DINAMO PRESS

Sparigliare le carte, abbattere i confini

Dinamo Press
09 09 2015

Il dibattito “mainstream” attorno ai flussi migratori che sono riusciti a rompere, almeno per il momento, la gabbia sancita dagli accordi di Dublino, ha dimostrato tutti i limiti già ampiamente dimostrati negli ultimi anni. I ragionamenti più inquietanti arrivano puntuali, non solo dimostrando di non riuscire a cogliere gli elementi più importanti di quello che sta accadendo, ma assumendo un punto di vista passivo, attento agli aspetti di superficie e mai alla sostanza, altalenante e “isterico”.

“E’ stata una foto a cambiare l’Europa”, anzi no, “mostrare quella foto è stato vergognoso, un uso strumentale della morte di un bambino”. “ La Merkel è il demonio, sta accogliendo tutti per trasformarli in schiavi”, “La Merkel è la nuova fata turchina, ha mostrato il vero volto dell’Europa, anzi no, sta già chiedendo denaro in cambio dell’accoglienza, è solo un business”.

Evidentemente esistono degli elementi di verità in tutte queste affermazioni, manca però come sempre un punto di vista che renda i soggetti (migranti o autoctoni) protagonisti e attori delle trasformazioni, resta un’aurea di rassegnazione che restituisce il destino di migliaia e migliaia di uomini e donne a qualche complotto, qualche capriccio, qualche tonalità emotiva più o meno presente nel cuore dei potenti in quel momento.

La verità è che Angela Merkel non è la fata turchina nè Maga Mago’: la cancelliera incarna perfettamente il modo di intendere la politica in Europa. Immaginate un gigantesco foglio di calcolo, una pagina dove annotare più e meno, addizioni e sottrazioni: i migranti sono un costo economico, respingerli in maniera disumana può diventare un gravoso costo elettorale o un’operazione che soddisfa lo stomaco e i peggiori istinti che circolano nel continente. Bloccare i flussi è impossibile: non è un muro di filo spinato nè un governo fascista come quello di Orban a poter arrestare il desiderio di libertà e di una vita degna e questo non sfugge all’Europa e alla Germania.

I migranti Siriani hanno spostato il valore dei calcoli su questo gigantesco foglio, la mobilitazione diffusa dei cittadini austriaci e tedeschi ha mostrato come, al di là di ogni previsione, una politica di chiusura sarebbe stata pagata in maniera molto cara dalla cancelliera tedesca e dal suo partito. Una foto (ma serve una foto per rendersi conto della tragedia? A me no, a qualcun altro si, questa disputa lasciamola ai salotti buoni della sinistra annoiata) non ha cambiato l’Europa ma ha funzionato, forse, come scintilla per scompigliare le carte in tavola.

Mescolare i calcoli, spostare i segni più e meno su questo immenso foglio: questo è l’unico linguaggio che viene riconosciuto dalla politica europea oggi, ovvero dobbiamo diventare un costo. Deve essere costoso per loro chiudere le frontiere, respingere, ignorare chi arriva da lontano. Deve essere un costo per loro affamare popoli, imporre misure d’austerity, distruggere servizi e welfare, altrimenti nessun orco si trasformerà in fata turchina, nessun giornale piangerà lacrime di coccodrillo sui morti del mediterraneo, nessun politico andrà in televisione ad annunciare un cambio di rotta.

Forse sarebbe più interessante concentrarsi su questo: come cambiare completamente i numeri su quel foglio di calcolo, come essere protagonisti della trasformazione, come diventare talmente forti da prendere questo foglio tra le mani e strapparlo in mille pezzi. Nessun governatore diventerà buono per magia, nessun abominio verrà cancellato dalla buona volontà di chi comanda, dunque a voi la scelta: continuare a parlare di “complotti”, disquisire su una foto e sull’opportunità di pubblicarla, recitare come un rosario le solite battute del politico, più o meno commosso, a seconda dell’aria che tira, oppure marciare. Marciare al fianco dei rifugiati siriani da est, di tutti i migranti che attraversano il mediterraneo, che scappino da una guerra o dalla povertà, che cerchino pace o un lavoro. Non serve “carità”, servono incroci virtuosi tra le lotte, serve comprendere fino in fondo che la battaglia è quella degli ultimi contro i primi e riconoscersi finalmente come soggetti schierati dalla stessa parte: solo in questo modo sarà possibile abbattere per sempre la fortezza Europa.

Dinamo Press
09 09 2015

I morti, italiani e migranti nei campi, del Sud Italia hanno fatto suonare un campanello d'allarme, ma quello di cui dobbiamo renderci conto che il caporalato non è un'eccezione ma il paradigma nel mercato del lavoro.

La morte durante il lavoro nei campi di Paola Clemente ha rotto qualcosa nell’immaginario collettivo.

La crudezza del lavoro nei campi, piegati a metà, o sempre sollevati, il sole a picco, l’attesa alle rotonde; tutte immagini collocate dalle persone comuni di solito all’interno del fenomeno dell’immigrazione sono improvvisamente sbalzate nel “cassetto” che la nostra mente dedica alla questione lavoro (o al massimo lavoro degli immigrati ovviamente).

La sofferenza e la morte di italiani ha reso chiaro come lo sfruttamento della manodopera sia davvero ampio.

Vorrei però disvelare un aspetto che non mi sembra emerso nel dibattito.

Il caporalato non è un’eccezione del sistema più o meno ampio, ma è uno dei perni del sistema prodotto – e che si continua a produrre – a cause delle riforme degli ultimi anni.

Nel nostro ordinamento vigeva il principio regolato dalla legge n. 1369/60 per cui il lavoro non è una merce e non è possibile vendere forza lavoro: chi lo facesse commetteva un illecito civile e penale (cioè un reato). Si trattava di un principio quasi banale: chi usufruisce dei frutti del lavoro deve anche farsi carico dei diritti del lavoratore.

Per fare ciò la legge vietava espressamente l’appalto che aveva per oggetto solo la manodopera e considerava tale l’appalto ogni qualvolta l’appaltatore impiegasse capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante anche a titolo oneroso (art. 1 comma 3): l’appaltatore non era tale se si limitava a dirigere gli operai;
Inoltre, la legge imponeva nel caso di appalti leciti interni all’azienda una parità di trattamento economico tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli dell’imprenditore, obbligando anche quest’ultimo al pagamento della eventuale differenza (art. 3). Così il legislatore impediva che l’appalto fosse il modo surrettizio per abbassare il salario e rendeva non conveniente l’interposizione di manodopera.

* * * *

Oggi si assiste al capovolgimento del principio descritto, cioè al tentativo di realizzare la separazione del lavoro dall’impresa.

E questo fenomeno non riguarda solo il lavoro nei campi ma è una strategia regressiva diffusissima in tutti settori e molto praticato dalle grandi imprese.

Da anni assistiamo ad una vera e propria “fuga del reale datore di lavoro” che inventa stratagemmi giuridici per inserire un datore di lavoro fittizio tra sé e il lavoratore.

Per chi si occupa di diritto del lavoro è frequentissimo incontrare – e difendere – lavoratori impiegati in un azienda, ma formalmente assunti da cooperative o società che non hanno mai conosciuto – spesso con sede presso studi dei commercialisti - magari rette da una persona che vedono una volta al mese per consegnargli la busta paga.

Faccio un esempio: la Unicoop fornisce ai suoi consumatori un servizio di spesa a domicilio, denominato “la spesa che non pesa”. Il consumatore ha un ordine on line e poi dei lavoratori fanno materialmente con il carrello la spesa che poi verrà consegnata con dei furgoni. Questi lavoratori lavorano dentro la Coop, rispondono al caporeparto Coop, si “sentono” della coop, però sono formalmente assunti da una piccola cooperativa.

Il Tribunale deciderà, ma io qui intendo interrogare anche il buon senso. A Lui la sentenza.

Ma gli esempi sono tanti.

E poi non è da annoverare nella “fuga del datore” anche il fenomeno delle partite iva monocommittenti? In questo caso l’imprenditore impone un rapporto formalmente ugualitario, quindi senza dover garantire i diritti al collaboratore, quando di fatto usufruisce del lavoro altrui e il collaboratore lavora interamente o quasi per lui.

A questa tendenza del mercato le riforme degli ultimi anni hanno dato un appoggio. Cioè il legislatore non le ha osteggiate ma rese più agevoli.

Il lavoro più sporco lo ha fatto Berlusconi. Ma come spesso è avvenuto il centro-sinistra ha spianato la strada. Qualcuno ricorderà che le agenzie di lavoro interinale sono state introdotte nel 1996 dal primo governo Prodi, per alcune ipotesi specifiche. E solo un eccezione si diceva.

Ma il muro era sbrecciato, a Berlusconi è bastata una spallata.

