dovremo fare in modo che il benessere delle persone, oggi, non vada a discapito del futuro dei nostri bambini.

Insieme alle cruciali discussioni sui finanziamenti, queste opportunità sono le più grandi che abbiamo in questo periodo. Sappiamo dai passati sforzi contro Aids, malaria, malattie prevenibili e buco dell'ozono, che se ci mettiamo insieme si può ottenere molto di più.

Tuttavia, a qualche mese dai 2 summit, pochi leader stanno giocando il ruolo guida di cui c'è bisogno. Vediamo progressi nel clima ma non ancora della scala richiesta. Vediamo una serie di obiettivi enormemente ambiziosi ma che sono privi di senso se non c'è un coraggioso finanziamento e accordi al più alto livello per realizzarli.

Se questo non cambia, abbiamo paura che voi e i vostri colleghi possiate condurre come dei sonnambuli il mondo verso uno dei più grandi fallimenti della storia recente. Non è troppo tardi per cogliere l'occasione. Noi vi chiediamo di contribuire a guidare questo cambiamento.

Siamo chiari: le azioni che prenderemo nel 2015 decideranno in quale direzione il mondo vuole andare per i decenni a venire. Per favore prendiamo la direzione giusta.

Vostri:
Aamir Khan, Attore e campaigner
Angelique Kidjo, Cantante, cantautrice e attivista
Annie Lennox, OBE, musicista e attivista
Ben Affleck, Attore, Filmmaker e Fondatore di Eastern Congo Initiative
Bill Gates, Co-Chair della Bill & Melinda Gates Foundation
Bono, leader degli U2 e confondatore di ONE and (RED)
Dbanj, Musicista e attivista
Arcivescovo Emerito Desmond Tutu
Gro Harlem Brundtland, già Primo Ministro, Norvegia
Hugh Jackman, Attore
Kid President - Brad Montague e Robby Novak
Prof. Jeffrey Sachs, Direttore Earth Institute e autore di The Age of Sustainable Development
Jimmy Wales, Fondatore di Wikipedia
Jody Williams, 1997 Nobel per la Pace e Presidente della Nobel Women's Initiative
José Padilha, Regista
Leymah Gbowee, 2011 Nobel per la Pace
Malala Yousafzai, Co-Fondatrice del Malala Fund Nobel per la Pace 2014
Mary Robinson, Presidente, Mary Robinson Foundation - Climate Justice
Matt Damon, Attore e Fondatore di Water.org
Melinda Gates, Co-Presidente della Bill & Melinda Gates Foundation
Mia Farrow, Attore e attivista
Mo Ibrahim, Filantropo e campaigner
Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006
Queen Rania Al Abdullah, Regina di Giordania
Richard Branson, Fondatore del Virgin Group
Ricken Patel, Presidente e Direttore esecutivo di Avaaz
Sharan Burrow, Segretaro Generale dell' International Trade Union Confederation
Shakira, Cantante e cantautrice, UNICEF Goodwill Ambassador
Sting, musicista, cantante, cantautore e attivista
Ted Turner, Presidente, United Nations Foundation
Wagner Moura, Attore
Yvonne Chaka Chaka, Presidente della Princess of Africa Foundation

Huffingtonpost
11 01 2015

Ora c'è chi evoca il "dente per dente". Chi si spinge fino a identificare gli islamici - un miliardo e mezzo di persone - come una moltitudine di sgozzatori. Altri, sull'onda dell'orrore per il duplice attentato di Parigi, pensano che la cosa migliore da fare è sospendere il Trattato di Schengen sulla libera circolazione e, tanto che ci siamo, vietare la costruzione di nuove moschee. Ebbene, è in questo modo che si fa il gioco dei tagliatori di testa dell'Isis e dei loro competitori di al Qaeda. Non c'è niente di più sbagliato, sul piano concettuale e su quello politico, considerare l'Islam come un moloch senza sfaccettature, un moloch integralista, incompatibile per sua natura con la democrazia e quei valori universali che sono alla base della "Marche Républicaine", la straordinaria risposta che la Patria dei Lumi ha dato ai nemici dell'umanesimo, sotto qualunque etichetta religiosa essi tentino di coprirsi.

