Huffington Post
27 03 2015
Gian Luigi Gigli, deputato Pdl e presidente del Movimento per la Vita, interviene su Avvenire osteggiando la legalizzazione dell'eutanasia. Tra le altre cose parla di confusione dei difensori dell'autodeterminazione, tra persona malata terminale e persona con gravi disabilità, tra sofferenza fisica (che definisce "molto raramente incontrollabile") e psichica. Dice anche che nessuno tra i sostenitori del controllo dell'eutanasia clandestina parla di appropriatezza delle cure e di assistenza.
Da questo breve resoconto, io che coordino la campagna "Eutanasia Legale" all'interno dell'Associazione Luca Coscioni - quindi all'interno di un quadro molto più articolato di iniziative a difesa dei diritti della persona malata -, deduco che Gigli non conosca né quello che proponiamo, né l'attività della nostra organizzazione.
Aggiornamento del nomenclatore tariffario, libertà della ricerca scientifica, promozione della qualità della vita delle persone disabili attraverso forme di autogestione dell'assistenza, diffusione del modello clinico "rianimazione a porte aperte", attuazione della "Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 2006", eliminazione delle barriere architettoniche, rimozione degli ostacoli burocratici alla prescrizione, già legale, dei derivati della cannabis a uso terapeutico. Questi sono solo una parte degli obiettivi che ci siamo dati per l'anno 2015. Ma se anche tutto ciò che proponiamo noi e il Movimento per la Vita fosse attuato, ci possiamo illudere che spariscano le richieste di "morte opportuna", come la chiamava Piergiorgio Welby?
I dati che su questa testata ho già esposto (qui e qui) dimostrano il contrario. Un residuo di richieste eutanasiche permarrebbe. L'atteggiamento di chi come Gigli si scaglia contro la libertà di autodeterminazione della persona, assumendo uno spirito paternalista che credevamo superato, invece di rimuovere gli ostacoli punta piuttosto a eludere un fenomeno. La situazione attuale, seppur migliorabile, è quindi evidentemente per lui quella ottimale: la clandestinità delle scelte di fine vita.
La nostra proposta è diversa e punta, come per ogni fenomeno, a regolarlo per controllarlo, non a far finta che non esista.
Legalizzare l'eutanasia significa indurre le persone che ne vogliano usufruire a entrare in un percorso di medici, psicologi e accompagnatori che cercheranno fino all'ultimo momento di mostrargli le alternative possibili. Continuare a prevedere l'eutanasia come reato significa invece non entrare in contatto con queste persone, abbandonandole al suicidio privato anche quando delle alternative per loro sarebbero state possibili. Il 46% degli italiani si suicida per cause di malattia. Quante persone si potrebbero salvare se solo potessero entrare in un percorso fatto di specialisti? Sicuramente non tutti, una parte comunque opterebbe per l'eutanasia. Ma, a dircelo sono i dati svizzeri, una grossa fetta di loro rinuncerebbe.
Matteo Mainardi
Huffington Post
19 03 2015
Marinella dice che la prima volta non è riuscita a trattenere le lacrime. Ha pianto quando è tornata a casa.
“È stata l’esperienza che più mi ha impressionato nella vita” racconta, e per avere la giusta misura del commento bisogna aggiungere che Marinella, 42 anni, dipendente dell’Università di Torino, ha avuto anche altre esperienze ad alto impatto, ha lavorato col Gruppo Abele e in comunità che si prendono cura dei bambini con disagi famigliari. Ha spalle forti e voglia di capire.
“Il volontariato fa parte della mia vita. Mio figlio, 16 anni, mi ha chiesto perché lo facevo. A lui e a tutti rispondo che lo faccio perché non voglio giudicare. In carcere incontro donne come me, che hanno avuto una vita diversa solo perché hanno scelto altre strade, altre amicizie o forse non hanno avuto nessuno che le ha aiutate veramente. Sono donne che hanno paura, paura di tutto: anche solo di prendere un pullman nel giorno di permesso”.
Marinella entra in carcere due volte al mese con Fumne - così in piemontese si chiamano le donne -, un progetto unico nel suo genere perché sposta l’asse dell’integrazione: qui sono le detenute a insegnare un lavoro. È un laboratorio, ma soprattutto un processo di riconciliazione con chi vive fuori dalle mura.