Il Dlgs 276/03 – c.d. legge biagi – ha abrogato la legge 1369/60 e ha introdotto il contratto di somministrazione consentendo alle agenzie interinali di vendere manodopera a tempo determinato e indeterminato.

E’ giusto precisare che non è che adesso il nostro sistema ammette in maniera indiscriminata la vendita di manodopera. Speriamo che non si arrivi mai a tanto.

Ma la legge Biagi ha realizzato qualcosa di molto grave.

Si è passati da un sistema che non dava cittadinanza alla vendita di manodopera ad un sistema che l’ammette seppure ad alcuni soggetti soltanto. E’ un po’ come assoldare dei rapinatori in un esercito regolare.

Il senso dell’abrogazione della legge 1369/60 è proprio quella di fare in modo che la regola e la eccezione invertano le loro posizioni.

Del resto, oltre ad abrogare la legge 1369/60 il dlgs 276/03 ha introdotto delle disposizioni che rendono più agevole il caporalato e la “fuga del datore di lavoro”.

In primo luogo, si ammette la liceità di un appalto in cui il servizio reso dall’appaltatore sia caratterizzato “dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto” (art. 29). Cioè l’appaltatore organizzi solo il personale senza avere alcuno strumento. Ma è evidente che il confine con il caporalato è labile, dire quasi inesistente. E la prova che il lavoratore deve fornire nel processo più complicata. E un po’ come se in una partita di calcio una delle due squadre potesse toccare la palla con la mano per un intero tempo.

>Abrogando la legge 1369/60 la legge Biagi ha eliminato l’obbligo di parità di trattamento tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli del committente, favorendo l’esternalizzazioni finalizzate al risparmio e una odiosa disparità tra lavoratori che lavorano gomito a gomito. E poi, rimane la possibilità per il lavoratore di adire il committente per ottenere il pagamento della retribuzione negata dall’appaltore, ma solo “previa escussione”, cioè dopo aver faticosamente tentato un pignoramento dell’appaltatore.

Ho fatto questi brevi accenni per precisare che le tragedie che giustamente hanno toccato l’opinione pubblica, non sono incidenti ma ovvie conseguenze del sistema come si sta delineando. E’ che le dichiarazioni del governo hanno il sapore di spot che non intendono saputamene invertire la tendenza.

di Bartolo Mancuso

Self-destruction: fermare le violenze a Napoli

Dinamo Press
08 09 2015

Da qualche mese al centro di Napoli si spara. Nella maggior parte dei casi sparano i giovanissimi e muoiono i giovanissimi.


What to do Is stop the violence and kick the science

Down the road that we call eternity

(Self-destruction, Stop the violence movement, 1989)


La scorsa notte è successa, tra tutte, la vicenda forse più inquietante. Gennaro, 17 anni, freddato da uno dei numerosi colpi di arma da fuoco esplosi a caso nel mezzo del Rione Sanità. Gennaro è una vittima assolutamente innocente. Eppure ai giornali è bastata nient’altro che la sua provenienza per parlare immediatamente di lui come di un pregiudicato, lasciando intendere tutt’altra dinamica e infangando la sua giovane biografia già a poche ore dalla morte. Ancora stamattina, nonostante l’acclarata ricostruzione della dinamica, Studio Aperto si è inserito in questa narrazione menzognera, fomentandola.

Gennaro, nonostante la sua età, per il mainstream è già solo un numero, l’ultimo morto che serve a convocare in prefettura il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza e a motivare probabilmente l’ennesima inutile calata dell’esercito sulla città.

Per noi però Gennaro non può essere un numero. Per questo a suo padre, storico attivista del movimento dei disoccupati organizzati che ha speso una vita in prima linea per l’emancipazione e la dignità dei subalterni di questa città, dobbiamo innanzitutto una ricostruzione di verità pubblica perché Gennaro non finisca dove aveva scelto di non stare. Non è la prima volta che succede che la morte di un innocente venga fatta passare per altra cosa. E’ il quartiere di provenienza e la condizione sociale a determinare il grado di sospetto da volgere ai corpi senza vita e quando il quartiere è popolare quasi sempre non c’è appello. L’innocenza assoluta non esiste. Così Gennaro sta pagando per essere un giovanissimo abitante della Sanità, figlio sicuramente di un Dio minore di quello degli stessi pennivendoli che con superficialità lo hanno descritto come vittima di un agguato.

Che in questa città esistono due pesi, due misure, due registri e due modalità di allarme assai differenti è cosa nota. L’agenda della Napoli “per bene”, preoccupata della sicurezza, stabilisce le priorità in base a un ordine assolutamente arbitrario. Basti pensare a quanto rumore ha generato il raid di Piazza Bellini di qualche notte fa a fronte dell’uccisione del piccolo Gennaro, per il quale ancora nessuno ha speso una parola. Per alcuni politici che già si sfregano le mani in attesa della campagna elettorale, la questione più rilevante pare essere semplicemente salvare il marciapiede buono dall’incursione dei “violenti”, come ci ha tenuto a definirli l’ex governatore Bassolino. Proprio lui, che tra città e regione ha governato questo territorio per vent’anni e che ha una quantità infinita di responsabilità nel peggioramento delle nostre condizioni di vita che dovrebbe indurlo a modificare il linguaggio o meglio a stare sapientemente in silenzio.

A noi, alla parte di città a cui non interessano condizioni e provenienze delle vittime di questa mattanza, spetta il compito di prendere parola e costruire la mobilitazione. Non ci sfugge che la vicenda di Gennaro merita la massima attenzione e che provando a contestualizzarla non bisogna correre noi stessi il rischio di confonderla con le altre storie, legate comunque a dinamiche di faida e micro-faida. Gennaro è comunque la vittima di una guerra. Una guerra strana perché per la prima volta non si combatte tra due grandi clan ma si esprime in una serie di conflitti molto più pulviscolare. Ogni guerra, qualunque sia la sua forma, lascia sul terreno gli innocenti. Nessuna guerra purtroppo risparmia chi non c’entra.

E allora forse bisogna provare a fare un passo indietro, utile a connettere la morte di Gennaro, gli agguati continui tra ragazzini e l’inadeguatezza della propaganda securitaria promossa dalla società civile. Tanto per cominciare le guerre di camorra non sono mai un fenomeno inedito. Possono certamente cambiare le forme, le modalità con cui si danno i processi di accumulazione di profitto dell’economia illegale sui territori ma le guerre prima o poi arrivano. La guerra è l’espressione della concorrenza nel libero mercato dell’informale e si combatte quasi esclusivamente nei luoghi controllati dall’imprenditoria armata.

Dunque se succedono sempre, ovunque ci sia un territorio sottoposto al ricatto del crimine organizzato, allora dovremmo interrogarci su che cosa sono in effetti queste fantomatiche faide se non un periodico riassestamento delle spartizioni del controllo territoriale, della governance che di volta in volta producono i cartelli criminali nella gestione del profitto. E soprattutto quanto sono funzionali anche alle clientele politiche del formale questi riassestamenti di cui la città “indignata” e “legale” nota solo l’estetica della brutalità. Da questa prospettiva la storia dei tanti e troppi giovanissimi che vengono reclutati sistematicamente dai clan e senza batter ciglio rischiano tutto, va affrontata seriamente, innanzitutto come questione sociale e non come espressione di un’anomalia metropolitana, segnata da una precisa stigmatizzazione antropologica. Nominarli Baby-padrini, boss-bambini o con altre stupide formulette come queste, non fa altro che allargare la distanza tra il fenomeno e la causa, non costruendo In questo senso alcuno spazio per la risposta. Piuttosto dopo anni di inutile militarizzazione, dopo la sperimentazione delle operazioni “alto impatto” fiancheggiate da indignazione a singhiozzo, possiamo tranquillamente ammettere che l’informale continua ad essere, in tutte le sue articolazioni, la prima voce dell’economia di alcuni quartieri. Soprattutto perché le richieste del mercato riguardano la città tutta, come dimostra il mercato della droga. L’economia illegale è parte della medesima fabbrica sociale di quella legale. Entrambe nella metropoli e per la metropoli producono merci, sfruttano forza lavoro, controllano e appagano il desiderio. L’illegale detiene l’egemonia sull’appagamento del proibito.

E se questo è il nodo, allora è evidente che non può esistere forma di risposta collettiva incisiva, mobilitazione delle coscienze efficace che parta già con la pretesa di costruzione di un noi e di un loro, di una Napoli “per bene” e di una “per male”. A questa idea di città divisa, che non si preoccupa di tutta se stessa ma di sottrarre alla barbarie la sua parte migliore, andrebbe sostituito piuttosto un accorato appello da noi a noi, un grido che viene da dentro e che a chi è dentro chiede di interrompere questa follia fratricida funzionale sempre agli interessi degli oppressori.

