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HUFFINGTON POST

Huffington Post
04 05 2015

Un toast al prosciutto cotto? Cinque euro. Un panino con le acciughe? Sei euro. Un caffè espresso? Un euro e cinquanta. Ovvero, rincarato di un terzo rispetto al prezzo di un comune bar italiano. Distributori di acqua potabile e gratuita che non funzionano. E i locali più “economici” quasi nascosti dai padiglioni e offuscati dai ristoranti delle grandi, celebri e proibitive catene di ristorazione.
Va bene che “il cibo è l’energia della vita”, come recita uno degli slogan dell’esposizione universale, però, più che a Expo 2015, “sembra di essere in via Montenapoleone”.

I cancelli di Rho Pero si sono spalancati ai visitatori il giorno dopo l’inaugurazione ufficiale finalmente scintillanti sotto il sole di maggio. L’aria è tiepida, la pioggia battente sembra ormai un ricordo. Terminate le cerimonie ufficiali e spariti vip di ogni sorta, oggi ad affollare i padiglioni espositivi sono soprattutto famiglie con bambini a seguito, provenienti da ogni parte del mondo, pronti a sperimentare piatti che arrivano da ogni angolo del pianeta e – soprattutto – le eccellenze italiane.

Tutto perfetto, se non fosse per una cosa. Prezzi stellari per panini e bevande e acqua (gratuita) quasi introvabile. E così, quella che dovrebbe essere l’occasione per far conoscere specialità da tutto il mondo, rischia di diventare l’ennesima trappola per turisti.

Come spiega bene Giacomo, bolognese, arrivato ad Expo insieme alla moglie e al figlio di cinque anni: “Tre piatti di pasta a dodici euro a testa. Più altrettanti contorni e il gelato. Abbiamo speso più di sessanta euro. A me pare francamente un po’ troppo”.

Se si vuole rinunciare al primo e puntare su un più frugale panino al volo, il risultato non cambia di molto. Perché un banale toast con prosciutto cotto costa cinque euro. Quattro euro, invece, il prezzo di una brioche salata con affettato.

“Abbiamo girato mezz’ora in cerca di un locale meno costoso – racconta Karen, israeliana – alla fine abbiamo optato per il chiosco belga che vende patatine fritte: 4 euro e 50 centesimi a porzione”.

In verità, piccoli locali più economici ci sarebbero. Che hanno persino ideato un menù fisso a prezzi più che abbordabili. Solo che sono talmente defilati rispetto al percorso principale che scovarli, per i visitatori, è difficile. Anche perché ad “eclissarli” ci hanno pensato le grandi catene di ristorazione, che occupano quasi interamente la strada maestra dell’esposizione.

Come Eataly, che si è aggiudicata gli spazi più grandi dedicati all’intera ristorazione di Expo, con 21 ristoranti che propongono le specialità regionali italiani. Prodotti certamente genuini ed eccellenti. Ma, mentre l’architettura e il design dei locali invitano ad entrare, i prezzi spaventano i visitatori. “Sei euro per un panino a me pare francamente troppo! - sbotta Francesca, maestra, che accompagna una classe di 17 studenti – la prossima volta faccio portare ai ragazzi il pranzo da casa”.

Proibitivi per i visitatori anche i prezzi per le bevande: un caffè espresso – che in un comune bar viene costa solitamente un euro – qui arriva a un euro e cinquanta. “Siamo ad Expo o in via Montenapoleone?”, scherza ma non troppo un uomo sulla cinquantina, mentre mette mano al portafoglio davanti alla cassa.

A salvare la situazione dovrebbe esserci, perlomeno, l’acqua potabile gratuita, offerta ai visitatori in 32 appositi chioschi self-service disseminati per l’intero Expo. Almeno, così era stato pubblicizzato. E dunque, chi scrive, è andato a cercarli. Peccato che, su tre chioschi scovati, due fossero già fuori uso. Con tanto di tecnici intenti a riparlarli.

Huffington Post
23 04 2015

Se questa non è magia Disney in azione, allora cos'è?

