Dinamo Press
28 07 2015
Il 7 maggio 2015, all’alba, veniva sgomberato SCUP, spazio occupato a San Giovanni. Il 7 maggio 2015, al tramonto, veniva occupato il nuovo SCUP da un corteo cittadino che denunciava lo sgombero, ma anche l’arroganza e le procedure anomale utilizzate dalla proprietà a scapito della volontà di un intero territorio.
Nelle ultime ore stanno sopraggiungendo decine di denunce per quei fatti. La celerità, generalmente anomala alla magistratura romana, ci restituisce l’idea che evidentemente quella giornata non sia andata molto giù all’amministrazione, al prefetto e alle forze dell’ordine.
In effetti, ammettiamo, che le facce basite della questura siano un ricordo piacevole di quel pomeriggio. Ma ancor più soddisfacente è stato vedere tanti e tante, dopo essere stati tutta la mattina sotto al sole inermi a vedere le ruspe fare a pezzi Scup, attraversare le strade di San Giovanni con il preciso intento di non far precipitare nelle macerie la ricchezza che quello spazio ha significato per il territorio.
Nato da quella voglia collettiva, infatti, Scup ha ritrovato non solo casa, ma una vera complicità con la Roma solidale. Una soluzione di continuità che leggiamo come una piccola ma significativa vittoria, e certo non scontata nella fase che stiamo attraversando. Una fase che a suon di sgomberi, intimidazioni, ammende economiche e svendita del patrimonio pubblico al miglior offerente privato, sta determinando un tabula rasa ed un’aperta guerra agli spazi sociali.
Come rete per il diritto alla città abbiamo ben chiaro che le coercizioni che gli spazi sociali ed i suoi attivisti subiscono sono il ritratto di un cambio di paradigma più generale. Non è una casualità che proprio in questi giorni di afa, la giunta Marino (sotto lo scacco direttivo della segreteria nazionale del PD), stia sancendo la definitiva messa a bando di un gran numero di servizi, dal trasporto alla gestione dei rifiuti, per citarne qualcuno. Così, mentre i romani in questi giorni afosi trovano rinfresco tra i nasoni di Roma (ancora per poco pubblici), la versione renziana della giunta Marino sta meschinamente predisponendo una sicura – ma non piacevole – doccia gelata per settembre che spazzerà definitamente quel poco che rimaneva dei servizi pubblici, di tutele sociali, garanzie e diritti.
Mentre il vergognoso scempio di Mafia Capitale ha lentamente consumato, depauperato e spremuto fino al midollo le casse del Campidoglio rendendo proficue persino le emergenze sociali, Roma viene investita dall’ignaro compito di essere archetipo e modello da seguire per risanare il dilapidato debito di bilancio comunale. E allora ecco che parallelamente a qualche bacchettata moralista contro il corrotto di turno e alla privatizzazione strategica delle politiche sociali e dei servizi, compaiono grandi e piccoli processi speculativi che in nome della rendita finanziaria ed immobiliare cementificheranno lupaettari di verde a Roma Sud per costruire il “necessario” stadio della Roma, costruiranno centri commerciali a Tor Pignattara, capovolgeranno la città in nome della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024.
Siamo di fronte ad una città allo sbaraglio, dove le sacche di resistenza, di denuncia politica e contrarietà vengono pedissequamente colpite in termini repressivi, mentre il resto di Roma si trova nel mezzo tra l’incudine del populismo grillino e il martello di una destra fascista che rimodula il suo pericoloso intervento politico e sociale. Una città che nel sociale cavalca la dottrina del decoro scambiando e riducendo il concetto di “qualità della vita” a quello della “sicurezza” e nel politico istituzionale propone l’uscita neoliberista di Mafia Capitale.
Che la situazione fosse complicata lo sapevamo da tempo ed è per questo che è da altrettanto tempo che stiamo sperimentando e scommettendo su forme nuove di rapporti sociali, su nuovi processi di definizione delle relazioni, di complicità, di mutualismo e di cooperazione che provino a ristabilire un equilibrio ed un’equità sociale che ad oggi è ridotta all’osso. L’esperienza di Roma Comune è stata solo l’inizio e non saranno certo le ennesime denunce intimidatorie che fermeranno le nostre rivendicazioni.