Abbiamo bisogno di un appello largo e rapido, che contagi tutti e che coinvolga artisti, studenti ma soprattutto i guaglioni che abitano i quartieri coinvolti. Un appello che richiami allo spirito di quella canzone che nell’89 a New York una parte della scena rap scrisse per fermare le faide tra i neri e l’affermazione dell’etica gangsta. Self-destruction si chiamava il brano. Auto-distruzione, appunto. La stessa a cui ci sottoponiamo da sempre nelle strade di questa metropoli e che oggi ci porta a registrare giorno dopo giorno la scomparsa o il ferimento di ragazzi sempre più giovani a cui la magistratura adduce cinicamente curriculum criminali da boss sanguinari e che invece, senza quella fame di forca e galera, ci sembra più una immensa tragedia sociale. Per questo, sarebbe il caso che chi ha avuto rilevanti ruoli di governo di questi territori, invece che fare opinione sui fatti di cronaca, si assumesse la responsabilità di aver usato troppo spesso anche la marginalità sociale come terreno su cui lucrare e costruire clientele, lasciando di fatti i tantissimi quartieri popolari di questa complessa città in balia della solitudine e del ricatto del modello di sfruttamento criminale.

Per Gennaro, per suo padre e per la città, dobbiamo lavorare seriamente per costruire una mobilitazione contro i virus che generano i sintomi non una reazione ottusa alla sintomatologia punto e basta. Una mobilitazione per fermare l’auto-distruzione non per rigettarla nei vicoli poco lontani dal marciapiede buono. E’ necessario scendere in strada per arginare questa forma di oppressione e per pretendere la rottura dell’isolamento e della marginalizzazione economica di Napoli, perché solo l’arrivo di ingenti risorse destinate allo sviluppo dei territori e solo un’implementazione vera del welfare e delle possibilità di lavoro può interrompere per sempre la mattanza.

Extracomunitari, immigrati, migranti, espatriati

Dinamo Press
07 09 2015

Una riflessione, a partire dal dibattito sulla stampa internazionale, sulla definizione dei fenomeni migratori che abbiamo di fronte e sul suo utilizzo politico.
Le recenti tragedie dell'immigrazione hanno aperto un interessante dibattito internazionale sulla semantica che il termine “migrante” ha assunto negli ultimi tempi. Il primo a sollevare la questione con decisione è stato il Guardian con un articolo del 16 Agosto di Stephen Pritchard dal titolo esemplificativo “The Semantics of Migration”.. Pritchard sottolinea come l'utilizzo da parte dei media e della politici stia connotando negativamente un termine neutro che indica semplicemente persone che si spostano da un territorio ad un altro. Sui titoli di giornale il migrante finisce per non essere più un essere umano, ma il suo ruolo. Il migrante diventa così una figura disincarnata su cui è più facile riversare xenofobia e odio.
La correttezza politica del rifiuto di etichette come “clandestino”, “irregolare” o “illegale” ha determinato che quelle connotazioni negative si siano estese alla categoria di “migrante” nel suo complesso.

Ecco allora che Al Jazeera English decide di non utilizzare più il termine “migrante” ma solo quello di “rifugiato”. Come un editoriale programmatico del 20 Agosto, “Why Al Jazeera will not say Mediterranean migrants”, Barry Malone spiega: “Non sono sono centinaia di persone quelle che affogano quando un barca affonda nel Mediterraneo, non sono nemmeno centinaia di rifugiati. Sono centinaia di migranti. Non è una persona come te - con una storia, delle speranze, delle idee – quella che sui binari che fa ritardare il treno. È un migrante. Una seccatura”.
Il Guardian e Al Jazeera hanno così aperto un ampio dibattito sulla stampa internazionale al punto che il 27 Agosto, Adrian Edwards, portavoce di UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in una lunga nota dal titolo “Refugee or migrant. Which is right?”ha voluto precisare: “i migranti scelgono di spostarsi non a causa di una diretta minaccia di persecuzione o di morte, ma soprattutto per migliorare la propria vita attraverso il lavoro, o in alcuni casi per l'istruzione, per ricongiungersi con la propria famiglia o per altri motivi. A differenza dei rifugiati che non possono tornare a casa senza correre rischi, i migranti non hanno questo tipo di ostacolo al loro ritorno. Se scelgono di tornare a casa, continueranno a ricevere la protezione del loro governo. […] Assimilare rifugiati e migranti può avere gravi conseguenze per la vita e la sicurezza dei rifugiati. Confondere i due termini svia l'attenzione dalle specifiche protezioni legali di cui i rifugiati hanno bisogno”.

Si tratta di una pericolosa distinzione perché come notano Liberti e Manfredi su Internazionale (tra le poche testate italiane a occuparsi della questione) distinguere rifugiati e migranti “rafforza un diktat ormai imposto all’opinione pubblica: la divisione tra buoni (i profughi che vanno accolti) e cattivi (i migranti economici che cercano surrettiziamente di entrare nel nostro mondo ricco ma in crisi, per sottrarci risorse e renderci poveri, e che pertanto devono essere bloccati)”.
Invece sono propri i migranti economici quelli a cui - come cittadini europei in regime di austerity - possiamo sentirci più prossimi. Sono quelle le condizioni che - con gradi diversi - accomunano il 99% del popolazione mondiale.

Ovviamente dal punto di vista terminologico l'UNHCR ha ragione. Secondo la Convenzione di Ginevra infatti: “è un rifugiato solo chi fugge da un paese in cui ha giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
Si potrebbe però controbattere che fin quando non sono concluse le pratiche per la richiesta d'asilo queste persone su una nave non sono dei rifugiati ma ancora semplici migranti e, allo sbarco, soltanto dei richiedenti asilo. Saranno rifugiati solo dopo che la loro condizione è vidimata istituzionalmente. Quindi sono tutti “migranti”.
All'opposto, ricorrendo all'Articolo 13 della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo secondo cui “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio”, ogni migrante nel momento in cui lascia il proprio paese non avendo trovato modo di farlo legalmente potrebbe essere essere automaticamente considerato discriminato. La sua potenziale morte nello spostamento diventa la sanzione di una “persecuzione” che lo include nelle norme della Convenzione di Ginevra. Quindi sono tutti “rifugiati”.

Certo la difesa dei rifugiati (e del termine rifugiato) è un più comoda linea di difesa per l'UNHCR e per le tante associazioni che si occupano di richiedenti asilo. Presenta inoltre l'indubbio vantaggio di poter fare comunicazione con cifre precise e numeri più esigui rispetto alla totalità di un fenomeno migratorio che spesso rifugge l'identificazione alle frontiere. Si arriva però così al paradosso di considerare la guerra “l'unica vera fabbrica di migranti” (Wired, 31 Agosto) con buona pace delle diseguaglianze economiche globali di cui la guerra è solo uno degli esiti.

Migrante o rifugiato quindi? Fino ai primi anni novanta il termine giornalistico più utilizzato per descrivere la stessa condizione era extra-comunitario. Un termine che indicava la semplice presenza sul territorio europeo di qualcuno che non lo era. Anche questo termine, di per se neutro, finì per disincarnare gli esseri umani che venivano così etichettati in termini negativi come estranei alla comunità. Segui un ampio dibattito e prese piede un “nuovo” termine: immigrato.
L'idea era quella di ricollegare l'esperienza migratoria ha quella che aveva caratterizzato l'Europa della prima metà del secolo. Gli immigrati erano i nostri nonni che andavano nelle americhe, non erano diversi da noi. Anche “immigrato” finì però identificare non una persona, ma una funzione: quella di chi veniva a prendere il posto dei nativi, a togliere lavoro e se non ci riusciva a delinquere.

Ecco così comparire sulla scena il più politicamente corretto migrante. Il migrante non arrivava qui per restare, la sua è una condizione temporanea: i migranti vogliono tornare al loro paese d'origine. Un po' come accade a tanti cittadini europei che si spostano per motivi di studio o di lavoro. Un po' come un Erasmus.
Ora anche migrante è giunto al capolinea. Qualcuno potrebbe pensare che trovare un ulteriore alternativa sia tempo perso. Invece non è così. Sebbene qualunque alternativa finirà per avere lo stesso destino se non muta la realtà materiale, ogni passaggio semantico non è infruttuoso.
È nel momento del divenire, nel tempo intermedio d'adozione di un significante che si infonde una rinnovata percezione al significato. È nel periodo in cui si dice “l'unica differenza rispetto a me è che non sono comunitari”, “sono come mio nonno emigrato in Argentina”, “sono come mio figlio che è andato a lavorare in Germania” che si imprime una nuova traccia semantica nella memoria delle persone.