Kristina Bewley, madre originaria della Florida, ha iniziato a portare sua figlia Giselle a Disney World a settembre dello scorso anno. La piccola di 4 anni adora tutto ciò che è Disney, dalle principesse ai nuovi personaggi Pixar, come ha raccontato sua madre ad Huffington Post.

Giselle, bambina introversa e testarda, è affetta dalla Sindrome di Down e adora visitare Disney World indossando costumi cuciti a mano da sua madre. Mentre la piccola si diverte nel grande parco sua madre - fotografa professionista che lavora spesso con bambini diversamente abili - scatta foto di Giselle aggiungendo ogni tanto qualche effetto speciale. E i risultati sono spettacolari.

"Magia" è di certo la parola più indicata per descrivere l'effetto che il mondo Disney ha su Giselle. "Si esprime in maniera non verbale ma è facile capirlo da come si illumina quando arriviamo qui" - ha raccontato Kristina - "Per essere felice le basta passeggiare e salutare tutti quelli che incontra".

La famiglia Bewley ormai vista Disney World circa una volta al mese. "Ogni volta che veniamo qui, Giselle diventa un po' più sicura di sé. Dice le poche parole che si concede, e non è timida come al solito" - spiega la mamma, aggiungendo che lo staff del parco aiuta molto sua figlia ad uscire dal suo guscio. "Non è soltanto ottimo materiale fotografico, anche guardarla sbocciare vale da solo il prezzo del viaggio".

Kristina ha raccontato che crescere una bambina dai bisogni speciali le ha insegnato a "rallentare e godermi le piccole cose della vita". Mentre le altre famiglie corrono per visitare le attrazioni del parco, loro non usano più questo approccio: "Giselle non è così. Le piace passeggiare, annusare i fiori, guardare le anatre e incontrare nuovi amici".

Quello che la mamma spera è che le persone che guardano le foto di Giselle non si fermino alla sua disabilità, ma vedano "una bambina che si diverte tanto, godendosi la fase più innocente della vita" aggiungendo che "L'unico vero handicap nella vita è essere pessimisti".

"Non voglio che la gente veda solo la Sindrome di Down, perché è parte di lei ma non è tutto quello che è. C'è così tanto da vedere".

Qui sotto e sulla pagina Facebook di Kristina potete ammirare altre immagini tratte dalle avventure di Giselle nel mondo Disney.

Caroline Bologna

Huffington Post
17 04 2015

Veronica Bolina è stata torturata e sfigurata solo perché transessuale. La campagna in sua difesa è #SomosTodasVerônica 

#SomosTodasVerônica. Questo l'hastagh che sta mobilitando la rete in sostegno di Veronica Bolina, una transgender arrestata e aggredita. Le foto di lei con le mani legate, con il volto tumefatto, postate su Facebook stanno facendo il giro del mondo, indignando tutti. La donna, sospettata di aver tentato di uccidere il suo vicino di casa, è stata arrestata dalla polizia.

Dopo circa una settimana in carcere, sono apparse le immagini di lei brutalmente aggredita in carcere: Bolina, nuda, con i piedi e le mani ammanettate, il viso sfigurato dai tagli, circondata dalla polizia.

In un audio rilasciato dopo l'episodio Veronica nega di essere stata torturata dalla polizia, dicendo che "gli agenti avrebbero solo fatto il loro lavoro. Non mi hanno torturato. A ogni azione corrisponde una reazione. Hanno dovuto usare le loro regole per prendermi. E appena sono stata presa, non mi hanno torturata".

La polizia sostiene che Veronica sia stata aggredita da altri prigionieri dopo essere stata vista masturbarsi. Il profilo della transgender su Facebook ha diverse segnalazioni di persone che dicono di conoscere Veronica e che l'audio sarebbe un falso. Intanto l'aggressione sta diventando un caso.

Il bambino transgender e il regalo del suo papà

Huffington Post
16 04 2015

Il bambino transgender e il regalo del suo papà: questo video vi farà capire che l'amore non conosce diversità

Va a scuola con il suo vestitino viola. Si sente una bambina, anche se è un maschietto. Questo suscita lo stigma e la derisione da parte dei compagni: non ci fa troppo caso, ma fa male. Ma più male ancora fa lo sguardo severo del papà, quando a tavola lo vede giocare con i cavallucci alati, invece che con i robot, quando lo guarda dondolarsi davanti allo specchio con il suo vestitino da bambina, quando avverte la "diversità" di quel figlio nato nei panni sbagliati.