Tra i principi evocati dai manifestanti di Parigi, tra le sfide lanciate ai seminatori di morte, assile alla difesa, senza se e senza ma, della libertà di espressione, c'è, non meno importante, la sfida, l'impegno per l'integrazione. Una sfida che non può che partire dall'Europa, e in essa, da quei Paesi, tra i quali la Francia, dove la società è sempre più multietnica. E questo, è bene ricordarlo, è un processo irreversibile. Questo, è bene aggiungere, è una ricchezza e non una minaccia, per l'Europa, perché un confronto con altre culture, con altre tradizioni, quando non ha come obiettivo una forzata omologazione, è un arricchimento per l'intera comunità nazionale. Integrazione. E' contro questa prospettiva che si scagliano i "guerrieri di Allah". Perché è di questa Europa che essi hanno paura, e non dell'Europa che prova a mostrare i muscoli, ad alzare Muri, a erigere trincee.

Il propagarsi dell'islamofobia favorisce la loro campagna di proselitismo. ""Quello che vogliono - riflette Tariq Ramadan in una intervista a euronews - - è nutrire l'islamofobia, nutrire questo senso di alienazione e di frustrazione. Ecco perché dobbiamo fare attenzione, questo è quello che vado dicendo ai musulmani di tutto il mondo, fate esattamente l'opposto di ciò che vorreste fare, ma non isolatevi, non state ai margini, socializzate, siate visibili, alzate la voce, siate la voce di chi non ce l'ha, della silenziosa maggioranza contraria a ciò che sta accadendo". E ancora: "Passo il 90% del mio tempo a cercare di far capire ai media cosa l'Islam non è, nessuno mi chiede di dire invece cosa è l'Islam, quali siano i suoi valori, la spiritualità che condividiamo. Vengo sempre messo sulla difensiva, "mi dica perché lei non è un pericolo?" Perché non si vuole invece che io dica perché sono un valore aggiunto per questa società, che cosa posso portare? La percezione dei musulmani in Occidente è sempre del tipo "o fai apologia oppure sei sulla difensiva".

Dobbiamo smettere di parlare in questo modo a noi stessi: in fin dei conti, io sono occidentale quanto lei e sono una parte musulmana del nostro futuro."Una Europa islomofobica è quella che vorrebbero i tanti "califfi" che agiscono nel Grande Medio Oriente, molti dei quali prodotti dello stesso Occidente, non solo per scellerate avventure militari come le due guerre irachene, ma anche per l'applicazione sul campo del vecchio assunto secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico". Così è stato per Saddam Hussein, armato dall'Occidente, anche con i gas con i quali ha massacrato i curdi, quando il "macellaio di Baghdad" era visto come un argine alla penetrazione khomeinista in Medio Oriente. E così è stato per Osama bin Laden e i suoi protettori Talebani, quando servirono per combattere l'esercito sovietico in Afghanistan.

In questi giorni di rabbia e di dolore è imperativo ragionare. Ragionare e non cavalcare l'insicurezza e la paura che può impadronirsi di ognuno di noi. Ragionare significa, ad esempio, fare i conti con gli errori commessi dall'Occidente, Usa ed Europa in primis, agli albori della guerra in Siria, quando quella rivolta popolare s'inquadrava ancora in quell'evento epocale che è stata, e che rimane, la "Primavera Araba". "La nuova generazione - rimarcava allora Olivier Roy, tra i più autorevoli studiosi francesi dell'Islam radicale - non è interessata all'ideologia: scandisce slogan pragmatici e concreti ("erbal", via subito) ed evita richiami all'Islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni Ottanta. Rifiuta la dittatura e chiede a gran voce la democrazia". Erano i ragazzi della "rivoluzione dei gelsomini" in Tunisia, erano i ragazzi di Piazza Tahrir in Egitto. Erano i loro coetanei siriani che scendevano nelle strade per invocare libertà e democrazia, ricevendo in cambio fucilate da parte dell'esercito di Bashar al-Assad.