Cosa dovremmo fare allora? Accogliere l'appello di Al Jazeera e chiamare tutti rifugiati a dispetto e contro l'UNHCR?
Qualche mese prima che si aprisse con più forza il dibattito sul Guardian sono apparsi due diversi articoli entrambi firmati da giornalisti “immigrati”.
“Per un anno o due ho immaginato di essere un expat [espatriato]” - scrive il giornalista indiano Ritwik Deo nel suo editoriale “The British abroad: expats, not immigrants” “Sono venuto dall'India per studiare al St.Andrews con una borsa di studio. Mi sono mescolato con i compagni di classe con passaporto multiplo, i cui genitori erano expat a Zurigo, Dubai, New York e Tokio. Ma mentre mi meravigliavo della facilità con cui volavano in Francia, prendevano treni in Croazia e facevano amici tra i beduini in Giordania, io avevo prolungate discussioni con i doganieri che spulciavano i miei documenti ogni volta che ho provato a fare un salto in Irlanda o in Francia. Questa accoglienza mi ha fatto capire che non ero mai stato un expat, ma solo un immigrato. Sembra impossibile essere un indiano espatriato.”

Il giornalista togolese Mawuna Remarque Koutonin (“Why are white people expats when the rest of us are immigrants?” è stato ancora più esplicito: “Expat è un termine riservato esclusivamente per i bianchi occidentali vanno a lavorare all’estero. Gli africani sono immigrati, gli arabi sono immigrati, gli asiatici sono immigrati. Tuttavia, gli europei sono expat perché non possono essere allo stesso livello di altre etnie. Loro sono superiori. Immigrati è un termine riservato alle “razze inferiori”.
Ecco forse expat, espatriato, potrebbe essere la nuova parola giusta. Una parola “bianca” destinata alle persone che lasciano il proprio paese, i propri affetti e le proprie cose. Un corto circuito per gli xenofobi che credono alla parola patria. Un segno comune a chi fugge i drammi della guerra o dalla fame, della discriminazione, dell'ingiustizia o dalla povertà. Senza separazioni. Qui o altrove. E quando la parola sarà vecchia, forse assieme a essa sarà vecchia anche l'idea di una patria da difendere dallo “straniero”.

Premesse a una strategia

Dinamo Press
07 08 2015

I farfugliamenti sulla “grande politica” che hanno accompagnato il disarmo politico e morale della sinistra italiana nell’ultimo ventennio non depongono a favore del termine. Tuttavia la grande politica esiste. Solo che la fanno gli altri. Anche su temi come i migranti. Vediamo di imparare. Gesti semplici, calcoli precisi, parole comprensibili. Ovviamente su cose importanti, addirittura epocali. Per esempio, la tumultuosa migrazione dei popoli che oggi è manifestamente l’effetto e il sedimento dinamico di una profonda crisi economica e non solo.

Abbiamo registrato tre grandi risposte.

Papa Bergoglio l’ha messa al centro degli eventi e ha proclamato un’accoglienza incondizionata e illimitata, che non distingue fra asilanti, profughi di guerra e migranti economici. Abbastanza realistico, prima ancora che misericordioso: difficile fare una cernita motivazionale da chi scappa dalla morte (per fame, per persecuzione, per conflitto). Quali sono le ragioni di Francesco? Beh, il mestiere di papa implica nei casi migliori una valenza profetica e accogliere i fuggitivi la realizza (quanto soccorrere gli afflitti). Anche la tenuta della Ditta ne risente positivamente, migliorando il proselitismo o quanto meno compensando gli attacchi della concorrenza.

Erdoğan ha accolto due milioni di siriani in Turchia e ha largamente concesso loro il diritto di voto, incrementando così le fortune del suo AKP ma soprattutto utilizzando questa apertura per conquistare un’egemonia regionale, barcamenandosi fra Europa, Usa, Fratelli Musulmani e Isis e tenendo a bada i suoi nemici interni (i curdi) e i competitor esterni (Iran, Arabia Saudita, Egitto, Israele). Accogliere tanti siriani in Anatolia e smaltirne una parte in Europa dopo i più recenti cambiamenti di scenario fa parte di una complessa partita a scacchi per consolidare il traballante potere interno, compromesso dalle ultime elezioni, e rilanciare le storiche aspirazioni ottomane nella regione.

Da ultimo la Merkel ha cominciato a parlare di superamento di Dublino e di accoglienza incondizionata dei soli siriani in Germania, scatenando un casino pazzesco nei paesi vicini di transito. Per un verso, la Cancelliera prende atto con realismo di un flusso inarrestabile (i siriani vogliono andare in Germania, e con loro anche tutti gli altri). Per l’altro, mira a utilizzare questa invasione come un’irrigazione, secondo la buona regola di gestire le crisi come occasioni. In primo luogo e subito, garantendosi con tale gesto un’egemonia politica e morale in Europa che non poteva più mantenere con un’ottusa supervisione dell’austerità. Ci butta dentro un bel po’ di soldi, ma ne guadagna politicamente e in termini di forza – così come aveva fatto il suo maestro Kohl con l’unificazione tedesca e il cambio alla pari del marco nel 1989. O prima ancora, accogliendo dopo la disfatta nel 1945 milioni di tedeschi espulsi dall’Est. Nel medio periodo, si procura abbondante manodopera (acculturata e neppure troppo islamica) per sostenere lo sviluppo economico in un mercato europeo asfittico e nella prospettiva di una contrazione considerevole degli sbocchi in Cina. Senza esitare di fronte ai rischi di un allentamento dell’asse geopolitico con i paesi dell’Europa orientale, oggi volti piuttosto verso l’Inghilterra repellente di Cameron.

Tre operazioni di grande politica (Obama ci sta provando su altri terreni). Sono però “altri” a farla (e almeno due sono pure “nemici”).

E la sinistra?

Vabbè, distinguiamo. La sinistra socialdemocratica sta in coda alla Merkel e magari rosicchierà qualche briciola, I partiti socialisti spagnolo e francese latitano. Renzi si agita e chiacchiera, ma si limita a contendere il terreno a Salvini con atteggiamenti più “umanitari”. Si è ben guardato, tra le tante “riforme”, dal cancellare la Bossi-Fini, una legge per metà inapplicabile, per metà criminogena, che costituisce, fra l’altro, il sostegno statale dall’alto della perversa distinzione (ignota perfino in gran parte dell’Europa) fra migranti “regolari” e “clandestini”. Non a caso il governo Cameron l’ha presa a modello per frenare l’immigrazione, in primo luogo quella italiana…Il Pd spera soltanto che i profughi scappino al più presto dall’Italia terrorizzati da Lega, burocrazia e disoccupazione. Quelli che restano vanno ad alimentare non lo sviluppo industriale, ma il sommerso, nel ventaglio che va dal caporalato all’edilizia all’economia criminale – tutte componenti ascendenti del Pil…

E la sinistra “vera”, cioè quella che si oppone de core e non conta un cazzo? Molto solidale con i migranti, beneficamente attiva con marce, scuole, assistenza, sportelli, occupazioni, ma senza un progetto strategico né in generale né che li comprenda come forza attiva e soprattutto come occasione. Le rivoluzioni non seguono un ordine dettato dalla storia e neppure da programmi di partito, ma si innestano su “accidenti” (diceva un antico) che vanno sfruttati al volo, previsti o no che siano. Se non c’è “riscontro”, l’occasione passa e magari viene usata da altri per schiacciarci. Nel migliore dei casi, l’accidente viene subìto, espulso come un corpo estraneo: per esempio, in Grecia l’improvviso riversarsi dei migranti dal corridoio turco ha alimentato le pulsioni razziste di Alba Dorata (e ovviamente continua a farlo), è stato accolto con solidarietà dai movimenti, ma non si è sommato alle altre spinte derivanti dalla crisi: in fin dei conti sembra che il governo Syriza abbia cercato di non infierire troppo, ma di sbarazzarsi al più presto di questo ulteriore guaio spintonandolo verso la Macedonia. Forse non si poteva fare altrimenti, ma un certo disagio per la gestione di questo e altri accidenti socio-economici rimane e comunque configura una situazione di sconfitta.

Cominciamo con il prendere atto di questa situazione e che si tratta del principale complesso di movimenti e variabili con cui ha a che fare oggi ogni processo politico, quindi anche quelli che si propongono mutamenti di struttura. Prendiamo atto che il blocco della sinistra riformista e rivoluzionaria verte su questo, come nel 1914 e nel 1939 sulla guerra. In attesa, magari, che fra spinte e controspinte la guerricciola che oggi cova in Ucraina si candidi a esiti più impegnativi. E che se ne esce impostando una svolta strategica che parli alla gente, mentre oggi perfino i militanti più impegnati fanno fatica a capirsi fra loro e a decifrare i documenti pazientemente postati on line...