A comprendere solo la mamma, a proteggere la sua creatura dagli sguardi taglienti degli altri, dall'ostinata incomprensione del papà. Questo corto di HollySiz, si intitola "The light" ed è un occhio sulla diversità di genere, sulla capacità di capire la sofferenza di queste persone impossibilitate ad essere se stesse a causa di una società che non glielo permette. È un invito a capire che è la felicità di ognuno alla fine quello che conta, che non può prescindere dal sentirsi accettati. Come fa il papà sul finale, che di fronte alla tristezza e al mutismo del suo bambino, gli regala tutto il suo amore con un gesto che vuol dire "qualunque cosa ti faccia felice, fa felice anche me". Emozionante.

Linda Varlese

Huffingtonpost.it
15 04 2015

Ora che i riflettori si sono spenti, che altri orrori hanno conquistato le prime pagine, è il tempo giusto per raccontare di una tragedia che può sfociare in un’altra guerra. La quarta guerra di Gaza. Nulla è stato fatto. Gaza sta morendo. La comunità internazionale deve urgentemente cambiare il proprio orientamento e mantenere le promesse fatte all’indomani del cessate il fuoco che ha messo fine all’operazione Protective Edge. È questo l’appello lanciato da 46 agenzie umanitarie, tra le quali Oxfam, attraverso il rapporto Tracciare una nuova rotta: come superare lo stallo a Gaza.

Quel rapporto è un potente, documentato, j’accuse rivolto a chi si era assunto degli impegni e non li ha mantenuti. Lo scenario a Gaza resta drammatico, denunciano le 46 organizzazioni umanitarie. A sei mesi di distanza dalla Conferenza dei paesi donatori sulla ricostruzione nella Striscia, gli impegni assunti per lo stanziamento di 3,5 miliardi di dollari sono lontani dall’essere mantenuti: le condizioni di vita di moltissimi abitanti continuano a peggiorare, mentre ancora nessuna delle 19.000 case distrutte durante la guerra è stata ricostruita; 100.000 persone sono senza un tetto e molte altre famiglie vivono in scuole o ricoveri di fortuna.

Il rapporto denuncia come inevitabile la ripresa del conflitto, e con essa l’immancabile alternanza distruzione/ricostruzione finanziata dai donatori, se la comunità internazionale non affronterà le cause che lo determinano. I Paesi donatori devono esercitare una decisa pressione politica, onde ottenere tanto un cessate il fuoco permanente, quanto un’assunzione di responsabilità di tutte le parti, verso le continue violazioni del diritto internazionale.


Si deve arrivare al più presto alla fine del blocco imposto da Israele, che isola 1,8 milioni di palestinesi a Gaza, tenendoli separati dalla Cisgiordania, mentre la maggior parte dei Paesi donatori non lo contrasta, scegliendo piuttosto di aggirarlo. “Le promesse fatte durante la Conferenza dei donatori si sono rivelate parole vuote – afferma Winnie Byanyima, direttore generale di Oxfam International – Mentre la ricostruzione stenta a ripartire, non è ancora stato raggiunto nessun accordo per un cessate il fuoco a lungo termine e non vi è ancora un vero piano per la revoca del blocco su Gaza. Nonostante la comunità internazionale abbia definito imperativo un cambio di rotta, mantenendo lo status quo, non sta di fatto facendo nulla per evitare il riaccendersi del conflitto. Il rischio è che diventi nuovamente osservatore impotente di fronte allo scoppio di un nuovo conflitto che invece potrebbe essere evitato”.

“Dobbiamo garantire che il devastante conflitto della scorsa estate sia anche l’ultimo – spiega William Bell di Christian Aid – Ma non sarà possibile se non vengono sanzionate le continue violazioni che si stanno verificando. Permettendo questo stato di impunità, la comunità internazionale si troverà ben presto a raccogliere i cocci di una situazione in via di rottura”.