Sara Battaglino ci racconta come è iniziato tutto. Lei e Monica Gallo sono architetti con la passione della moda e del mondo fashion. Invece di aprire un negozio o di dedicarsi allo shopping hanno messo su una associazione culturale – La casa di Pinocchio - e sono entrate in carcere, nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino : hanno dato la possibilità alle detenute di imparare un lavoro e di insegnarlo ad altri.
“Il laboratorio all’interno del carcere è come un ambiente di vita, e non un luogo di insegnamento e di ricezione passiva. È organizzato come un atelier. Dal carcere escono borse, accessori e bijoux realizzati con pezzi e stoffe riciclate. Le detenute escono da uno stato di ozio e inattività all’interno della cella e in gruppo iniziano a fare, a creare, a inventare, ad assemblare. Hanno una piccola fonte di guadagno e per loro non è una cosa da poco. Apprezzano il fatto di avere rispetto, reputazione e una nuova opportunità di vita. Forse all’inizio sono un po’ intimorite, ma dura poco. Poi acquistano una grande sicurezza e anche coraggio nel affrontare il mondo che c’è fuori”.
“Nascono delle amicizie, ci si confronta e ci si aiuta. Mi ha colpito molto una donna”, è di nuovo Marinella a parlare: “Quando l’ho vista era tutta contenta per il giorno di permesso che aveva avuto. Era riuscita a vedere l’edicola: non si ricordava più come erano fatte. Ed era riuscita a bere un cappuccino vero, un cappuccino fatto al bar. Come fai a non rivalutare la tua vita dopo racconti così”.
Da fuori spesso ci si domanda come sono le donne che vivono in carcere. “Ecco io rispondo che sono donne che vanno aiutate. Anche se a volte è difficile perché ti trovi davanti persone che hanno commesso delitti. Mi è successo, ero combattuta, avevo letto di questa donna sul giornale. Aveva ucciso. Ma mi sono detta che dovevo distaccarmi da quello che aveva fatto e vedere solo la persona che avevo di fronte. Le sue parole non le dimentico, mi ha detto: io me lo merito di stare qua dentro, ma vorrei starci con dignità”.
Oltre al Lab, Fumne è anche un brand etico e sociale venduto in tutta Italia e anche in Francia, Giappone, Grecia e Australia.
Nicoletta Moncalero
Huffingtonpost
18 03 2015
Il grosso della delegazione italiana a Francoforte è stato circondato dalla polizia tedesca nei pressi della nuova sede della Bce, l’epicentro delle proteste organizzate in occasione dell’inaugurazione del nuovo palazzo. Si tratta di centinaia di attivisti delle reti ‘Global’ e ‘Social Strikers’, i quali a novembre in Italia diedero vita alla prima giornata di sciopero dei precari, lo ‘sciopero sociale’.
Questa mattina, dalle 6.30 alle 8, erano in circa duemila a bloccare le vie principali di accesso al palazzo della Banca Centrale, insieme ai tedeschi della ‘IL’ (Interventionistische Linke). E dopo sono stati circondati per gruppi di centinaia di persone dalla polizia, che li sta identificando. A niente è valso l’intervento del parlamentare italiano di Sel Nicola Fratoianni e dell’Europarlamentare della Lista Tsipras Eleonora Forenza che hanno cercato di negoziare il rilascio dei manifestanti con le forze dell’ordine in servizio in piazza e anche prendendo contatti con il consolato italiano a Francoforte e con la Farnesina. Sul posto sono presenti anche alcuni parlamentari tedeschi della Die Linke.
La polizia insiste a voler identificare gli attivisti uno per uno. E i manifestanti rispondono sedendosi sull’asfalto, per rallentare le operazioni. Contestano il fermo perché, spiegano, i blocchi della mattina si sono svolti in forma pacifica, anche se sono stati dispersi dagli idranti della polizia. Comunque, si sono svolti lontano dalle azioni incendiarie portate a segno da altri gruppi a danno di alcuni commissariati di polizia, con il ferimento di alcuni agenti. Sostanzialmente, sostengono gli attivisti italiani fermati in piazza, il ‘blocco nero’ ha agito da un’altra parte e non con il gruppo circondato dalle forze dell’ordine nei pressi della nuova ‘Eurotower’. "Io li ho accompagnati ai blocchi della mattina. Posso confermare che sono stati pacifici", dice il deputato di Sel Fratoianni all'Huffington Post.