Per non limitarci a un lamento, osserviamo che la spinta delle migrazioni non agisce solo oggettivamente, travolgendo muri e reticolati e sconquassando le regole europee e gli egoismi nazionali, ma anche soggettivamente, con piccoli e grandi pressioni (Ceuta, Ventimiglia, Brennero, Gevgelija, Budapest e soprattutto Calais) – sommosse senza paragone negli ultimi anni e neppure del tutto sconfitte. Le cose cambiano così. Non ne dovremmo imparare qualcosa, rinfrescarci la memoria?

di Augusto Illuminati

Aprire un corridoio per Kobane

Kobane-AiutiDinamo Press
2 settembre 2015

Appello internazionale per un "Corridoio umanitario" - Kobane ha disperatamente bisogno del nostro aiuto per essere ricostruita. Per questo c'è urgente bisogno di creare un corridoio umanitario tra Kobane e la Turchia.

Aprire un corridoio per Kobane

Dinamo Press
02 09 2015

Appello internazionale per un “Corridoio umanitario” - Kobane ha disperatamente bisogno del nostro aiuto per essere ricostruita. Per questo c'è urgente bisogno di creare un corridoio umanitario tra Kobane e la Turchia.

Ancora oggi, nel luglio 2015, la città di Kobane, situata sulla frontiere turco-siriana, rimane soggetta degli spietati attacchi di ISIS. Dotata di armi meno sofisticate e di risorse limitate, l'incrollabile determinazione di sopravvivere è l'unica arma della popolazione di Kobane di opposizione all'ISIS, per mantenere la propria indipendenza ed essere liberi da tale brutale violenza. E questo è ciò che loro hanno intrapreso, a volte con il supporto delle forze aeree USA come parte della coalizione internazionale per resistere all'avanzata dell'ISIS. Il prezzo della resistenza di Kobane è stato alto: innumerevole il numero dei morti e dei feriti e le infrastrutture della città quasi completamente distrutte, che hanno lasciato le forniture di acqua, elettricità, cibo e medicine al collasso. E la minaccia derivante da ISIS non è stata ancora eliminata.

Durante la battaglia per Kobane, l'ISIS ha lasciato milioni di mine per bloccare il ritorno della popolazione alle proprie case e per rendere la coltivazione agricola da cui dipende la loro sopravvivenza impossibile. Kobane è quasi completamente chiusa dal resto del mondo ed ogni giorno deve fronteggiare nuovi attacchi. L'unica via attraverso cui la popolazione può ottenere le forniture necessarie alla propria sopravvivenza e protezione è a Nord attraverso la frontiera con la Turchia. Questo corridoio è per larga parte chiuso dal governo turco. La Turchia ha fornito asilo e cure mediche a molta gente proveniente da Kobane.

Ciò nonostante, data la scala della guerra all'ISIS e la catastrofica situazione della città, questo non è affatto sufficiente, specialmente da quando molti che erano scappati sono ritornati alla propria città distrutta al fine di ricostruirla. Mentre gli aiuti umanitari internazionali ad altre regioni della Siria sono stati forniti attraverso la frontiera turca, oggi dovrebbe essere possibile anche per la popolazione di Kobane ricevere aiuti. Solo se la frontiera con la Turchia fosse aperta, la popolazione di Kobane sarebbe in grado di ricevere tutto l'aiuto e l'assistenza che le è stato offerto al fine di rifornire, proteggere e ricostruire la propria comunità. La ricostruzione delle infrastrutture distrutte sarà possibile solo se ai volontari ed agli esperti dell'emergenza sarà garantito l'accesso sul campo alla città che è in urgente bisogno.

Per questo motivo stiamo chiedendo al governo turco di aprire urgentemente un corridoio per Kobane che permetta alla città di tornare a vivere ed alla ricostruzione di iniziare. Stiamo inoltre chiedendo a tutte le istituzioni internazionali ed al governo dell'Unione Europea di esercitare la propria influenza sul governo turco perchè finisca il blocco.

Le Nazioni Unite dovrebbero estendere la decisione S/RES/2165 (2014) del 14 Luglio 2014, Articolo 2, al fine di garantire un ulteriore passaggio di frontiera per Kobane. Nel passato, la comunità internazionale, in particolare le Nazioni Unite sono state in grado di garantire un corridoio umanitario attraverso l'intervento politico e diplomatico.

L'apertura della frontiera e il supporto alla ricostruzione di questa città sono oggi questioni di urgenza umanitaria

Valori universali come la democrazia e la libertà vengono oggi difesi a Kobane.

Comitato per la ricostruzione di Kobane

Firmato da:

Thomas Schmidt, Lawyer, Secretary General of ELDH, Germany; Prof. Dr. Norman Paech, International Law - Germany; Dr.h.c. Hans von Sponeck, UN Assistant Secretary-General a.D. - Germany; Murat Çakır, Geschäftsführer der Rosa-Luxemburg-Foundation Hessen-Germany; Prof.Dr.med.Ulrich Gottstein, Frankfurt/Main-Germany; Prof. Dr. Elmar Altvater, Germany; Janet Biehl, Writer, Eco-Feminist -US; Sukla Sen, Peace activist, India; Emma Wallrup, Swedish member of Parliament for the Left, Sweden; Benny Gustafsson, The support comittee for Kurdistan, Sweden; Prof. Franco Cavalli, President of Cancer Fight Association, former MP, Switzerland; Nina Rasmussen og Hjalte Tin, Denmark; Harem Karem, editor, Pasewan, India; Caroline Lucas, MP for Brighton Pavilion, House of Commons; Minoo Alinia, Associate Professor in Sociology,

Department of Sociology, Uppsala University, Sweden; Liliane Maury Pasquier, Federal MP and member of EC- Switzerland; Carlo Sommuruga, MP Social Democratic Party of Switzerland; Jean Zigler ,Membre du comité consultatif du Conseil droits de l'Homme des Nations Unies - Switzerland; Bernard Kouchner, Co-Founder of Doctor Without Borders and former Foreign Affairs Minister - France; Patrice Franceschi , Author of the Book `Die for Kobane` France; Edourd Martin, MEP - France; Vittorio Agnoletto, World Social Forum International Conciel, Italy; Claudio Bisio, Actor, presenter, voice actor, comedian and writer - Italy; Luisa Morgantini, Former Vice-President of European Parliament, Italy; Rete Kurdistan, Kurdistan Solidarty Network, Italy; Blade Nzimande: Minister of Higher Education and Traning and General Secretary of the SACP, ANC, NEC and NWC, South-Africa; Joyce Moloi Moropa: Member of South African Parliament (ANC), Soth-Africa' Zingiswa Losi : 2nd Deputy President of COSATU, South-Africa ; Jeef Radebe : Minister in the Presidency for Performance Monitoring and Evaluation (ANC), Lawyer, Former Political Prisoner, South-Africa; Lechesa Tsenoli: Deputy Speaker of the South African National Assembly, Former Minister of Local Government and Traditional Affairs, South-Africa;

Celiwe Madlopha: Member: National Assembly (Parliament) South-Africa ; Mugwena Maluleka: General Secretary of the South African Democratic Teachers Union (SADTU), South-Africa; Mluleki Dlelanga: National Secretary of the YCLSA, Young Comunist League of South Africa; Hillary Qjukuru: Niigeria, Editor of Uharu (Freedom) Magazine based in South Africa; Adrian Williams: Member: National Assembly (Parliament) South-Africa; George Mashamba : SACP Central Committee Member and former Robben Island Prisoner; Che Mathloke: SACP Central Committe member and Secretary for International Affairs and General Secretary of Friends of Cuba Society in South Africa; Jeremy Cronin : SACP 1st General Deputy Secretary and Deputy Minister of Public Works, South-Africa; Fiona Treggana: Proffesor of Economy, South-Africa; Sabir Abu Saadia: Representative of the SPLM-N Sudan in South Africa; Vuyani Iyhali : Communist Party of Lesotho (CPL) , South-Africa; Inter Parliamentary Work Group in Belgium; Coordination Stop the War against Kurds, Belgium; Kurdish Institutions in Belgium; Info-Turk, Belgium; VREDE, Belgium; Solidarity committee with Rojava,

Belgium; Union of the Socialist Women in Belgium; Belgium Immigrants Collective, Belgium; Anni Pues, Human Rights Lawyer, International Committee Scottish Green Party, UK; Minoo Alinia, Associate Professor in Sociology, Department of Sociology, Uppsala University, Sweden; Joost Jongerden, Assistant Professor, Wageningen University, Netherlands; Shannon Brincat, Academic, Griffith University, Australia; Sukla Sen, peace activist, India; Abdalkareem Atteh, Phd Student, Essex University, UK; Caroline Lucas MP, Green Party of England and Wales, UK; Derek Wall, International Coordinator of the Green Party of England and Wales; UK; Kate Osamor MP, House of Commons, UK; Val Swain, Phd candidate, University of East Anglia, UK ; Houzan Mahmoud, Kurdish feminist activist; Sean Hawkey, photo journalist, UK; Harem Karem, editor, Pasewan.com, UK; Isabel Kaser, PhD candidate SOAS, UK; Stephen Smellie, UNISON South Lanarkshire, Scotland; John Hunt, editor, writer; UK;