Dinamo Press
28 07 2015
In esclusiva per DinamoPress il nuovo saggio di Saskia Sassen tratto dal libro Fare Spazio (ed. Mimesis) a cura di C. Bernardi, F. Brancaccio, D. Festa e B. M. Meninni. Una sperimentazione collettiva sui temi del comune e del diritto alla città a partire dalla collaborazione tra la LUM, l'Istituto Svizzero di Roma e il Nuovo Cinema Palazzo.
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La parola è un elemento fondante delle teorie sulla democrazia e sulla politica. Come concetto, ha conosciuto espansioni e contrazioni di significato. Tuttavia, a quanto ne sappia e come altri sembrano confermarmi, non si è ancora arrivati a ipotizzare che la città possa parlare. Sostenere, come farò in questo saggio, che le città possano prendere parola, sebbene in modo ben diverso rispetto ai cittadini e alle corporation, significa per diversi aspetti confrontarsi con una questione trasversale tanto al diritto quanto all’urbanistica. La tematica non è affrontata in nessuno dei due ambiti di studio, soprattutto se non intendiamo limitare la nozione di parola alla sola sfera del governo urbano, né definire quanto la città dice attraverso le categorie del diritto. Pertanto, per indagare il problema, occorre allargare il campo analitico ove concettualizzare entrambe le cose, la parola come la città.
Le città sono sistemi complessi, sebbene incompleti. Ed è in tale incompletezza che si dà la possibilità del fare – il fare urbano, politico, civile. Caratteristiche, queste, che non appartengono alle sole città, ma che sono al contempo necessariamente iscritte nel dna dell’urbe – nella cityness, nell’essere città. Ogni città è diversa, come diverse sono le discipline che la studiano. Eppure, se l’oggetto d’indagine è l’urbano, non si potrà fare a meno di prendere in considerazione tre aspetti essenziali: l’incompletezza, la complessità, e il poter fare. Essi potranno darsi nel tempo e nello spazio in un’enorme varietà di formati urbanizzati specifici.
Alla luce di tale diversità, la ricerca urbana non ha bisogno di riconoscere la forma pura, astratta, di questi tre concetti essenziali – la complessità, l’incompletezza e il fare. Per lo più, chi si occupa di investigare o interpretare l’urbano lo fa attraverso nozioni specifiche del proprio campo di studio o appellandosi alla propria immaginazione, oltre a considerare i tratti concreti delle città che osserva. Eppure, quelle tre caratteristiche astratte saranno sempre presenti se è di urbe che si tratta, e non semplicemente di un’area ad alta densità di edifici di tipo specifico – lunghe schiere di case, o piuttosto di fabbriche o uffici. È per questo che una vasta zona residenziale suburbana non è una città, come non lo è un polo gestionale. Perché il concetto di città funzioni in termini analitici, dobbiamo saper essere concettualmente selettivi.
In questo testo, applicherò queste caratteristiche delle città a un’indagine sperimentale. Ipotizzerò che possano verificarsi eventi e condizioni in grado di rivelare alcune cose circa la capacità delle città di rispondere sistematicamente – di controbattere. Permettetemi di offrire una prima immagine di quanto ho in mente, attraverso un banale esempio: un’automobile, un mezzo fatto per andare veloce, esce dall’autostrada ed entra in città. Finisce in un ingorgo, non solo di auto, ma anche di persone che vanno e vengono. D’un colpo, la macchina è menomata: fatta per andare veloce, vede la sua mobilità arrestarsi. La città ha parlato.
Procedendo per approssimazioni, potremmo pensare a una simile presa di parola come a una capacità urbana, dove capacità è un termine ormai consolidato, mentre l’aggiunta dell’aggettivo urbana è una scelta insolita, che introduco per dare il senso di quella miscela sfuggente di spazi, persone e attività specifiche, soprattutto commerciali e civiche. Un termine che cattura la fisica sociale e materiale della città. Visto in questi termini, il concetto di capacità urbana diviene terra di confine analitica – né mero spazio urbano, né sole persone[1]. È la loro combinazione in circostanze ben determinate, in contesti densi, a fronte di potenzialità e attacchi specifici, che può generare la presa di parola. Si tratta di capacità urbane che possono manifestarsi in tutta una serie di situazioni e forme. E nel momento in cui ciò accade, si fanno parola.