Le manifestazioni di oggi sono state organizzate da diverse reti europee anti-austerity, reti di precari, ma anche sindacati organizzati. Tutti insieme daranno vita ad un corteo nel pomeriggio, al quale partecipa anche una delegazione della Fiom.
Huffington Post
18.03.2015
Diego Raggi, il fratello del ragazzo ucciso a Terni da un uomo di origine straniera, al termine del funerale ha regalato un mazzo di fiori ad alcuni immigrati presenti alla cerimonia. Poi, rivolgendosi alla gente che gremiva la chiesa, ha chiesto: "Adesso ditemi, quanto odio razziale c'è ancora nei vostri cuori?".
La famiglia di David Raggi, assassinato con un pezzo di vetro senza un vero movente, sta ricevendo in queste ore messaggi di apprezzamento ma anche insulti e minacce per aver chiesto di non associare l'uccisione del figlio alla presenza di migranti nelle città italiane. A poche ore dall'omicidio, il padre aveva chiesto di non alimentare il razzismo e per questo ha ricevuto anche l'encomio della presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha telefonato personalmente ai genitori.
Secondo quanto riferito dalla Boldrini, il padre Valter ha chiesto "giustizia ma non vendetta":
Per espressa volontà della famiglia Raggi, alla cerimonia funebre ha partecipato anche un imam del centro islamico di Terni.
"David era un giovane generoso, amante della vita, che con la sua testimonianza, insieme a tanti giovani, contribuiva a purificare l'aria della nostra città dai virus che favoriscono violenza, insicurezza, intolleranza, razzismo" ha detto il vescovo di Terni, padre Giuseppe Piemontese, durante l'omelia. Mons Piemontese è tornato sull'esempio di tolleranza della famiglia Raggi, esortando a "non toccare Caino": "La soppressione dell'altro nasce dal fatto che non viene accolta la diversità. Caino frustrato non accetta Abele gratificato. L'omicidio nasce dall'uomo che accetta solo se stesso e altri uomini come se stesso".
Huffington Post
13 03 2015
Bello calendar, il primo calendario al mondo realizzato dalle donne sfregiate con l'acido che non hanno rinunciato a combattere
Sonia Chowdhary voleva acquistare un cellulare e aveva chiesto aiuto al suo vicino di casa. A sua insaputa, Anurag gliene procurò uno rubato e glielo consegnò. Quando, qualche giorno dopo, la polizia si presentò a casa sua, Sonia raccontò la verità, e il ragazzo finì in prigione per una notte. Una volta uscito di lì, pretese da lei delle scuse ma Sonia si rifiutò. Tanta ostinazione le costò cinque litri di acido sul volto e il 55% della superficie del corpo sfigurata.
Chanchal e Sonam hanno anche loro il volto sfregiato dall'acido. In realtà, il bersaglio dell'aggressione era solo Chanchal, ma la sorte ha voluto che la sorella minore fosse con lei quando Anil, aiutato da un gruppo di altri uomini, decise di punirla per averlo respinto più volte. Dolly, invece, aveva solo 13 anni quando il suo vicino andò, come d'abitudine, a trovarla a casa. Fu la madre stessa ad aprirgli la porta, lui le aveva detto che aveva un regalo per la figlia: una bottiglia di acido da rovesciarle addosso per essere stato bruscamente respinto, alcuni mesi prima, dalla ragazzina di cui si era invaghito e che aveva continuato a frequentare da amico covando rancore e meditando vendetta.
Queste ragazze, sopravvissute alla violenza dei loro aguzzini, sono alcune protagoniste di "Bello Calendar", il calendario realizzato per il 2015 dall'associazione no-profit Chhanv Foundation, che si occupa della riabilitazione delle vittime di aggressione. Un tentativo per sensibilizzare il mondo su una realtà atroce, per ottenere maggiori tutele per tutte le donne. In India ogni settimana, cinque donne sono vittime di simili violenze. I casi all'anno sono oltre mille.