Corporate Watch, UK; Julia Iglesias, Newroz Basque-Kurdish Friendship Association, Basque Country; Joe Ryan, Chair of Westminster Diocese for Peace and Justice, UK; Bob Rossi, Labour and solidarity activist, US; Thomas Schmidt, lawyer, Secretary General of ELDH; Bob McGlynn, Neither East Nor West-NYC, US; Andreas Gavrielidis, Greek-Kurdish Solidarity, UK; Trevor Rayne Lecturer in Economics and Public Service Management & Fight Racism! Fight Imperialism! UK; Sarah Parker, human rights activist, UK; Bronwen Jones, barrister, UK; Peter Tatchell, Director, Peter Tatchell Foundation, UK; Dashty Jamal, Secretary, International Federation of Iraqi Refugees-IFIR, UK; Khatchatur I. Pilikian, Prof. of Music & Art, UK; Oonagh Cousins, Film Producer, UK; Joshua Virasami, Social Justice Activist, Black Dissidents, UK; Richard Haley, Chair, Scotland Against Criminalising Communities; Scotland; Nick Hildyard, policy analyst, UK; Isil Altan, Student, Kurdish Society of Nottingham Trent University, UK; Kardo Bokani, Assistant Lecturer, University College Dublin (UCD); Ireland; Jonathan Bloch, author; UK; Azad Dewani, PhD candidate; UK; Baris Oktem,

Post Graduate Sociology Department, University of Essex; UK; Campaign Against Criminalising Communities UK; Dr Meryem Kaya, Trainee doctor, Kurdish Professionals Network, UK; Tara Jaff, musician, UK; Kat Glover, IT developer, UK; Neil Taylor LL.M, PGCM, MCIPR, Lawyer and Journalist, UK; Roza Salih, Human Rights Activist (Glasgow Girl) and the Co-founder of the Scottish Solidarity with Kurdistan, UK; Jasim Ghafur, Visual Artist and Welfare Rights advisor, UK; Raoof Sofie, Accountant-UK; Tim Cooper, treasurer Nottingham Unite Community and Nottingham Kurdish Solidarity campaign, UK; Melissa Cowell, PhD student, Nottingham Kurdish Solidarity Campaign, UK; Yasin Aziz, Author, poet, UK; Penny Papadopoulou, freelance journalist, UK; National Union of Journalists (NUJ), Manchester Branch, UK;

Barbara Spinelli, lawyer, women's rights activist, Italy; Ugo Mattei, jurist, Professor, Hastings College of the Law, University of California, San Francisco; Federica Giardini, Professor, University of RomaTre, Italy; Sandro Mezzadra, Professor, University of Bologna, Italy; Beppe Caccia, researcher, Venezia, Italy; Benedetto Vecchi, journalist of IlManifesto, Italy; Martina Pignatti M., President of UnPontePer... NGO, Italy; Carlo Capellari, Lawyer, italy; Evelyn Dürmayer, Representative of the International Association of Democratic Lawyers(IADL) at the UN Vienna (Austria); La Casa Internazionale delle Donne di Roma, Italy; Erasmo Palazzotto MP – Vice president Foreign Affairs Committee at Chamber of Deputies, Italy; Massimiliano Smeriglio Vice President Region of Lazio, Italy; Andrea Catarci, President of VIII municipality of Rome, Italy; Peppe De Cristofaro MP, Vice president Foreign Affairs Committee at Senate, Italy; Arturo Scotto MP, Spokesperson of Left Ecology Freedom Party at Chamber of Deputies , Italy; Nicola Fratoianni MP, National Coordinator of Left Ecology Freedom, Italy; Celeste Costantino MP, member of Council of Europe's Parliamentary Assembly, Italy; Franco Bordo MP, Italy; Daniele Farina, MP, Italy; Marisa Nicchi, MP, Italy; Giovanni Paglia, MP, Italy; Giulio Marcon, MP, Italy;

Curzio Maltese, MEP, Italy; Marta Bonafoni, member of Regional Parliamentary Assembly of Lazio, Italy; Luca Casarini, member of National Bureau of Left Ecology Freedom, Italy; Gianluca Peciola member of Municipal Assembly Rome, Italy; Annamaria Cesaretti, member of Municipal Assembly Rome; Luca Gibillini, member of Municipal Assembly Milan; Claudio Marotta Council member of VIII Municipality of Rome; Alessio Arconzo, Human rights activist; CSOA La Strada, Roma; Casetta Rossa S.P.A., Roma; Action diritti in movimento, Roma; ESC Atelier Autogestito, Roma; LABAS, Bologna; T.P.O., Bologna; YA BASTA. Bologna; Celia Mayer, Culture and sports councillor, Madrid City Council; COBAS Trade union in Italy; Rojava Calling company help for kurdish in Rojava, Italy; Marco Bruciati, member of Municipal Assembly Livorno, Italy; Rete della Conoscenza, Italy; Giovanni Romano, lawyer, Italy; Anna Falcone, lawyer for human rights; Daniela Brancati, journalist, Italy;

Luisa Betti, journalist, Italy; Nazzarena Zorzella, lawyer in Bologna, Italy; Junior Sprea, artist; Carlo Balestri, Uisp international department; FIOM, Federations trade union Metal Mechanic, Italy; Dott.ssa Lea Boschetti, Membro del Consiglio Direttivo UNICEF, Italy; Stefania Spanò, cartoonist, Italy, Marta Ajò, activist; Paolo Ferrero, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista, Italy; Amedeo Ciaccheri, consigliere municipio VIII, Roma, Italy; Tiziana Dal Pra, Presidente del Centro Interculturale delle Donne di Trama di Terre Imola-Bologna, Italy; Stefano Galieni, Journalist, Italy; Luigi Ficarra, avvocato in Padova; Davide Falcioni, giornalista di Fanpage; Associazione Senza Paura, Genova; Angela Bellei, Associazione Azad, Italy; Mario Angelelli, Associazione Progetto Diritti; Anna Brambilla, Lawyer in Milan, Italy; Antonia Sani presedent of WILPF Italia (Women’s International League for Peace and Freedom), Italy; Servizio Civile Internazionale, Associazione Laica di Volontariato Internazionale, Italy...

Turchia. Una strategia sanguinaria

Dinamo Press
02 09 2015

Da Istanbul un reportage sulla strategia del terrore di Erdoğan e del governo turco in vista delle elezioni: operazioni militari in diverse aree del paese, decine di morti e feriti, arresti tra i giornalisti dell'opposizione.

Lo scorso 29 agosto il primo Ministro Davutoğlu ha dato l’annuncio della raggiunta formazione del governo transitorio che dovrà traghettare verso le nuove elezioni fissate per il 1 novembre; un passaggio tecnico, reso necessario dall’impossibilità di arrivare ad una coalizione di Governo con i partiti che alle elezioni di giugno hanno raggiunto il quorum necessario per sedere in parlamento; e che, assegnando i ministeri in base alle percentuali raggiunte, ha portato per la prima volta all’interno dell’esecutivo turco gli esponenti di una formazione filo curda. All’HDP, il partito democratico dei popoli, il cui ottimo risultato elettorale ha messo in difficoltà l’AKP, il partito del presidente Erdoğan, impedendogli il raggiungimento della maggioranza assoluta, sono stati assegnati il ministero dello sviluppo e quello degli affari europei; spettava all’HDP un terzo ministero, ma è stato rifiutato dal ministro designato, un esponente dell’ala sinistra del partito, che non ha voluto partecipare a un governo a fianco di promotori di guerra come l’AKP.

Da segnalare l’assegnazione del vicepremierato al figlio del fondatore del partito del MHP, quello dei cosiddetti “lupi grigi” che nonostante la contrarietà degli altri membri della sua formazione, ha accettato l’incarico, accondiscendendo la mossa di Erdoğan, il vero burattinaio di questa operazione, di recuperare consensi fra gli ultranazionalisti.