Ad oggi è stato stanziato solo il 26,8% dei fondi che i Paesi donatori si sono impegnati a fornire sei mesi fa, mentre nemmeno i lavori di ricostruzione già finanziati sono ancora iniziati a causa delle restrizioni imposte dal blocco israeliano, che impedisce l’ingresso ai materiali essenziali per la ricostruzione della Striscia. Mancano i fondi per la riparazione di più di 81 strutture mediche e ospedali danneggiati, e le poche strutture per le quali sono stati reperiti i fondi non hanno i materiali da costruzione necessari.

“Il mondo sta chiudendo occhi e orecchie davanti alla drammatica situazione in cui si trova la popolazione a Gaza, proprio nel momento di maggior bisogno - rileva Tony Laurance, amministratore delegato di MAP UK - La ricostruzione non può avvenire senza lo stanziamento di fondi, ma i soldi non sono sufficienti. Finché resterà operativo il blocco su Gaza far uscire gli abitanti da una vita di miseria, povertà e disperazione sarà impossibile”.

L’entrata in vigore del cessate il fuoco temporaneo non è infatti servita ad evitare che altri attacchi negli ultimi mesi colpissero i civili: si sono verificati più di 400 incidenti di fuoco israeliano a Gaza e quattro missili sono stati sparati da Gaza verso Israele. “Con questo nuovo rapporto lanciamo un appello affinché tutte le parti riprendano immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco permanente. Chiediamo che Israele ponga fine al blocco e alla politica di separazione di Gaza dalla Cisgiordania, e chiediamo la riconciliazione dei diversi soggetti politici palestinesi. Tutto questo per dare priorità alla ricostruzione – sottolinea Riccardo Sansone, responsabile emergenze umanitarie di Oxfam Italia - L’Egitto deve al più presto riaprire il confine con Gaza rendendo possibile l’ingresso nella Striscia degli aiuti umanitari. Chiediamo infine che anche l’Italia giochi la sua parte attivandosi con la massima urgenza presso le parti in conflitto e la comunità internazionale e facendo in modo che tali richieste trovino presto attuazione”.

A subire le conseguenze più devastanti di questo stallo sono i più indifesi: i bambini. “La nuova generazione di Gaza è traumatizzata, scioccata, brutalizzata - sottolinea Chris Gunness portavoce dell’Unrwa - Gli spazi dove giocano sono costellati da 8.000 ordigni inesplosi. Le Nazioni Unite stimano che circa 540 bambini sono stati uccisi durante il conflitto, molti nelle loro case. Unrwa non ha potuto dare un riparo sicuro a queste persone. Le nostre scuole sono state colpite direttamente in sette occasioni. I bambini sono morti nelle classi, e nei campi gioco sotto la bandiera blu dell'Onu. Praticamente tutti i bambini di Gaza contano un famigliare o un amico, ucciso, menomato o ferito durante il conflitto, spesso davanti ai loro occhi. Mille dei 3.000 bambini feriti durante il conflitto rimarranno disabili per il resto della vita”.

Dietro i numeri vi sono volti, storie, vite spezzate in tenera età. Ma questa solidarietà dal basso non può bastare. A ribadirlo è Robert Turner, direttore Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) delle operazioni a Gaza. Turner svela che la ricostruzione delle case danneggiate nell’intera Striscia di Gaza assediata da Israele è fuori il controllo dell’Unrwa, sottolineando che l’agenzia ha sospeso l’assistenza economica a migliaia di palestinesi a causa della mancanza di fondi, e continua a chiedere ai donatori di rispettare gli impegni per la ricostruzione di Gaza sottoscritti nell’ultima conferenza del Cairo.

“Non dobbiamo rendere la gente di Gaza un ostaggio a causa dell’attuale situazione politica che Israele sta ben sfruttando”, ha rimarcato Turner. Ma così è. Recentemente, i donatori sono riusciti ad ottenere un piccolo aumento nel flusso di materiali da costruzione in ingresso a Gaza, ma non sufficiente a rispondere ai bisogni della popolazione. Il rapporto non denuncia solo una situazione intollerabile, indicando responsabilità, silenzi, impegni disattesi, ma avanza anche proposte concrete, fattibili, alla comunità internazionale, necessarie a spezzare la spirale della violenza e distruzione in corso. Una “Road Map” della speranza. E di una solidarietà fattiva.