"Il nostro intento è mostrare che nonostante le ferite fisiche e morali, anche queste donne hanno dei sogni" racconta Rahul Saharan, uno dei fotografi che hanno preso parte al progetto "e dire loro che sono belle".
Il calendario fa parte della campagna "Stop Acid Attacks" e può essere acquistato online a partire dal 13 marzo.
Silvia De Santis
Huffington Post
12 03 2015
Cari liceali del 21esimo secolo,
la prossima settimana inizierà un nuovo semestre e sento di dover porgere le mie scuse. Nonostante i nostri sforzi, noi insegnanti non siamo riusciti a convincere chi ci governa che investire sull'educazione porterebbe benefici a tutti senza produrre, a differenza di altri investimenti, l'inquinamento dell'acqua e dell'aria.
Quindi, fin quando interessi più grandi avranno la meglio sui vostri bisogni, accettate le mie scuse.
Mi dispiace che dobbiate arrivare a scuola prestissimo, tutti i giorni, nonostante le neuroscienze indichino che il cervello di un adolescente non funziona al meglio prima delle 10.
Mi dispiace che dobbiate chiedere il permesso per uscire dall'aula e per andare in bagno anche se avete già la patente o un lavoro part-time, anche se state già decidendo del vostro futuro.
Mi dispiace che dobbiate stare seduti per cinque o sei ore al giorno, nonostante le ricerche abbiano reso noti gli effetti negativi che questo comporta sulle capacità cognitive e sulla salute.
Mi dispiace che siate divisi per età malgrado l'età biologica non abbia nulla a che fare con le capacità intellettuali, la maturità e le abilità di ciascuno.
Mi dispiace che molti di voi abbiano difficoltà a pagare gli studi e non ricevano alcun supporto perché le vostre esigenze non rientrano nei piani economici del governo.
Mi dispiace che dobbiate studiare materie che non vi interessano, in un momento storico in cui l'insieme delle conoscenze umane cresce ogni 12 mesi.
Mi dispiace che crediate di dover competere per ottenere i voti migliori, mentre l'intero progresso umano si deve alla collaborazione (che a scuola equivale a "copiare").
Mi dispiace che abbiate libri di testo superati e strumentazioni tecniche obsolete.
Mi dispiace che il cosiddetto "apprendimento personalizzato" non abbia nulla di personale, forse perché costerebbe troppo, capite?
Mi dispiace che, nonostante tutta la pubblicità (che rientrava nel piano del governo), la cosiddetta Innovation Strategy (misura del governo della Columbia Britannica) tanto annunciata, non porterà alcun cambiamento, ma solo a nuovi modi di "classificare" ciò che fate a scuola.
Soprattutto mi dispiace che il sistema educativo sia costruito in funzione della vostra partecipazione a un'economia 'estrattivista', mentre il nostro ambiente (senza il quale non ci sarebbe alcuna economia) subisce stravolgimenti climatici che produrranno trasformazioni sul piano sociale, politico, e anche economico, per i quali non sarete minimamente preparati.
Mi dispiace tanto.
Vorrei che la vostra curiosità non fosse schiacciata dal conformismo dei programmi scolastici.
Vorrei avere una bacchetta magica per donarvi una scuola con spazi nei quali esplorare, sperimentare ed apprendere in nuovi modi.
Vorrei avere il potere di riaccendere in voi quella voglia di imparare che c'era nei vostri occhi durante i primi giorni di scuola.
Vorrei aiutarvi a ricordare che, prima di essere studenti, eravate dei piccoli scienziati, con tanta voglia di sperimentare, scoprire, fare domande, stabilire connessioni.
Eravate anche dei piccoli poeti... ricordate la meraviglia degli adulti quando vi sentivano descrivere il mondo intorno a voi?
Siete nati per imparare, non potete evitarlo.
Mi dispiace che vi facciano pensare che gli unici insegnamenti che contano siano quelli ricevuti a scuola, che importi solo quello che si impara in una classe. E non conta neanche tutto ciò che vi insegniamo, ma solo gli argomenti delle verifiche e dei compiti in classe.
Vorrei portarvi in quei paesi dove l'educazione è una priorità, che credono che il loro futuro dipenda dal futuro del sistema educativo.