Solo due giorni prima della proclamazione del governo elettorale, nel sud est del Paese, morivano civili e diversi altri venivano feriti, nel corso di operazioni militari e di polizia; 3 morti nel distretto di Yüksekova, provincia di Hakkari, al confine con l’Iraq, dove dopo che il governatore aveva proclamato il coprifuoco, veicoli militari blindati hanno attaccato le persone scese in strada per protestare; poche ore dopo, nel distretto di Cizre, provincia di Şırnak, i fronteggiamenti fra le forze di sicurezza e simpatizzanti del PKK provocavano la morte di altri tre civili, fra i quali un bambino di soli 7 anni. Sempre in zona sud est, a Silopi, la mattina successiva alla proclamazione del governo, un raid delle forze di polizia sterminava 3 giovani presunti terroristi nelle loro case, mentre in serata un sedicenne veniva crivellato di colpi di nuovo a Cizre, per non essersi fermato a uno dei posti di blocco istituiti dopo i disordini dei giorni precedenti. Ancora a Silopi, il 1 settembre, un cecchino turco ha ucciso una donna e la figlia di 14 che dormivano sul tetto della loro casa.

Questi sono solo gli ultimi eventi di un bollettino di guerra che si compila giornalmente e nella quasi indifferenza dei media internazionali. La Turchia ha utilizzato il pretesto della guerra all’ISIS per dare il via ad una ricerca di terroristi ad ampio spettro, che fin da subito si è tradotta in un’offensiva nei confronti del popolo curdo. Da ormai due mesi le zone a maggioranza curda del paese e in Iraq vengono bombardate ed attaccate con mezzi militari pesanti, in molte città turche è stato proclamato il coprifuoco, centinaia di civili, fra cui anche diversi co-sindaci delle municipalità dove ha vinto l’HDP, sono stati arrestati, le foreste vengono incendiate e i villaggi sfollati. Una ferocia che si concentra soprattutto in quelle zone dove, come reazione alle continue oppressioni, alcune municipalità e alcuni quartieri hanno dichiarato un’autonomia politica che prende spunto dai principi del confederalismo democratico praticato in Rojava e di cui l’HDP interpreta lo spirito. Attacchi espliciti che niente hanno a che vedere con il presunto processo di pace sbandierato dall’allora premier Erdoğan, e che hanno portato i militanti del PKK ad interrompere il cessate il fuoco assaltando uffici governativi e postazioni militari, con l‘inevitabile tributo di vittime sia fra militari e poliziotti che miliziani.

In uno scenario del genere è indispensabile una maggiore attenzione da parte della comunità internazionale ed in questo senso va letta la carovana internazionale che dal 12 al 17 settembre sarà nel Kurdistan turco dove è prevista una manifestazione a Suruc, il 15 settembre, per chiedere l’apertura di un corridoio umanitario con Kobane e la Rojava.

Ma il conflitto non si circoscrive al sud est del paese; anche a Istanbul si sono verificati fatti gravi in relazione all’offensiva che le forze di difesa hanno messo in campo con la scusa della caccia al terrorista islamico: violenti blitz ed arresti a tappeto anche nei confronti di presunti militanti di organizzazioni illegali come il PKK e Dhkp-C, la formazione di ispirazione marxista leninista che negli ultimi tempi è tornata a compiere alcuni attentati e sequestrato un magistrato, poi morto nel blitz volto a liberarlo. In alcuni quartieri a maggioranza curda e alevita e dove queste formazioni sono insediate, come Gazi, Kanaria, Gültepe, le manifestazioni di protesta sono state duramente represse, i quartieri si sono barricati, per impedire l’ingresso delle forze di polizia e dell’esercito, e quotidianamente avvengono scontri.

Di repressione ce n’è anche per la stampa: una settimana fa sono stati licenziati 3 giornalisti di Miliet, quotidiano di centro-sinistra a tiratura nazionale, non più graditi all’AKP per le critiche rivolte al partito. Il 27 agosto a Diyarbakır tre giornalisti, di cui due britannici, sono stati arrestati con l’accusa aiutare i miliziani dell’ISIS mentre stavano filmando gli scontri tra le forze dell’ordine e i sostenitori del Pkk, Il 1 settembre il fermo è stato confermato, nonostante gli appelli di associazioni come Amnesty international, che ha denunciato come per l’ennesima volta le autorità turche impediscano di raccontare la realtà. Sempre il 1 settembre La polizia turca ha fatto irruzione ad Ankara negli uffici della holding Koza Ipek, che controlla diversi media critici come i quotidiani Bugun e Millet e il canale televisivo Kanalturk, con l'accusa di cospirazione.

Una strategia del terrore a 360 gradi, volta a condizionare l’informazione e a isolare e desertificare le zone da cui provengono molti dei voti che hanno consentito all’HDP di entrare in parlamento ed a risvegliare nei turchi pulsioni nazionaliste e fobie anti-curde, utili per riacciuffare i voti persi. Sono elezioni nuovamente cruciali per il paese, i cui risultati, secondo i primi sondaggi e le opinioni dei politologi, non varieranno di molto rispetto a quelli di giugno. Sempre che tutto si possa svolgere regolarmente: in questo clima il rischio di brogli è altissimo.

Inoltre, il Presidente Erdoğan si sta giocando il tutto per tutto: detentore con il suo partito di una maggioranza azzoppata e impossibilitata a formare un governo, terrorizzato da quanto politicamente l’HDP rappresenti nello scenario politico turco attuale e futuro, irritato dai successi militari dei curdi in Siria e preoccupato dell’influenza dei processi di confederalismo democratico del Rojava, non sta esitando a sacrificare pace e vite umane per tentare di tornare al potere assoluto, anche se con le mani grondanti di sangue.

di Serena Tarabini

Ci levate tutto, ci troverete nelle strade!

Dinamo Press
02 09 2015

Emergenze e degrado, Mafie capitali e funerali, un Giubileo alle porte, super poteri al prefetto di Roma Gabrielli e repressione delle lotte sociali: una città al collasso. Studenti e studentesse universitari e medi, Degage e movimenti per il diritto all'abitare invitano mercoledì 2 settembre ore 12:00 in Piazza dei Santissimi Apostoli per conferenza stampa di lancio dell'appuntamento di venerdì 4 ore 17:00 Piazzale Tiburtino corteo d'indignazione popolare.
A seguito delle indagini su Mafia capitale e dell'inaspettato Giubileo,il 27 agosto la gestione del Comune di Roma è stata affidata al 'SuperPrefetto' Gabrielli. Una figura scelta e voluta dall'esecutivo al fine di ripristinare la legalità a Roma. Le prime mosse di chi,sempre in veste di Prefetto ha gestito l'emergenza terremoto dell'Aquila, una volta salito al trono della capitale,sono state azioni di sgombero a tappeto,misure cautelari e repressione delle lotte sociali.

Il 25 agosto è stato sgomberato lo studentato Degage, uno stabile abbandonato di proprietà della BNP Paribas occupato nel 2013 durante lo Tsunami tour, e attaccato ignorando la delibera regionale che aveva già previsto l'assegnazione di case popolari utili a tamponare l'emergenza abitativa di cui questa situazione è frutto.

La risposta dei movimenti è stata immediata e dopo un corteo spontaneo nella stessa giornata, è stato indetto un corteo per venerdì 4 settembre alle 17 da piazzale Tiburtino con l'intento di arrivare sotto la Prefettura, individuando Gabrielli come il responsabile politico di queste misure. E si è subito azionata la macchina repressiva della Prefettura che ha colpito con gli Avvisi Orali (ex Art.1) sei attivisti di Degage e dei movimenti per il diritto all'abitare. Il corteo del 4 inoltre non è stato autorizzato dalla Questura, adducendo come motivazione il divieto di manifestare in Centro dal lunedì al venerdì.

Manganelli e repressione giudiziaria, tutti indici di una gestione autoritaria e antidemocratica del dissenso, sorda ai bisogni dei cittadini espressi nelle istanze sociali. Ma come contenere la rabbia di chi non ha casa o di chi combatte per mantenere il proprio posto di lavoro? Come tenere sotto controllo i dipendenti delle municipalizzate e degli Asili nido della capitale, di chi è costretto a pagare gli affitti più cari d'Italia per potersi assicurare una formazione superiore o dei migranti, che hanno intrapreso un viaggio disperato di migliaia di chilometri per poi essere incarcerati o espulsi?

Per chi si impegna quotidianamente per la costruzione di un'alternativa fatta di solidarietà e antirazzismo, palestre popolari,aule studio autogestite,studentati e case per chi non può permettersi un affitto, questa non è una battuta d'arresto!

Riempite i giornali ma poi la guerra la fate solo a noi: Ci levate tutto,ci troverete nelle strade!

Mercoledì 2 settembre ore 12:00 in Piazza dei Santissimi Apostoli conferenza stampa.

Venerdì 4 settembre ore 17:00 corteo da Piazzale Tiburtino.

Su le maschere!

Dinamo Press
02 09 2015

La comunicazione, inquadrata nell’intera molteplicità dell’odierno spazio mediatico, determina la creazione di verità. È indubbiamente un terreno cruciale per esprimere un’azione radicale sul reale, ma come?