Rendere giustizia a tutti gli aspetti di questo processo in un così breve testo sarebbe impossibile: mi limiterò a illustrare gli assi portanti del ragionamento. Il primo riguarda la città come sistema complesso e incompleto che rende possibile il fare, conferendo alle città stesse lunga vita. È combinando complessità e incompletezza che le città sono riuscite a sopravvivere a sistemi più potenti di loro, ma anche più formali e chiusi – Stati-nazione, regni, società finanziarie. L’altro asse del discorso riguarda la miscela delle diverse capacità urbane interpretabili come presa di parola e che, a loro volta, segnalano in senso più ampio la possibilità che le città possano esprimersi, sebbene attraverso una parola informale e generalmente non riconosciuta in quanto tale.
Il fondamento razionale di questa ipotesi sulla città e sulla parola ruota attorno a due considerazioni. Da una parte, la città resta uno spazio cruciale per le pratiche materiali di libertà, con tutte le sue anarchie e contraddizioni, nonché uno spazio dove chi è senza potere può farsi sentire, farsi vedere, fare politica. Dall’altra, queste caratteristiche delle città sono messe a repentaglio dagli intensi processi di de-urbanizzazione delle stesse, per quanto dense e urbane ci possano sembrare. Tra i fattori di minaccia, basterà citare le disuguaglianze e le privatizzazioni estreme, le nuove forme di violenza urbana, la guerra asimmetrica, i sistemi di sorveglianza di massa. Tuttavia, per accorgersi di tutto ciò bisognerebbe dedicare tempo ad ascoltare, e sperare di capire, quanto dice la città – e del resto se abbiamo dimenticato cosa sia l’ascolto, figuriamoci la comprensione. In quanto segue, esploreremo alcuni dei modi in cui la città prende parola.[2]
Tattiche analitiche
Quando mi confronto con riflessioni sperimentali di questo genere, devo prendermi la libertà di ricorrere a ciò che chiamo tattiche analitiche. Il metodo è troppo limitante. Una di queste tattiche consiste nell’operare ai margini di potenti spiegazioni che, sebbene meritino di essere prese sul serio, sono pericolose. La prima mossa consiste quindi nel chiedersi cos’è che la spiegazione lascia in ombra, visto che getta una luce così intensa su taluni aspetti della questione. Per esplorare la possibilità che le città siano dotate di parola, non posso ripararmi dietro le potenti spiegazioni su cosa sia la città. È una presa di parola che si dà nella terra di mezzo: non si tratta semplicemente della città come ordinamento materiale e sociale, parliamo di una capacità urbana sfuggente – né pienamente materiale, né del tutto visibile.
Un’altra tattica, in parte derivante dalla prima, attiene alla necessità di destabilizzare attivamente i significati. Una destabilizzazione che mi permette di vedere o comprendere quanto resta fuori dalle grandi narrazioni che spiegano un’epoca o organizzano un campo di studi, e che in tempi di rapide trasformazioni ritengo particolarmente necessaria.
Così, l’ipotesi stessa che la città sia dotata di parola porta a destabilizzare l’idea che la città sia una condizione evidente di per sé, che si contraddistingue per densità, materialità, folle di persone e per le loro interazioni multiple. È l’idea della città come schiacciante dato di fatto che occorre destabilizzare. Ciò che mi preme è indagare piuttosto la possibilità che, laddove persone, aziende, infrastrutture, edifici, progetti, immaginari e quant’altro si dispiegano interattivamente su un territorio delimitato, possa verificarsi qualcosa di paragonabile a una presa di parola: resistenze, intensificazione delle potenzialità – in breve, la possibilità che la città risponda.
Complessità e incompletezza: il fare possibile
Le città sono un luogo strategico per la produzione di nuove norme e identità. Hanno dimostrato di esserlo in diverse occasioni e parti del mondo, e in condizioni profondamente differenti. È per questa ragione che, sebbene a lungo segnate dal razzismo, dall’odio religioso, dalla spinta a espellere i poveri, le città si sono dimostrate storicamente capaci di mettere ordine al conflitto attraverso il commercio e l’attività civica. Un fatto, questo, che contrasta con la storia dello Stato-nazione moderno, che nel tempo ha teso a militarizzare il conflitto stesso.
Le condizioni che permettono alle città di formare norme e identità e trasformare i conflitti in rinnovato civismo variano nel tempo e nello spazio.