Oggi l'ingegno riesce a risolvere quasi tutti i nostri problemi e noi, invece, stiamo sprecando la vostra capacità di trovare soluzioni creative. L'adolescenza è il momento della vita in cui l'essere umano raggiunge il picco dello sviluppo cognitivo. Ovunque ci sono prove della vostra capacità di pensare fuori dagli schemi e "creare" soluzioni.
Vorrei che chi governa potesse vedere tutto questo e vi desse una possibilità. Magari...
Cordialmente,
Un insegnante.
Lizanne Foster
Blog e immagini sono state pubblicate da The Huffington Post Usa. Il post è stato tradotto dall'inglese da Milena Sanfilippo
Huffington Post
12 03 2015
Io a uno che mi disse: "Stai zitta fighetta" lo menai proprio. Si chiamava Federico era poco più grande di me, che all'epoca avevo 20 anni, ed era un prepotente, e a me i prepotenti hanno sempre dato parecchio daffare.
Non credo di avergli fatto molto male, almeno fisicamente (gli ho tirato giusto un pugno sul naso), devo averne però ferito parecchio il virile orgoglio, perché dal giorno dopo sparì dalla circolazione e noi ragazze del collettivo femminista non ne sentimmo affatto la mancanza. E del resto è impossibile provare rimpianto per un uomo che ci vorrebbe ridurre al silenzio per il solo fatto di essere donne.
Federico comunque non era un barbuto mullah, un filosofo musulmano e non aveva la testa coperta da un turbante. Era uno studente universitario italianissimo, parlava con accento del Nord, ed era ateo se non addirittura miscredente e mangiapreti (all'epoca lo eravamo un po' tutti...).
Insomma non era un retrogrado e barbaro incivile. Era un ragazzo normale. Non pensava che la terra fosse piatta e gli piacevano le ragazze in minigonna. Purché non si azzardassero ad aprire bocca quando si discuteva di politica.
Di Federico in vita mia ne ho incontrati molti altri (ma non ne ho più menato nessuno, anche se mi mandavano il sangue al cervello e mi facevano stringere i pugni dalla rabbia) e quasi mai erano uomini ignoranti o stranieri.
Ho incontrato un manager che dava la scalata alla politica, non riuscendo però a conquistarne la vetta, che durante una discussione su un comunicato stampa mi urlò in faccia "Le donne come te sono buone solo per essere messe in vetrina in un sexy shop di Amsterdam. Stai zitta". Ovviamente zitta non ci sono stata e gli ho spiegato che le donne come me i maschi come lui se li mangiano e con le ossa che avanzano ci si puliscono gli interstizi dentali.
Ho incontrato un altro politico, dell'avversa fazione del precedente, che in cambio di un posto di lavoro mi chiedeva di inginocchiarmi all'altezza del cavallo dei suoi pantaloni. Sono stata a lungo disoccupata, fieramente disoccupata.
Ho incontrato un collega che pensava che le donne come croniste di nera non valessero mezza tacca. Mi sono premurata di fargli cambiare idea un articolo dopo l'altro.
Ho incontrato, in una città del Sud, un uomo che stava menando una donna. Mi sono buttata in mezzo e ho rimediato uno spintone e un: "fatti gli affari tuoi, siete tutte le stesse puttane". Gliene ho dette talmente tante e urlando tanto forte che alla fine sono arrivati i carabinieri e lo hanno portato via. Ah, quest'uomo non parlava con l'accento del Sud, ma dondolava le vocali in un veneto perfetto.
Devo averne incontrati anche altri, ma ora sfuggono alle maglie un po' allargate della memoria. Non mi sfugge però quel signore di Algeri seduto su una seggiola impagliata che vedendomi in difficoltà, mezza aggrovigliata in un foulard che non ne voleva sapere di starsene fermo sulla mia testa, si alzò e, dopo avermi chiesto in come poteva aiutarmi, mi sistemò meglio quel fazzoletto spiegandomi come fermarlo e aggiungendo: "signora, non si preoccupi di coprirsi i capelli, non ha l'obbligo di farlo e nessuno di noi si sente offeso se li mostra".