Queste le raccomandazioni: procedere immediatamente con la ricostruzione, erogando i fondi promessi e favorendo l’ingresso del materiale edile in accordo con il diritto internazionale; assicurarsi che ci sia assunzione di responsabilità di tutte le parti per violazioni del diritto internazionale, inclusi gli obblighi previsti nel Trattato sul Commercio delle Armi (TCA) relativamente all’uso di armi usate contro i civili in maniera indiscriminata e la richiesta di compensazione per la demolizione di progetti finanziati da donatori; mettere fine al blocco e riabilitare l’economia devastata di Gaza.

Il blocco israeliano ha determinato nella Striscia una situazione di totale dipendenza: l’80% della popolazione riceve aiuti internazionali e il 63% dei giovani non ha lavoro. Il volume delle esportazioni da Gaza è meno del 2% del livello registrato prima del blocco: il movimento di persone e beni tra Gaza e la Cisgiordania è di fatto inesistente.

Sostenere lo sviluppo di un governo palestinese unito. Nella fase di ricostruzione la leadership palestinese è apparsa a volte inefficace, non coordinata e ulteriormente ostacolata dalle restrizioni israeliane al libero movimento per i rappresentanti del governo. La separazione di Gaza dalla Cisgiordania ha aggravato la già problematica divisione tra Fatah e Hamas, con un enorme impatto negativo sulla fornitura di aiuti e servizi a Gaza.

Ma Gaza non è solo una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo. Gaza è anche voglia di vivere, di sognare una vita normale. Tra le macerie la vita continua: si lavora, si gioca, si va al mare. Un piccolo gruppo di uomini, ragazzi e ragazze trovano una fuga temporanea facendo surf nella striscia di terra che cinge il mare. La voglia di normalità è anche il Gaza Surf Club. Si balla sotto i portici di case sgretolate e in salotti a cielo aperto liberati ormai dalla paura di crollare definitivamente.

Guardare al futuro è anche realizzare impianti d’avanguardia, qual è l’ ospedale 100% solare costruito a Gaza. Il Jenin Charitable Hospital, che riceve energia grazie a un impianto fotovoltaico sul tetto della struttura ed è operativo dal novembre scorso, è stato progettato e realizzato dall'Ong Sunshine4Palestine (S4P). L'impianto consente al nosocomio di essere autonomo, dal punto di vista energetico, per 17 ore al giorno e di servire un bacino di 200mila persone, quelle del quartiere di Shijajia, uno dei più poveri e martoriati dagli attacchi di luglio e agosto 2014.

La vita è anche arte. Alcune delle macerie di Gaza hanno preso vita grazie all'incursione in incognito del noto writer britannico Bansky. L'artista ha dipinto quattro nuovi murales e girato un video che ironicamente s'intitola “Scopri una nuova destinazione quest’anno” in cui ha documentato la situazione di Gaza dopo l'ultima offensiva israeliana della scorsa estate. Il primo graffito, ispirato a «Il pensatore» di Auguste Rodin, è stato realizzato sui resti di un muro e si intitola “Bomb damage”, in un altro si vedono dei bambini su una giostra e nel terzo una gatta con un vistoso fiocco roso al collo che «dice al mondo che si sta perdendo tutto il bello della vita». Infine una scritta di colore rosso su un muro bianco in cui l'atteggiamento di fronte al conflitto fra Israele e palestinesi viene sintetizzato così: “Se ci disinteressiamo del conflitto tra i forti e i deboli, ci mettiamo dalla parte dei forti, non siamo neutrali”. Anche questo è Gaza. Fantasia, dignità, orgoglio, voglia di vivere.



Huffington Post
10 04 2015

La sentenza della Cedu sui fatti della Diaz ha sancito che è stata fatta tortura in danno di cittadini inermi. Nel nostro paese cosa accadrà? Temo nulla. Nessuno pagherà per quest'onta. Nessuno pagherà per quel sangue versato. Nessuno pagherà per tutto quel dolore inflitto. Quando è il potere a sbagliare ed a sbagliare in quel modo nulla accade. Il massimo che si può ottenere è il riconoscimento europeo della responsabilità dello Stato nel quale però nessuno si identifica e taluni si nascondono.