I cambiamenti epocali, come l’attuale passaggio alla dimensione globale, possono spesso generare capacità urbane di nuovo tipo. Oggi, con la globalizzazione e la digitalizzazione – e tutte le specificità che esse comportano – molte condizioni sono, ancora una volta, cambiate. La globalizzazione e la digitalizzazione hanno effetti di disturbo e destabilizzazione su ordinamenti istituzionali che vanno ben oltre le città. Tuttavia, la sproporzionata concentrazione e intensità in cui queste nuove dinamiche si danno negli spazi urbani, e in particolare nelle città globali, costringe a produrre nuove risposte e forme d’innovazione, soprattutto da parte dei più potenti e dei più svantaggiati, per quanto animanti da ragioni profondamente diverse.
Alcune di queste norme e identità giustificano forme estreme di potere e disuguaglianza. Altre sono specchio di un’innovazione forzata: è il caso noto di quanto accade nei quartieri popolati da migranti o nelle baraccopoli delle megacittà. Inoltre, se nelle città globali le trasformazioni strategiche sono più acuite e concentrate, molti cambiamenti possono anche trovare origine (nonché diffusione) in città che non costituiscono centri di potere e disuguaglianza estrema.
Le città non sono sempre la sede privilegiata dove produrre nuove norme e identità, o innovazioni istituzionali in senso generale. Ad esempio, tra gli anni Trenta e gli anni Settanta, in Europa e gran parte dell’emisfero occidentale le sedi strategiche per fare innovazione, attraverso il contratto sociale e le possibilità di prosperità per il ceto medio e la classe operaia offerte dalla produzione industriale e dal consumo di massa, sono state le fabbriche e i governi statali. In questo senso, la mia lettura della città fordista è per molti aspetti in sintonia con quanto sostenuto da Max Weber circa la città moderna e il fatto che questa, a differenza delle città europee del Medioevo, non costituisca uno spazio d’innovazione. Nel caso del fordismo la dimensione strategica, che vede le città perdere d’importanza, è quella nazionale, ma mi trovo in ciascun caso in sintonia con Weber nel pensare che storicamente sia stata la grande fabbrica fordista, come lo sono state le miniere, a costituire lo spazio d’innovazione: lo spazio di formazione di una classe lavoratrice moderna e di un progetto di sindacalismo rivoluzionario. In sostanza, la città non è necessariamente il luogo principe per la produzione di norme e identità.
Nell’era globale, le città tornano a emergere come spazio strategico per il cambiamento culturale e istituzionale. Tale strategicità di alcune città dell’oggi è essenzialmente dovuta a due condizioni, entrambe specchio di processi di trasformazione aventi effetti destabilizzanti sui precedenti modi di organizzare il territorio e la politica. La prima riguarda il cambiamento di scala rispetto ai territori strategici in cui si articola il nuovo sistema politico-economico e, quindi, anche il potere, quantomeno in taluni aspetti. La seconda è l’indebolimento della dimensione nazionale come contenitore del processo sociale, a seguito delle diverse dinamiche di cui la globalizzazione e la digitalizzazione sono portatrici. Il verificarsi di queste di due condizioni comporta tutta una serie di conseguenze per le città; ciò che conta, ai fini del nostro ragionamento, è che queste emergono come spazio strategico per processi economici di grande portata e attori politici di nuovo tipo – anche processi e attori non urbani.
Ai fini della mia riflessione, è importante distinguere gli spazi ritualizzati, e riconosciuti in quanto tali, dagli spazi non ritualizzati o non trattatati in questo modo. Nella tradizione europea occidentale, la nostra esperienza di urbanità consiste principalmente in una serie di pratiche e condizioni che il tempo e lo spazio hanno contribuito ad affinare e ritualizzare. Così, in questa nostra – in parte immaginata – tradizione europea, la passeggiata[3] non è una passeggiata come le altre, e la piazza[4] non è una piazza qualunque. Entrambi i termini sono intrisi di significati e di ritualità aventi una genealogia propria, ed entrambi contribuiscono alla creazione di un dominio pubblico attraverso la ritualizzazione.
Nel tempo e nello spazio, la storia ci offre anche fugaci immagini di una dimensione ben diversa, meno ritualizzata e scarsamente, se non affatto, intrisa di codici. È lo spazio del fare per chi non ha accesso a mezzi e strumenti consolidati. Nel corso dei miei studi, mi sono dedicata al recupero concettuale di un simile spazio, che chiamo «la strada globale». [5] Un luogo che racchiude in sé un numero esiguo, se non nullo, di quelle pratiche o di quei codici ritualizzati che la società tutta è in grado di riconoscere: uno spazio aspro, che può facilmente risultare incivile.