La crescita del fondamentalismo, e delle sue componenti più estreme, è venuta "contro" e non "grazie" quelle rivolte. L'inverno jihadista non è la naturale successione alla Primavera araba. I leader occidentali l'hanno capito troppo tardi, se davvero l'hanno capito. La rottura del 2011 è nell'emergere di istanze di libertà che raccontano di un Islam plurale, in cui è possibile provare a coniugare modernità e tradizione. L'agenda delle rivoluzioni post-islamiste, i suoi attori principali, non avevano nulla a che vedere con il paradigma politico integralista. Volevano "globalizzare" i diritti, non la jihad. Sono stati abbandonati dall'Occidente, e attaccati dall'Islam radicale armato. Ma quei giovani, milioni di giovani, non sono svaniti nel nulla, tanto meno hanno ingrossato le file dell'Esercito islamico o rafforzato i mille tentacoli della "piovra" qaedista. Sono loro l''investimento sul futuro. Sono le organizzazioni della società civile che vivono in tanti Paesi arabi e musulmani, e che combattono, con le "armi" della non violenza, regimi teocratici e feroci tagliagole i cui capi - dal Califfato islamico di Siria e e Iraq, alla martoriata, e colpevolmente dimenticata, Nigeria dei criminali di Boko Haram - chiedono loro di scegliere tra "fede e democrazia".

Giustamente, in questi giorni, in queste ore, ricordiamo e onoriamo i morti di Parigi. Ma questo non può farci dimenticare che, senza riflettori accesi, in questi anni i miliziani qaedisti e dell'Is hanno rivolto le loro armi contro quelli che venivano considerati i nemici interni: donne e uomini musulmani, "colpevoli" di contrastare, anche solo non accettando i diktat della sharia, le indicazioni dei "guerrieri di Allah". Alzare i Muri è il regalo più grande che si potrebbe fare agli ispiratori, prim'ancora che alla manovalanza, della Jihad globalizzata. Costoro hanno paura dell'integrazione, temono la pace in Palestina, vivono e prosperano solo in una situazione di guerra permanente.

La "normalità" li disorienta, li spiazza. Discutere e dividersi sull'esistenza o meno di un "Islam moderato" è un esercizio intellettuale che lascia il tempo che trova, soprattutto quando a cimentarsi con l'argomento sono i "tuttologi" dell'ultima ora. Quel che conta davvero è che nel mondo islamico, nelle comunità islamiche anche in Europa, vi sono tantissime persone, la grande maggioranza, che rigetta non solo la pratica jihadista ma anche i precetti di una ortodossia sessuofobica e asfissiante. Di questo Islam che non si arrende alle teocrazia, fanno parte le ragazze e i ragazzi dell'"Onda Verde" iraniana, così come le donne che combattono il regime oscurantista saudita rivendicando e praticando il diritto a guidare la macchina.

"Oggi salirò a bordo dell'aereo che mi riporterà a casa, in Pakistan, portando con me il manoscritto di un libro che sto scrivendo e che sarà pubblicato a breve. Si tratta di un saggio sulla riconciliazione dei valori dell'Islam e dell'Occidente, di una accalorata esortazione affinché l'Islam moderato e moderno emargini gli estremisti religiosi, riporti i militari dalla politica nelle loro caserme, tratti tutti i cittadini e specialmente le donne con parità e pienezza di diritti, scelga i propri leader con elezioni libere e irreprensibili, e garantisca un governo trasparente e democratico la cui priorità sia soddisfare le esigenze sociali ed economiche della popolazione". A parlare è Benazir Bhutto, in uno scritto del 18 ottobre 2007. "Mentre salgo su un aereo diretto in Pakistan, sono pienamente consapevole che i sostenitori dei Taliban e di al Qaeda hanno pubblicamente minacciato di uccidermi - aggiungeva - l leader dei Taliban Baitullah Mehsud ha dichiarato che i suoi terroristi mi daranno "il loro benvenuto" in occasione del mio ritorno, e non è certo necessario che io spieghi che cosa implicano queste parole.