Quale è la risposta del nostro legislatore alla sentenza della Corte europea? Una legge sulla tortura, finalmente, che però è talmente complicata e farraginosa che, leggendo il commento del professore Francesco Viganò dell'Università di Milano, non riuscirebbe a far condannare per questo reato nemmeno gli stessi torturatori della Diaz.

Se dovesse pertanto essere applicata a quel processo questa legge nuova, quegli stessi imputati e condannati per altri reati minori prescritti, potrebbero vantarsi di non aver commesso alcuna tortura. Io mi auguro che il professore Viganò si sbagli.

Ma io, leggendo da semplice cittadina mi chiedo: chi picchia, chi umilia, chi uccide, perché deve essere condannato per tortura solo se si prova che lo ha fatto per determinati motivi piuttosto che per altri? Perché occorre dimostrare che lo ha fatto con compiacimento intimo e non è sufficiente invece riconoscere che lo ha fatto solo consapevolmente?

Non voglio parlare di mio fratello, per il quale non si è nemmeno stati capaci di sapere chi lo ha picchiato riducendolo in quelle terribili condizioni, figuriamoci se si fosse dovuto accertare il motivo psicologico di quello scellerato massacro, per arrivare alla condanna dei responsabili.

Voglio parlare di Francesco Mastrogiovanni. Il maestro elementare di Vallo della Lucania che durante un Tso è morto perché legato ad un letto per oltre novanta ore senza mangiare né bere.

Bene invito tutti a guardare il video della sua terribile morte, filmata minuto per minuto. A quella morte non si potrebbe sicuramente applicare questa legge. Quindi non sarebbe tortura.

Chissà che ne penserebbero i giudici della Corte europea.

Purtroppo siamo forti con i deboli e deboli con i forti.

Ilaria Cucchi

Huffington Post
09 04 2015

Afghana violentata e arrestata per adulterio costretta a sposare il suo stupratore: Gulnaz è prigioniera della società

Una donna afghana che è stata stuprata dal marito di sua cugina e di conseguenza è stata arrestata con l'accusa di adulterio si è sposata col suo assalitore ed ora è in attesa del terzo bambino di cui lui è il padre.

La donna, conosciuta solo con il nome di Gulnaz, ha raccontato alla CNN la sua straziante situazione insieme al suo marito-stupratore Asadullah e alla sua figlia più giovane, seduta vicino a lei a Kabul in Afghanistan.

La donna racconta di essere stata assalita da Asadullah quando aveva 16 anni e lui era già sposato, venendo in seguito arrestata per "adulterio forzato" - crimine per cui in Afghanistan è prevista una pena di reclusione pari a 12 anni - e costretta a partorire in carcere la bambina che era stata concepita durante lo stupro.

Per sua fortuna è stata liberata grazie ad un decreto presidenziale ma, uscita di prigione, ha creduto che l'unico modo in cui potesse reintegrarsi nella società afghana fosse sposare il suo stupratore.

"Non volevo rovinare la vita di mia figlia o lasciarmi senza aiuti, quindi sono stata d'accordo e l'ho sposato" ha raccontato alla CNN "Siamo persone tradizionaliste. Quando la nostra reputazione è rovinata, preferiamo morire piuttosto che portare l'onta di quello che è successo vivendo in società".

Adesso dichiara di "non avere alcun problema" con Asadullah e, nonostante non abbia rivolto lo sguardo una singola volta al marito durante l'intervista, dice di "essere felice".

"Non ho problemi con lui ora e non voglio pensare ai problemi del passato. La mia vita è ok. Sono felice che la mia vita, [...] stia andando avanti. Ho rotto le relazioni con la mia famiglia solo per dare un futuro a mia figlia".

Kimberley Motley, ex-avvocato di Gulnaz, ha raccontato che tutto questo è successo poiché la donna ha ricevuto forti pressioni da parte di alcuni membri del governo che l'hanno spinta al matrimonio.