Non mi sfugge nemmeno il ragazzo marocchino che rideva come un matto davanti a me che inciampavo nella mahlifa (un lungo velo che usano le donne Saharawi) e finivo lunga e stesa con la faccia sulla sabbia del deserto, mi dava la mano per farmi rialzare e sentenziava: "È strano come le donne occidentali siano convinte che un nostro costume tipico, che da noi ha un senso perché serve a proteggere la pelle dai raggi del sole, sia una forma di costrizione. Per noi le donne e gli uomini sono uguali, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Il rispetto non c'entra col sesso. Se un uomo non rispetta una donna, probabilmente non rispetterà nemmeno un altro uomo". Ed è facile capire come questo ragazzo avesse ragione.
Quell'uomo che mi voleva in una vetrina ad Amsterdam, era temuto e non rispettato dai suoi avversari.
Quel politico che mi voleva piegata ai suoi pantaloni, non ha mai protetto e tutelato quegli uomini che avrebbe dovuto, invece, proteggere e tutelare e che, profondamente, disprezzava come un branco di buoi stupidi e ottusi.
Quel collega che pensava che le donne non potessero raccontare di rapine, omicidi e stupri, oggi non ha più una fonte disposta a passargli una notizia, se le è tutte bruciate perché le ha sottostimate e maltrattate.
La stupidità dell'arroganza di un uomo che dice a una donna di stare zitta non dipende dalla latitudine e dalla religione, e, ovviamente, non merita schiaffoni a mano aperta. Merita pazienza perché finirà spazzata via dai giorni della vita. Basta sedersi sulla riva di quel famoso fiume, portarsi la merenda e assicurarsi di avere una buona vista: il cadavere del cretino che fa dell'intelligenza una questione di genere passerà con la bocca ancora aperta ma silenziosa e piena d'acqua.
PS: Io zitta non ci starò mai.
Deborah Dirani
Huffington Post
11.03.2015
Ornella Gemini è una donna che non può darsi pace. Suo figlio Niki Aprile Gatti è morto nel 2008 nel carcere di Solliciano: suicidio secondo gli inquirenti, suicidio simulato secondo lei. Ornella Gemini l'ho conosciuta lo scorso giugno ad Avezzano (ne ho parlato qui) e qualche giorno fa mi ha scritto e mi ha segnalato che nell'udienza preliminare che si è tenuta i primi di marzo (a sette anni e passa dagli arresti preventivi si parla ancora di udienza preliminare!) è emerso che la procura di Firenze che condusse l'operazione Premium su una presunta associazione a delinquere finalizzata alle truffe telematiche - inchiesta da cui scaturì l'arresto di 17 persone, tra le quali suo figlio - non aveva competenza sul caso e che il caso spettava invece alla procura di Arezzo.
Un dolore in più per Ornella Gemini: da anni lotta perché emerga la verità sulla morte di suo figlio, ora scopre che il pubblico ministero che aveva ordinato il suo arresto non aveva titolo per farlo... Ma soprattutto scopre "che se quel pm non avesse indagato sul caso Premium (non potendolo fare) Niki non sarebbe stato arrestato e sarebbe ancora vivo". Intervistata da Il Garantista ha detto: "Cosa devo pensare? Che ho perso un figlio che era la mia vita per errore? Sono pronta ad azzerare tutto, fatemi tornare a casa mio figlio, una casa in cui dal 24 giugno 2008 non si vive più".
"Se non avesse indagato...non potendolo fare". Leggo e rileggo queste parole. Perché mi fanno pensare che l'errore di base sta proprio qui: nella pratica dell'indagine giudiziaria che sbatte la gente in galera per farla parlare, una pratica che da Mani pulite in poi, ma certo anche da prima, avvolge e controlla ogni momento della nostra vita. Indagine che diventa battaglia personale del bene contro il male dove la vittoria è sempre e soltanto l'arresto preventivo e il carcere. Ha detto bene poche settimane fa il presidente della Repubblica Mattarella all'inaugurazione dei corsi della Scuola superiore della magistratura a Scandicci: "Al magistrato si richiede profonda coscienza del ruolo e dell'etica della professione...un compito né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia". E per essere più chiaro Mattarella ha aggiunto: "Vale sempre il monito di Calamandrei: "Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell'assuefazione, dell'indifferenza burocratica, dell'irresponsabilità anonima".