La città, e soprattutto la strada, è un luogo dove chi è senza potere può fare storia, in modi che nelle zone rurali sono impensabili. Non che sia l’unico spazio dove ciò sia possibile, ma è senz’altro un luogo strategico in tal senso. Nel momento in cui coloro che non hanno potere si manifestano, si rendono visibili gli uni agli altri, la loro condizione può mutare di natura, e ciò permette di operare una distinzione tra le diverse tipologie dei senza potere.[6] Non si tratta infatti di una condizione semplice e assoluta, riducibile all’impossibilità di esercitare alcuna forma di potere. In determinate circostanze, chi è senza potere può trovarsi in una condizione complessa, perché racchiude in sé la possibilità del fare politico, del fare civile e del fare storia. Un fatto, questo, che segnala una differenza tra l’essere senza potere e l’invisibilità/impotenza. Molti dei movimenti di protesta che abbiamo visto emergere in Medio Oriente, in Nord Africa, in Europa, negli Stati Uniti e altrove, ben esemplificano la questione. Quei manifestanti potrebbero anche non aver conquistato alcun potere: restano dei senza potere, eppure fanno storia e fanno politica.
Ciò comporta una seconda distinzione e una critica all’idea diffusa che qualsiasi cosa buona accada a chi è senza potere costituisca una forma di empowerment. Riconoscere che l’essere senza potere è una condizione che può farsi complessa rende concettualmente possibile affermare che chi è senza potere può fare storia anche senza conoscere empowerment alcuno, e che quindi il suo operato avrà un impatto anche se questo non dovesse manifestarsi nell’immediato ma solo a distanza di generazioni. Come ho avuto modo di discutere dal punto di vista storiografico in altra sede,[7] la storia fatta dai senza potere tende a dispiegarsi lungo un arco temporale ben più esteso rispetto a quella dei potenti.
Le capacità urbane: precedono la parola e la rendono comprensibile
Se la città è dotata di parola, che forma o tono avrà? La città in che lingua parla? E come possiamo comprenderla, noi che parliamo un’altra lingua e con voce a dir poco cacofonica?
Un primo, piccolo, passo sta nel postulare che questa presa di parola attiene alla capacità urbana di alterare, plasmare, provocare, invitare, e che tutto ciò avviene sempre in nome della valorizzazione o tutela della natura complessa e incompleta della città stessa. Permettetemi, per essere più chiara, di sviluppare questo punto esasperando un po’ i toni: se si vuole indagare la possibilità che la città parli, è a mio avviso insufficiente pensare alla stessa esclusivamente come a un dato di fatto.
La questione della parola non può essere ridotta a questo, sebbene il problema vada riconosciuto ed esplorato in termini analitici. Vale a dire, il problema è il completo appiattimento della città quale entità fattuale, mentre ai fini dell’analisi sarebbe opportuno far emergere gli elementi di diversificazione. Questo schiacciamento non aiuta a comprendere l’interazione tra questa stessa entità fattuale e le azioni che le persone compiono, ossia la dimensione del fare, di un fare collettivo che coinvolge spazio urbano e persone. Ad esempio, in città nell’ora di punta si finisce per urtarsi camminando, e magari qualche bottone si strappa, qualche piede viene calpestato. Ma in centro città, nell’ora di punta, nessuna di queste azioni sarà percepita come un affronto personale, a differenza di quanto potrebbe avvenire in un piccolo quartiere, dove rappresenterebbero delle provocazioni belle e buone.
A rendere un simile meccanismo possibile è un codice non detto proprio di questo spazio tempo: non è infatti uno spazio in sé, ma è costituito da persone che si trovano in centro nell’ora di punta. Si tratta di una capacità che dobbiamo saper nominare, e che rappresenta una forma di produzione collettiva frutto dell’intersecarsi di tempo/spazio/persone/pratiche di routine. A me piace pensarla come capacità urbana – dove la centralità urbana si dà attraverso ambienti edificati, pratiche di routine, e un codice intrinseco e condiviso. Una capacità che permette una serie di interazioni e sequenze complesse e che, così facendo, assume significati precisi.