"Gulnaz si è sentita dire in continuazione che né lei né sua figlia avrebbero ricevuto protezione se si fosse rifiutata di sposarlo... È diventata praticamente una prigioniera della società.

In quanto donna single ineducata ed abbandonata dalla famiglia, per Gulnaz e sua figlia la sopravvivenza sarebbe stata una strada in salita".

Asadullah, al contrario, dichiara durante l'intervista di averla aiutata col suo gesto:

"Se non l'avessi sposata, secondo le nostre tradizioni, non sarebbe potuta tornare a vivere in società - ha detto - I suoi fratelli non volevano accettare il suo ritorno a casa. Ora non ha nessuno di questi problemi".

Huffington Post
03 04 2015

Scuola, i compiti delle vacanze della maestra Margherita. "Gioca all'aria aperta, dormi tanto e prenditi cura degli altri"

“Fai delle belle dormite riposanti, pisolini compresi”. “Se il tempo è bello, non stare chiuso in casa: esci e gioca all’aperto”. “Passa tutto il tempo con i tuoi genitori”. “Se hai dei nonni, fatti raccontare le storie di quando erano piccoli: sono divertenti e loro saranno felici di parlartene”. E ancora: “Se fai un piccolo viaggio non giocare tutto il tempo ai videogames: guarda il paesaggio, leggi i cartelli lungo la strada e segna sul quaderno di italiano o su un taccuino i luoghi che visiti”. Sono decisamente fortunati i bambini della scuola elementare di Copparo, nel ferrarese, che hanno ricevuto questa lista di compiti a casa. L’idea di rompere lo schema tradizionale dei “compiti delle vacanze” per dare ai propri alunni dei preziosi consigli è di Margherita Aurora, maestra quarantenne di Copparo.

Prima delle vacanze, racconta il quotidiano locale La Nuova Ferrara, la maestra Margherita ha distribuito agli allievi di seconda elementare un decalogo con insoliti compiti a casa. “La sera, prima di dormire, fatti leggere una storia o un bel libro a puntate”, recita il compito numero 5. “Gioca in allegria con fratelli, cugini e amici, senza dimenticare di avere rispetto e pazienza”, si legge al punto 6. E ancora: “Cerca di guardare la tv il meno possibile. In alternativa fai un disegno, lo appenderemo in classe al ritorno”; “Se hai animali domestici, curali con attenzione e gioca tanto con loro”. Infine, l’unico compito tradizionale: “Martedì, ultimo giorno di vacanza, ripassa le tabelline da 0 a 5 ripetendole ad alta voce. Inoltre, controlla con cura l'astuccio e la cartella così da tornare a scuola ordinato e pronto al lavoro in classe”.

“Faccio questo lavoro da vent’anni – ha spiegato la maestra Margherita alla Nuova Ferrara - ed è da tanto tempo che pensavo alla “svolta”. I miei alunni non dovranno stare con le mani in mano, anzi, avranno tanto da lavorare. E sono certa che il loro impegno sarà massimo perché i bambini, tutti, sono diligenti e responsabili e loro per primi hanno capito che si tratta di compiti veri e propri”.

Huffington Post
02 04 2015

Gabriela Moreira, giornalista brasiliana dell'emittente sportiva ESPN, zittisce in diretta un tifoso omofobo sgridandolo perché ha apostrofato gli avversari come "gay".

Ci troviamo in Brasile, di fronte allo stadio Palestra Itália poco prima dell'incontro di calcio che vedrà contrapposti Palmeiras e San Paolo. L'inviata si trova davanti ad un tifoso della squadra di casa, e gli chiede cosa ne pensi del match in procinto di iniziare. La risposta del ragazzo lascia l'inviata di stucco.

"Buonasera, mi chiamo Felipe. Oggi contro i gay vogliamo vincere, 2 a 1, dobbiamo vincere!"

La giornalista prontamente interviene: ""Ragazzo, non so se vuoi vincere... ma no all'omofobia. Quanti anni hai, 25? Ecco, prova a modernizzare il tuo pensiero".

Il presentatore John Carlos Albuquerque, dallo studio tv, elogia la collega per il suo pronto intervento commentando: "Il ragazzo è disinformato".