Un'irresponsabilità anonima che, come appare, ha permesso nel 2008 l'arresto di Niki Aprile Gatti in base a una indagine che gli inquirenti fiorentini non potevano fare. Un errore certo... può capitare... ma che capita proprio per "assuefazione, indifferenza burocratica, irresponsabilità anonima", per quella guerra personale messa in atto da certi pm-sceriffi che si credono padroni e domini della vita degli uomini. "La giustizia - diceva Josè Saramago - non serve a niente se non si pone al servizio dell'uomo. Perché altrimenti ci possono essere leggi ingiuste e una giustizia corrotta".
Huffington Post
06 03 2015
Negli ultimi anni ho iniziato a soffrire di attacchi di panico ed ho capito che spiegare come ci si sente a chi non lo ha mai provato è molto più difficile di quanto sembri. Molte persone non sanno neanche di cosa sto parlando, a meno che non lo abbiano provato sulla propria pelle.
È dura spiegare che ti senti come se stessi per morire (o come se dovessi restare in quella condizione di panico per sempre) senza sembrare pazzo, anzi cercando di dare un senso all'episodio di cui parli. Durante un attacco di panico è difficile riconoscere ciò di cui hai bisogno; a volte, non riesci neanche ad accettare che stia capitando proprio a te. Vorrei aiutare gli altri a capire cosa succede quando arriva un attacco di panico (anche se cambia da persona a persona). Ecco la spiegazione migliore che sono riuscita a trovare:
È come essere inghiottito da tutto ciò che ti circonda.
È come se, a poco a poco, ogni stimolo esterno prendesse il sopravvento sulla tua mente e sul tuo corpo. Un suono, una sensazione, un'immagine diventano così travolgenti che un singolo stimolo esterno diventa la tua sola realtà. Quest'unico elemento si trasforma nel solo pensiero che hai in testa e attraversa tutte le tue sensazioni fisiche ed emotive.
La musica ti penetra nelle orecchie e resta lì "bloccata" nel tuo cervello, preme contro la fronte e contro il tuo corpo, che sembra apparentemente "svuotato" e appesantito allo stesso tempo. Le voci e le conversazioni invadono i tuoi pensieri e riecheggiano nella testa.
Gli spazi si fanno così piccoli che ti senti immobilizzato Ogni posto diventa quello sbagliato in cui trovarsi, mentre si fa più forte il bisogno di scappare, senza sapere dove.
Riesci perfino a "vederti" dall'esterno, mentre sei in trappola, come se non fossi tu.
Il tremore si diffonde dalle mani ai piedi, finché le tue gambe sono così instabili che a malapena riescono a sorreggerti. Il cuore batte all'impazzata e lo stomaco si chiude fino al punto che non sai se vomitare o esplodere. La tua visuale limitata si annebbia sempre di più e non riesci più a mettere a fuoco o a vedere. La testa è leggera come se stesse per volare via o per staccarsi e cadere. I tuoi polmoni sembrano rimpicciolirsi e trattengono a stento l'ossigeno necessario a restare cosciente.
La paura di restare in questa condizione per sempre travolge tutti gli altri pensieri razionali. Non capisci cosa ti stia accadendo, ma sei sicuro che non ci siano possibilità che finisca.
Sei convinto che quell'assurdo panico non lascerà mai più la tua testa e il tuo corpo.
Questa è la migliore spiegazione che riesco a fornire. Ma a volte è difficile capire che, durante un attacco di panico, un soggetto potrebbe semplicemente sentire l'urgenza di fuggire o il bisogno di stare da solo mentre altri potrebbero peggiorare se lasciati soli e hanno bisogno che qualcuno resti accanto a loro. Gli attacchi di panico possono essere anche innescati da circostanze specifiche e possono accadere all'improvviso, senza alcuna ragione apparente. Cambiano da persona a persona e ogni attacco è diverso dall'altro.
Questo blog e le relative foto sono state pubblicate originariamente su The Huffington Post Usa. Il post è stato tradotto dall'inglese da Milena Sanfilippo.