Non si tratta solo dei risultati che produce, è il lavoro in sé di costruzione del pubblico e del politico nello spazio urbano a rappresentare un elemento costitutivo della cityness, dell’essere città. Le città forgiano nuove soggettività e identità in modi che non sarebbero possibili, ad esempio, nelle zone rurali, o in un Paese intero. C’è una sorta di fare pubblico che può intralciare le narrazioni consolidate e rendere in tal modo comprensibile quanto espresso dal locale e da chi è ridotto al silenzio, finanche nel contesto di ordinamenti visivi che mirano a ripulire lo spazio urbano. La prima ondata di gentrification a Manhattan ne è un esempio: un ordinamento visivo del tutto nuovo che non riuscì, per un certo lasso di tempo, a rendere invisibili i senza tetto che produsse. Oppure pensiamo all’immigrato che fa il venditore ambulante a Wall Street e che, nello sfamare qualche trafelato professionista della finanza, altera il panorama visivo del mondo degli affari con l’odore intenso delle sue salsicce arrosto. Esempi, questi, in cui ho l’impressione di vedere la città controbattere, modificando gli effetti perseguiti da eleganti modi di ordinare il campo visivo. All’estremo opposto, la socialità della città può far emergere ed evidenziare l’urbanità del soggetto e del contesto e diluire i significanti più locali o essenziali; quando le città si trovano ad affrontare grandi sfide, il bisogno di nuove solidarietà può produrre un simile spostamento.
Attraverso le mie ricerche, ho avuto modo di constatare come le componenti fondamentali della cityness siano il risultato dei duri sforzi compiuti per superare quei conflitti e razzismi che possono segnare epoche intere.[8] L’urbanità aperta che ha storicamente reso le città europee luoghi di cittadinanza estesa è frutto di tale dialettica. In termini più generali, movimenti composti dai gruppi più disparati, animati da rimostranze di ogni tipo, possono riuscire a coalizzarsi a prescindere da quanto profonde siano le differenze politiche al proprio interno. È l’interdipendenza di cui si fa esperienza quotidiana nella città a rendere la coalizione possibile: se in città vengono a mancare l’acqua, l’elettricità o i trasporti, il problema riguarda tutti – le differenze sociali o politiche non contano. Nello spazio politico nazionale, riuscire a coalizzarsi è meno probabile e non altrettanto necessario, visto il minor il grado di interdipendenza/dipendenza e la natura maggiormente astratta dello spazio stesso. I raggruppamenti parziali che si costituiscono nelle città possono arricchire il dna del civismo cittadino: sono meccanismi che alimentano la formazione di un soggetto urbano, anziché definibile in termini religiosi, etnici o di classe. Si tratta di alcune delle caratteristiche che fanno della città uno spazio di grande complessità e diversità.
Le grandi città che si trovano al crocevia dei processi di migrazione ed espulsione su vasta scala si sono spesso dimostrate, e continuano a dimostrarsi, luoghi capaci di accogliere un’enorme varietà di gruppi. Un’accoglienza che è spesso legata agli sforzi per divenire città in senso sempre più avanzato – e che ha come alternativa solamente la segregazione spaziale che de-urbanizza la città. Vale peraltro la pena notare che quando le città riescono a imboccare questa strada con successo creano le condizioni per una convivenza pacifica spesso molto duratura. Convivenza non significa necessariamente uguaglianza e rispetto reciproco: a interessarmi, qui, sono quelle caratteristiche e quei vincoli intrinseci alle città che generano interdipendenza anche a fronte di profonde differenze religiose, politiche, di classe e di altra natura. Le considero quindi capacità urbane simili a quelle infrastrutturali o sotterranee, i cui effetti sono in parte legati alle necessità di manutenzione di un sistema complesso, segnato da grandi diversità e incompletezze. È grazie a tutto questo che la città parla.
L’esempio più immediato e familiare che si possa fare è forse quello delle fasi di convivenza pacifica in città con forti differenze religiose al proprio interno, a riprova di come tali differenze non siano necessariamente portatrici di conflitto. E non parliamo solo del noto caso della Spagna degli Asburgo e di quella dei Mori, così ammirate per la coesistenza tra religioni diversissime, la prosperità diffusa e i governanti illuminati. Penso anche al bazar della Città Vecchia a Gerusalemme come luogo secolare di convivenza commerciale e religiosa. All’inizio dell’ottavo secolo, durante il califfato degli Abbasidi, Baghdad era una fiorente città polireligiosa, e persino sotto il brutale regime di Saddam Hussein è stata un luogo dove minoranze religiose spesso radicate da secoli, come la comunità cristiana e quella ebrea, vivevano in relativa tranquillità.