La storia di Gabriela ricorda molto l'intervento di Rima Karaki, la giornalista che interruppe in diretta il collegamento con un eminente Imam, anche se quella volta non si trattava di omofobia ma di discriminazione nei confronti delle donne.

Huffington Post
30 03 2015

Qualche giorno fa rimettendo a posto cassetti e documenti, mi sono accorto che non trovavo più la carta d'identità e che il mio passaporto stava scadendo, dovevo muovermi subito, anche perché tra un po di giorni, dovrei ritornare a Dublino come faccio spesso e sta volta per restare più possibile vicino a Edu. Lui lì ha una occupazione fissa, io qua a Roma sono freelance e rinunciare a qualche lavoro per favorire il nostro progetto di condividere le nostre vite, lo faccio con amore e spirito di coppia, perché essere in coppia richiede anche alcune rinunce.

Entrando nella caserma dei Carabinieri vicino casa per denunciare lo smarrimento della Carta d'identità, fui accolto da un appuntato che mi scortò nell'ufficio del Maresciallo. Dietro la scrivania mi attendeva un omone dall'aspetto curato.

Lo avevo già visto diverse volte per le strade del quartiere e lui aveva visto me. Iniziai a dargli le mie generalità, nome, cognome ecc ecc, alla domanda "Stato civile?" risposi con tono leggermente polemico "teoricamente sarei sposato, ma non in Italia". Lui, intuendo al volo la situazione rispose "Posso capire come ti senti, purtroppo per lo Stato italiano sei celibe".

Dissi velocemente "Si, è ok!" per chiudere il discorso... Ma lui sentì il dovere di aggiungere parole di conforto, si alzo dalla scrivania e poggiandosi sullo schedario metallico alle sue spalle mi disse che trovava assurdo che il diritto al matrimonio lo avessero tutti, addirittura i mafiosi e i corrotti, ma non i gay.

Mentre proseguiva parlando di onestà e senso civico, si aggiunse alla conversazione anche un altro carabiniere, un giovane laureando in giurisprudenza dalle spalle larghe e gli occhi attenti che aggiunse "Lo Stato dovrebbe garantire ai propri cittadini pari dignità e pari diritti, se tu sapessi quante leggi sono state fatte per contrastarne altre e quanti vuoti legislativi sono lasciati alla libera interpretazione, capiresti che il lavoro da fare è enorme, ma chi dovrebbe arrotolarsi le maniche... continua a non farlo".

Dopo un paio di giorni, mi sono recato alla Questura per il rinnovo del passaporto. In un ufficio dall'arredo consumato, mi ritrovai seduto di fronte ad una poliziotta con un camice bianco e dai modi gentili. Mentre poggiavo sulla vecchia scrivania foto e marche da bollo, lei iniziava come da routine a compilare la scheda con i miei dati... "Stato civile?" risposi senza pensarci troppo "Sono sposato in Irlanda... ma scriva pure celibe" mi sorrise e mentre mi prendeva le impronte digitali aggiunse "Vedrà, che al prossimo rinnovo sarà un uomo sposato anche per l'Italia"... "Al prossimo rinnovo, sarò anziano e avrò già vissuto quasi tutta la mia esistenza!" mi fissò e piegando leggermente la testa aggiunse sinceramente "Le auguro tanta fortuna". Il suo sguardo dolce e imbarazzato mi seguì fino a che superata la porta e svoltato l'angolo, uscii definitivamente dal suo capo visivo.

Cosa ho che non va per questo Stato? Cosa mi rende e rende noi omosessuali italiani meno degni dei criminali? Pago le tasse e quando mi chiedono di più di quello che guadagno, mio marito lo paga per me, do il mio 8 per 1000, faccio beneficenza e lascio il posto a sedere alle anziane sulla metro. Ma anche fossi un nulla facente e nulla tenente, cosa mi rende meno degno e meritevole del mio vicino di casa? "Scopo della civiltà, non è il progresso della scienza e delle macchine, ma dell'uomo". E allora, senza più ipocrisie, vorrei che sopra i miei documenti fosse scritto chiaro e leggibile una volta per tutte "Stato Incivile: Celibe".

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