Comprendo anche gli uomini di al Qaeda, che in passato hanno già cercato di assassinarmi due volte: il Partito popolare del Pakistan (Ppp) e io rappresentiamo tutto ciò che loro temono maggiormente, moderazione, democrazia, eguaglianza e parità tra uomini e donne, informazione e tecnologia. Noi rappresentiamo il futuro del Pakistan moderno, un futuro nel quale non c'è posto per l'ignoranza, l'intolleranza e il terrorismo". Il 21 dicembre dello stesso anno, il 2007, Benazir Bhutto viene uccisa in un attentato a Rawalpindi. Benazir Bhutto era una donna coraggiosa. Una donna islamica. Per questo era una duplice minaccia per gli integralisti. Molto più di quanti, al sicuro nelle loro case, predicano ora la "Guerra all'Islam".

Huffington Post
08 01 2015

Non succedeva da cinque anni e in tanti aspettavamo questo momento. I problemi di salute ci sono e sono evidenti, ma non l'hanno mai fatta scoraggiare e per lei che si è dichiarata "un'obesa della vita" sono stati, invece, un motivo per fare, conoscere e per imparare sempre di più. Anna Marchesini è così riuscita a tornare alla grande sulle scene del suo amato teatro e dopo Milano (al Piccolo Teatro Paolo Grassi), ha portato anche a Roma - in un'indimenticabile one night only - il suo reading Cirino e Marilda non si può fare. Ed è stato un successo, salutato alla fine con ben quindici minuti di applausi.

Tutti in piedi, anche un'altra grande del teatro (e non solo), Franca Valeri, mentre il trio Aire de Mar suonava Quando in omaggio a Pino Daniele recentemente scomparso. Lei ha ringraziato con la sua vocina dicendo "vi adoro!" ed aggiungendo una delle sue frasi più amate e conosciute - "siete taaaanto caruuuucci" - portando così il numeroso pubblico presente ad applaudire e a ridere ancora di più, dando vita ad un vero e proprio spettacolo nello spettacolo.

Anni fa, l'abbiamo apprezzata ne La cerimonia del massaggio di Alan Bennett, ne Le due zitelle di Tommaso Landolfi e nella sua ultima interpretazione teatrale, Giorni felici di Beckett, ma stavolta è tornata alla grande con uno spettacolo tutto suo, un racconto su un palco nudo e senza supporti scenici dove sono stati il suo corpo, i suoi movimenti e la sua voce i veri protagonisti. Cirino e Marilda non si può fare lo ha scritto appositamente per il teatro e poi inserito all'interno del libro Moscerine, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno come i precedenti (Il terrazzino dei giardini timidi e Di mercoledì).

Il racconto ci presenta e ci fa conoscere un professore in pensione, Cirino Pascarella, un uomo che "si è più volte avvicinato alle cose senza avere però mai il coraggio di assaggiarne il sapore", come ha scritto e recitato la Marchesini, "un uomo che non aveva fatto altro che scivolare su di esse come dita sui tasti di un pianoforte". Ogni giorno deve vedersela con la tenutaria della pensione, donna Olimpia, una donna immensa, "un mammiferone antropofago che a furia di farsi gli affari di tutti pareva che avesse ingurgitato un condominio intero e che ora lo portasse dietro con sé con gran fatica". Vuole a tutti i costi che 'o professo' si fidanzi con sua figlia Marilda, una quarantenne "magrissima e spilungona, tutto suo padre", non riuscendo a percepire che Cirino è lontanissimo e immune da qualsiasi fascinazione femminile.

I loro due mondi sono divisi da una porta, quella della stanza numero dodici abitata dal professore, rinchiuso nel suo silenzio e nella sua solitudine. Sono due mondi diversi che si confrontano e che si scontrano, dove il tragico e il comico si alternano e, spesso, si attraggono, diventando una cosa sola. Sarà una luce accesa nella casa di fronte e il ragazzo a torso nudo che la abita, solo per una notte, a scombussolare per sempre la vita di Cirino e fargli finalmente capire quello che fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di accettare.