Janelle Ann McCarthy
Minima et Moralia
05 03 2015
Proprio in questi giorni David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, ha ammesso che “per tenere unita l’eurozona abbiamo sacrificato un’intera generazione”. Nella sua durezza, per niente attenuata dal proposito di sincerità, l’affermazione si commenta da sola. In tutta Europa, e particolarmente nei paesi dell’Europa mediterranea, l’emergenza occupazionale si intreccia oggi con la questione generazionale in una misura che non ha precedenti nel dopoguerra. Per chi ha meno di quarant’anni la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, corrispondente agli studi fatti e alle aspettative maturate, si rivela spietatamente difficile.
Come assicurare maggiore occupazione in settori a elevata specializzazione come le industrie culturali e creative? Questa è una buona domanda se cerchiamo di capire quali possano essere le migliori politiche educative e di sviluppo. Discutiamo spesso di “innovazione”, talvolta in modo confuso o vagamente messianico. Ma davvero l’”innovazione”, meglio se dirompente, risolverà tutti i nostri problemi? Vediamo di stabilire alcuni capisaldi.
In primo luogo. Non è chiaro cosa intendiamo per innovazione culturale. Per taluni, interessati a indagare i processi psicobiologici che stanno dietro alla Grande Creatività, “innovazione culturale” è sinonimo di “innovazione cognitiva”, cioè di intuizione e scoperta – i “momenti Eureka” di cui parlano gli scienziati. Per altri invece, più attenti alla dimensione socioeconomica, “innovazione culturale” significa “innovazione sociale in ambito culturale”. Ci riferiamo in questo caso alle piccole o piccolissime imprese (o start up) attive nel settore culturale e ai mutamenti (che la transizione digitale, ma non solo, introduce) nel consumo, nella circolazione e nella trasmissione di contenuti culturali. I due punti di vista (psicologico e socioeconomico) sono molto diversi, e non necessariamente collegati tra loro.
In secondo luogo. Circola un equivoco dannoso: meglio fugarlo. L’impresa culturale non è di per sé culturalmente innovativa. Al contrario. Al pari di una qualsiasi altra impresa, può mancare di risorse materiali e immateriali e ignorare del tutto l’innovazione di prodotto (o di servizio). Accade nell’ambito delle imprese culturali che si occupano di servizi al patrimonio: costituiscono non di rado un opaco sottobosco di microrendita e relazione. In generale: l’impresa culturale soffre per lo più dei limiti (di capitale umano, economico e sociale) di cui soffrono le piccole e piccolissime imprese italiane. A queste condizioni è impensabile investire in Ricerca e Sviluppo: l’impresa è sì “culturale”, ma i “contenuti” non sono per niente innovativi.
Come agganciare innovazione sociale e innovazione cognitiva (o mondo della ricerca istituzionale nelle sue componenti virtuose)? Questa è una seconda buona domanda. I due mondi in Italia sono socialmente separati: la difficoltà di costruire ponti non è dunque trascurabile. È tuttavia importante che ricercatori universitari e early careers (provenienti in primo luogo dalle scienze umane e sociali) siano spinti a partecipare attivamente alla costruzione (e alla formazione) di nuove comunità imprenditorial-culturali e di ricerca extra-accademica oltreché a processi di qualificazione del Terzo Settore. Ed è non meno importante, per la maturità civile di noi tutti, che le agenzie formative, in primo luogo scuola, università e media, possano confrontarsi produttivamente con i movimenti per rinnovare agende di ricerca e criteri di valutazione. In un mondo perfetto, dunque molto lontano da qui, autoimprenditorialità e formazione permanente compongono le due parti di un intero.
Si è osservato che i vertici accademici italiani si comportano spesso come apparati di partito: chiudono l’università al suo interno cingendola di mura impenetrabili, ancorché immaginarie. E che dire di una buona parte della dirigenza di tv e giornali mainstream? Ripetizione dell’identico e vincoli di fedeltà vincono di gran lunga sulla curiosità o l’indagine. Dobbiamo senz’altro proporci di combattere questo atteggiamento sterile, che allontana e depaupera; e sfidare istituzioni senescenti sul piano di un civismo radicale. Immaginiamo dunque nuove istituzioni educative, scientifiche e giornalistiche. O meglio impegniamoci in modo concreto, nell’azione quotidiana, nella ricerca, nella comunicazione, per pretendere che le istituzioni esistenti si aprano durevolmente alle “minoranze vitali” e alle energie più innovative del paese.
Michele Dantini