Una riflessione collettiva in vista del seminario di Euronomade "Costruire potere nella crisi", Roma 10-13 settembre.

Di certo, oggi, non attraverso un lungo testo come questo. Il primo passo per un’analisi sulle forme di comunicazione è infatti assumere che la forma del testo scritto che siamo soliti impiegare non è all’altezza dell’istantaneità assunta oggi dalla comunicazione; esso non riesce a permeare la società nella quale vogliamo intervenire; banalmente, non comunica, non riesce a veicolare messaggi se non all’interno delle nostre cerchie. Tutto ciò non significa, ovviamente, che sia inutile scrivere un testo utilizzando più di 140 caratteri, quanto piuttosto che sia ingenuo pensare che esso possa essere genericamente diretto a tutt*. Insomma, se il testo di 4-5 pagine è il codice più efficace per confrontarsi e far circolare posizioni politiche all’interno degli ambienti del “movimento” in Italia, esso va usato con la consapevolezza di questo particolare “target” a discapito di altri, rispetto ai quali tale codice si mostra del tutto inefficace.

Proviamo dunque, con un documento del tipo sopra descritto, a fornire alcuni strumenti analitici utili alla discussione di Roma, e in particolare al workshop sui social network, per la costruzione di un metodo nel terreno comunicativo che sia in grado tanto di aprire a sperimentazioni pratiche, quanto di tracciare linee programmatiche.

Innanzitutto, l’analisi del sistema dei media: complessivamente ne usciamo perdenti, ormai lo percepiamo chiaramente. Assistiamo ad una diffusa estraniazione nei confronti delle narrazioni mediali la cui strutturazione gerarchica ed antidemocratica è maggiormente solida. Tale estraniazione, che investe in primis l’attivismo sociale e la vecchia sinistra ma non solo, pensando in generale alle giovani generazioni, non determina in alcun modo la fine della subalternità degli “estraniati” nei confronti della funzione di verità svolta da grandi televisioni e testate giornalistiche, dalle loro regole e dalle loro maschere.

Più nel particolare, l’analisi delle reti– e più propriamente il terreno dei social network – ci vede al contrario più capaci, più reattivi. Analizzare nel dettaglio i codici funzionanti su questo terreno, tanto nelle espressioni vicine ai movimenti quanto in quelle esterne, deve fornirci un implemento della capacità di agire all’interno dello spazio mediatico.

Ci sembra però utile, anche in questo campo, partire dai problemi riscontrati per elaborare le nostre contromisure strategiche.
Innanzitutto registriamo che i tempi delle notizie, delle storture e degli attacchi al corpo sociale svolti dal potere attraverso i media sono incommensurabilmente superiori ai nostri. Le nostre risposte sono spesso tardive rispetto alle accelerazioni di dibattito provocate dai “temi caldi”. Inoltre, la forma di risposta nettamente più usata, quella del comunicato scritto di cui sopra, rimarca e perpetua oggi quella “lentezza” già accumulata nel seguire l’accadere degli eventi e la possibilità di intervenirvi politicamente.

Con che forma allora si interviene sui temi imposti dall’agenda dei grandi media nemici?

Nei social network si evidenzia già un ruolo determinante nella produzione di (contro)informazione e discorso politico attraverso una moltitudine di “profili”, collettivi e individuali, tra i quali troviamo quelli di molti di noi. La nostra partecipazione “di parte” nelle reti sociali va identificata e definita più chiaramente per poterne chiarire i difetti e le potenzialità. Per fare un esempio, in un momento come l’attuale, certamente difficile per la capacità delle lotte di contendere al potere la costruzione di senso nello spazio mediatico, le risposte che riescono maggiormente a catalizzare i consensi dei nostri sciami d’opinione ci paiono spesso, ahinoi, volti ad un pessimismo pericoloso. Ciò rischia di investirci infatti di una valutazione morale della moltitudine (frutto degli allarmi sulle passioni razziste e sessiste che investono l’Italia con preoccupanti primati nel contesto europeo) che non permette una azione costruttiva di discorso, non aprendo alla prassi.

Ci sono per fortuna anche alcuni profili, che possiamo chiamare maschere, molto vicini a noi e che funzionano. Esse si nutrono di meccanismi di viralità che sono trasversali al successo negli ambiti delle reti sociali: ad esempio, la capacità tecnica specializzata nei microcampi dell’arte visiva (Zerocalcare) e la forte impronta ironica, asse portante della viralità stessa dei social network (Spinoza). Dalla scoperta di questi elementi come efficaci è importante partire per costruire forme di comunicazione differenti, specifiche, che riescano a smuovere le stasi che gli stessi media mainstream impongono nella loro costruzione di senso e a cui crediamo nel momento in cui vediamo espressi pessimismo e rassegnazione.

Gli esperimenti migliori di mobilitazione sociale tentati nell’azione sui social network hanno funzionato in una determinazione visiva, costruendo delle maschere utilizzabili da chiunque (Strikers nello Sciopero Sociale, V per Vendetta in Anonymous, Pulcinella nelle mobilitazioni campane). Analizzare queste esperienze, che su scala globale, regionale e urbana hanno determinato processi politici importanti, può aiutarci a costruire degli strumenti per valutare e sperimentare i processi comunicativi che mettiamo in campo.

Il tema della maschera ci porta ad affrontare una questione che ci pare determinante nel panorama mediatico complessivo. Sono le maschere, in fondo, segni che riescono a transitare tra le differenti sfere dello spazio mediatico. Per maschera intendiamo da un lato la funzione ricoperta dai corpi e dai volti dei singoli che intervengono nello spazio mediatico, in televisione come in rete, permettendo a chi vi entra in relazione, guardandoli, ascoltandoli, condividendoli, una forma di riconoscimento collettivo; dall’altro invece il profilo incorporeo che costruisce la sua fisicità attraverso un’identità che è insieme personale e collettiva, in particolare sui social network. In questo spazio, assistiamo sia al dispiegamento di una notevole capacità personale d’intervento, sia alla costruzione di forme d’identità mobile e allargata come nel caso della maschera di anonymous o dello striker.

Come lo striker per lo Sciopero Sociale, come la maschera di V per Anonymous, è il tweet di Renzi o la sua quotidiana “scenetta” che rappresenta oggi in Italia la maschera con cui il potere detta e distribuisce la sua agenda, la sua notizia, il dato attorno a cui spingere gli sciami.

Il focus su ciò che abbiamo chiamato “maschera”, ci riporta alla centralità di un altro elemento basilare del meccanismo comunicativo: il mittente. L’importanza di questo elemento comunicativo, oltre a quelli di codice/forma e destinatario da cui siamo partiti, rischia di rimandarci ad una questione fin troppo spinosa riguardante, in senso ampio, l’identità. Il problema che possiamo però porci da subito sul tema del mittente nei quotidiani tentativi di fare opinione politica sui social network è se, ad esempio, i fondamentali profili di informazione alternativa e quelli degli spazi occupati – i più utilizzati nei nostri ambienti per intervenire sui temi caldi nei social network – siano effettivamente gli strumenti migliori, le migliori maschere, per produrre opinione su temi specifici su cui il potere indirizza l’attenzione. La nostra impressione in merito è che la facilità di creare, ex novo, voci che non siano immediatamente identificabili per trattare i temi più in voga nel sistema mediale, ci doti di una potenzialità nell’intervento sui social network che dobbiamo approfondire, utilizzare e inflazionare per creare maschere transitorie che sappiano contendere in modo più specifico e tematico la creazione di senso.

Le maschere riportano infine al centro una corporalità che è integrata nei meccanismi di efficacia di tutti i contesti comunicativi e che la potenza dell’audiovisivo, persino nelle forme spettacolarizzate da questo assunte, esprime anche nei nuovi spazi comunicativi delle reti sociali. Sarebbe interessante continuare ad indagare la relazione che questa dimensione corporale della maschera e la sua efficacia ha con la questione della personalizzazione e dell’identità nei processi comunicativi di creazione di senso sul reale.

Tuttavia, ciò che può essere utile per imbastire una discussione volta alla costruzione di occupymaskwallmeccanismi pratici di comunicazione, è piuttosto tener presente l’in-mediata potenza della funzione corporale-visiva che abbiamo chiamato maschera, in tutte le sue forme. Dobbiamo dunque scoprire le prerogative, i meccanismi efficaci nei contesti di rete, consapevoli di dover sperimentare e quindi essere disposti a costruire maschere, persino individuali laddove già accade nei profili personali dei social network, che possano essere, sempre transitoriamente, utili nelle differenti fasi della lotta contro il violento potere, anche mediatico, che ci troviamo di fronte.

Pubblicato su euronomade.info come contributo alla discussione verso la Scuola Estiva di Roma 10-13 settembre 2015.

di Exploit_Pisa

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