"Era l'avvertimento di una vita diversa che non era mai stata ma che conteneva in sé le promesse di quello che avrebbe potuto essere; una specie di nostalgia del possibile di cui non si conoscono gli aspetti, svaniti prima ancora di accadere, nostalgia di una vita da vivere da qualche parte, non sapeva dove, solo che c'era in qualche infinita lontananza quella vita che non era nata ma che avrebbe potuto essere".

Ogni notte cercherà quella luce accesa da quello sconosciuto che poi, tanto sconosciuto per lui non era affatto. Sì, perché in ognuno di quegli incontri a quegli appuntamenti, attribuiva senso e significati dando vita ad una storia immaginata e fantasticata.
Straordinaria la Marchesni in questa che è stata una vera e propria maratona emozionale e fisica in cui - come nel suo libro - è riuscita a cucire le trame dei destini della vita e della morte con un filo invisibile di "fulminee irrilevanze", come lei le ha chiamate, delle "moscerine" ("chi l'ha detto che i moscerini solo maschi?") in grado di travolgere gli eventi e di portare i suoi personaggi dalla tragedia alla comicità e viceversa.

La serata è stato un successo anche per il Teatro Argentina che sotto la direzione di Antonio Calbi, ha già registrato un aumento degli abbonamenti del quaranta per cento ed ha in programma ben 500 alzate di sipario.

Giuseppe Fantasia


Huffingtonpost
07 01 2015

"Si porta a conoscenza dei pazienti che qui lavora il dott. xxx. Essendo questo professionista un omosessuale, si pregano i pazienti di prendere le dovute precauzioni (al fine di tutelare la propria salute)".

Il cartello è apparso sulla porta di uno studio dentistico di una cittadina toscana. Il dottore in questione non è un dipendente dello studio, ma lavora lì come consulente, apprezzato e stimato dai colleghi e dai pazienti. Eppure sulla sua porta è stata affissa la scritta omofoba, firmata da un inesistente "Organismo di tutela dei pazienti contro le malattie contratte in ambito odontoiatrico"

La notizia ha turbato l'uomo che si è rivolto a un'avvocato per risolvere la vicenda. Per il legale si tratta di "attentato alla persona, alla vita e all'aspetto professionale di una persona".

Su Gay.it, che ha riportato la notizia, il fidanzato del dentista ha rilasciato una breve intervista:

"Noi viviamo liberamente, non ci siamo mai nascosti e questo non ci ha mai portato alcun problema. Il mio compagno, pur non avendolo mai detto pubblicamente, non ha mai fatto mistero del fatto di essere gay, quindi è probabile che sia i pazienti che i colleghi lo sapessero".
Un professionista apprezzato e stimato da pazienti e colleghi, con i quali ha ottimi rapporti. Tant'è che la faccenda ha turbato anche loro:

" Il titolare dello studio ci ha spiegato di averci pensato tutta la notte prima di decidere di chiamarlo per riferirgli del messaggio, perché sapeva che lo avrebbe ferito. Inoltre ci ha assicurato che non ci saranno conseguenze di nessun genere per lui. E siamo sicuri che sarà così. Parliamo di professionisti seri".

Sull'orlo di un cambiamento di portata storica

Huffingtonpost
06 01 2014

di Alexis Tsipras 

La Grecia si trova sull'orlo di un cambiamento di portata storica. SYRIZA non è più soltanto una speranza per la Grecia e per i greci. Rappresenta anche l'attesa di un cambiamento di rotta per tutta Europa. Perché a meno che non cambi la propria politica, l'Europa non uscirà dalla crisi, e la vittoria di SYRIZA alle elezioni del 25 gennaio non farà che rinvigorire le forze del cambiamento. Perché il vicolo cieco della Grecia è il vicolo cieco dell'Europa di oggi.

Il 25 gennaio il popolo greco verrà chiamato a cambiare la storia col proprio voto, a disegnare uno spazio di cambiamento e di speranza per tutti i popoli d'Europa, condannando i fallimentari memoranda dell'austerity, e dimostrando che quando la gente lo vuole, quando osa, e quando vince la propria paura, le cose possono cambiare.

In Grecia l'attesa di un mutamento politico ha già cominciato, da sola, a cambiare le cose in Europa. Il 2015 non è il 2012.

SYRIZA non è l'orco, né la grande minaccia per l'Europa, quanto piuttosto la voce della ragione. È la sveglia che desterà l'Europa dal letargo e dal sonnambulismo. Ecco perché SYRIZA non viene più considerata un grave pericolo, come nel 2012, bensì come uno stimolo al cambiamento. Da tutti?

Non da tutti. Una piccola minoranza, che trova il suo centro nella leadership conservatrice del governo tedesco, e in una parte della stampa populista, insiste nel riciclare vecchie storielle e leggende sul Grexit.

Ma così come il signor Samaras in Grecia, non riescono a convincere più nessuno. Ora che i greci hanno esperito il suo governo, riescono a distinguere le menzogne dalla verità.

Il signor Samaras non offre alcun programma, se non la prosecuzione del fallimentare memorandum d'intesa dell'austerity. Ha impegnato se stesso e gli altri ad effettuare ulteriori tagli agli stipendi e alle pensioni, e ulteriori aumenti delle imposte, all'interno di una cornice di riduzioni salariali e super-imposizioni fiscali accumulatesi per sei interi anni. Chiede ai cittadini greci di votare per lui di modo da poter applicare il nuovo memorandum. E siccome si è votato all'austerity, lui proprio non riesce a interpretare il rifiuto di questa politica fallimentare e distruttiva se non come un presunto gesto unilaterale.

In sostanza sta occultando il fatto che la Grecia, in quanto membro dell'Eurozona, si è impegnata nel raggiungimento di alcuni obiettivi, e non piuttosto nella valutazione degli strumenti politici necessari al loro raggiungimento.

È per questa ragione che, a differenza del partito di governo Nea Dimokratia, davanti al popolo greco SYRIZA si è assunta l'impegno di applicare, sin dai primi giorni di quella che sarà la sua amministrazione, uno specifico programma efficiente in termini di costi e fiscalmente equilibrato, il "Programma di Salonicco", e ciò indipendentemente dal negoziato coi nostri finanziatori.

Attraverso una serie di azioni mirate per arginare la crisi umanitaria. Attraverso una giustizia fiscale, così che a quell'oligarchia finanziaria che dai quattro anni della crisi non è stata neanche sfiorata, toccherà finalmente pagare. Attraverso un piano per il rilancio dell'economia, la lotta a un tasso di disoccupazione senza precedenti e un ritorno alla crescita.

Attraverso riforme radicali nel modus operandi dello Stato e del settore pubblico, perché il nostro obiettivo non è quello di tornare al 2009, quanto di cambiare tutto ciò che ha spinto il Paese sull'orlo di una bancarotta economica, ma anche morale.

Il clientelismo; uno stato ostile ai propri cittadini; l'evasione fiscale; l'elusione fiscale; i fondi "neri"; il contrabbando di carburante e tabacco; questi sono solo alcuni degli aspetti di un sistema di potere che ha governato il Paese per parecchi anni. Questo è il sistema che ha portato il Paese alla disperazione, e oggi continua a governare in nome dell'emergenza nazionale, e nel timore della crisi.

In realtà, però, questo non è timore della crisi, ma paura del cambiamento. Quella paura e quel senso di colpa dell'establishment che hanno portato il popolo greco a una tragedia senza precedenti.

Quanto a coloro che se ne sono resi responsabili, se questi hanno la pur minima cognizione delle antiche tragedie greche, avranno motivo di temere, perché dopo la hýbris viene la nemesi e la catarsi!

Ma il popolo greco così come quelli europei non avranno niente da temere. Perché SYRIZA non vuole il crollo bensì il salvataggio dell'euro. E per i suoi Stati Membri salvare l'euro sarà impossibile, finché il debito pubblico è fuori controllo.

Il problema del debito non è soltanto greco, ma europeo. E l'Europa nel suo insieme è in debito di un dibattito, e della ricerca di una soluzione europea sostenibile.

SYRIZA e la Sinistra Europea sostengono che nella cornice di un accordo europeo, la stragrande maggioranza del valore nominale del debito pubblico debba essere cancellata, bisognerà imporre una moratoria sulla sua restituzione, e bisognerà introdurre una clausola per la crescita che si occupi della parte rimanente del debito, così da poter impiegare le rimanenti risorse per la crescita.

Noi rivendichiamo condizioni di restituzione che non portino il paese a soffocare nella recessione, e non spingano la gente verso la disperazione e la povertà.

Abbracciando una posizione secondo la quale il debito greco sarebbe sostenibile, il signor Samaras fa del male alla Grecia. Non si limita ad abbassare l'asticella del negoziato, ma rifiuta del tutto il negoziato. Del resto se uno ammette che il debito è sostenibile, e che il memorandum è una "storia di successo", che c'è da negoziare?

Di fronte al futuro europeo siamo oggi in grado di distinguere due strategie diametralmente opposte. Da una parte c'è il punto di vista del signor Schäuble, secondo il quale, indipendentemente dal fatto che leggi e i principi concordati funzionino, dovremmo continuare ad applicarli. Dall'altra c'è la strategia del "costi quel che costi" -- espressione adoperata per la prima volta dal capo della BCE -- per salvare l'euro. In realtà, le imminenti elezioni greche rappresentano uno scontro fra queste due diverse strategie.

Sono convinto che sarà quest'ultima a prevalere, per una ragione ulteriore. Perché la Grecia è il paese di Sofocle, che con l'Antigone ci ha insegnato che esistono momenti in cui la legge suprema è la giustizia.

(Traduzione di Stefano Pitrelli)

Questo post è apparso originariamente su The Huffington Post Grecia ed è stato tradotto dall'inglese

Huffington Post
02 01 2015

La figlia diciassettenne si è tolta la vita perché avrebbe voluto cambiare sesso contro il parere dei genitori, eppure la madre rimane ferma nella propria opinione: "La condizione di transgender è contraria ai nostri principii religiosi".

Il caso ha fatto il giro del mondo e continua a far discutere: una diciassettenne dell'Ohio, Leelah Alcorn, si è suicidata buttandosi sotto un trattore dopo aer postato sul proprio profilo Tumblr una lunga lettera nella quale accusa i genitori di non aver mai compreso la sua condizione di transgender e, anzi, di averla severamente punita perché si ostinava a sentirsi una ragazza.
Leelah era nata con un corpo maschile, all'anagrafe si chiamava Josh ma racconta che fin dall'età di 4 anni si era resa conto di sentirsi una donna. I manuali la chiamano "disforia di genere", un disturbo che spesso scompare con il cambio di sesso. Carla e Doug Alcorn non accettavano che il figlio volesse intraprendere il percorso chirurgico e per questo Leelah, nella sua ultima lettera alla famiglia, lamenta di essere stata spinta al suicidio.

In una intervista alla Cnn, Carla Alcorn rivela di non aver cambiato idea: "La condizione di transgender è contraria ai nostri principii religiosi", ha spiegato continuando a parlare di Leelah al maschile: "Gli dicevamo che comunque lo amavamo moltissimo. Gli volevamo bene a prescindere. Amavo mio figlio. Era un ragazzo buono e gentile".

Il post di Leelah è stato letto decine di migliaia di volte e ha sollecitato l'intervento pubblico di personaggi celebri come Stephen Fry, attore britannico, e Mia Farrow. A colpire le coscienze sono soprattutto le ultime righe nelle quali l'infelice ragazza esorta a "cambiare la società" affinché le persone transgender "non vengano più trattate come sono stata trattata io".

Tuttavia la famiglia Alcorn sembra non voler garantire comprensione alla figlia nemmeno dopo la morte. Carla e il marito Doug hanno voluto spiegare le punizioni delle quali parla Leelah nel suo ultimo post: "Non avevamo soldi per un intervento chirurgico", hanno detto. E poi: "Abbiamo vietato l'uso dei social network soltanto perché Josh (Leelah, ndr) continuava a giardare materiale inappropriato".

 

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