Ma la storia insegna anche che questa capacità può venire distrutta, come d’altronde è spesso avvenuto. Una distruzione che porta inevitabilmente alla de-urbanizzazione e ghettizzazione dello spazio urbano. Così, in netto contrasto con il passato, Baghdad è oggi una città dove regna il regime di fatto della pulizia etnica e dell’intolleranza – un regime catapultato dalla disastrosa e illegittima invasione statunitense. Un caso tra i tanti che dimostra come uno specifico evento esogeno, un fenomeno a tutti gli effetti de-urbanizzante, può rapidamente trasformare la differenza religiosa o etnica in fattore di conflitto. Un cambiamento di prospettiva di cui gli individui si trovano a fare esperienza diretta, o che essi stessi innestano. La logica sistemica nella Baghdad di Saddam Hussein era quella dell’indifferenza verso minoranze come quella cristiana ed ebrea: non era questione di tolleranza da parte dei suoi abitanti, né di governo illuminato.
Si direbbe che l’indifferenza sistemica, in molti casi, funzioni come una sorta di capacità sotterranea che viene messa all’opera: una forma di civismo che non si fonda su cittadini tolleranti e governanti illuminati, ma deriva dall’interdipendenza e dalle interazioni che si danno nel contesto dell’esistenza materiale ed economica della città. Viceversa, la rottura del meccanismo si palesa come vortice rovinoso di conflitti letali e pulizie etniche che de-urbanizzano la città e saccheggiano questa capacità urbana.
Le capacità urbane, nelle loro diverse versioni, sono riscontrabili in una molteplicità di casi, alcuni più sfuggenti di altri. Uno di essi riguarda la ripetizione, che è una caratteristica di fondo degli ambienti urbani costruiti come anche dell’universo economico e tecnico in cui siamo immersi più in generale. Tuttavia, nelle città, la ripetizione diventa produzione attiva di moltiplicazioni e iterazioni. Il contesto urbano, inoltre, disarticola il senso stesso di quella ripetizione.
La città è piena di ripetizioni, che vengono però continuamente afferrate e fatte proprie dalle specificità e dalle condizionalità dei diversi spazi urbani. Autobus, cabine telefoniche, appartamenti o uffici, per quanto complessivamente omogenei possano sembrare, assumeranno significati e funzioni diverse nei vari spazi che compongono una città. Ciò evidenzia come la diversità degli ambienti urbani possa conferire una caratterizzazione propria anche agli elementi più standardizzati, rendendoli parte di uno specifico quartiere, spazio pubblico, centro storico. Passando a un grado di complessità superiore, notiamo la profonda diversità che può contraddistinguere i quartieri di una città quanto all’aurea che emanano, ai loro suoni e odori, alle coreografie delle persone che quel quartiere attraversano e a coloro che vi saranno più o meno benvenuti. In sostanza, la ripetizione in città può essere qualcosa di molto diverso dalla ripetizione meccanica riscontrabile nella catena di montaggio o nella riproduzione di una grafica. Spingendomi un passo oltre, vorrei avanzare l’ipotesi che casi come questi esemplifichino una capacità a cui mi piace pensare come capacità di parola.
Un modo più sfuggente di prendere parola è manifestare la propria presenza. Nei miei studi ho interpretato questo manifestarsi come una forma di riscatto da parte di soggetti o eventi minacciati dal silenzio dell’assenza, dall’invisibilità, dall’estromissione virtuale/rappresentativa dal corpo della città. Sono particolarmente interessata a comprendere come i gruppi e i progetti a rischio d’invisibilità, per via dei pregiudizi e delle paure che albergano nella società, riescono a segnalare la propria presenza a se stessi, ad altri come loro, nonché ad altri diversi da loro. Ciò che mi preme è afferrare un aspetto specifico di questo meccanismo: la possibilità di manifestare una presenza dove regnano il silenzio e l’assenza. Una variante di questa manifestazione di presenza è il terrain vague, un’area sottoutilizzata o abbandonata che giace nel dimenticatoio, tra grandi infrastrutture e costruzioni architettoniche. Il terrain vague non è un fenomeno esclusivamente odierno: sebbene in contesti diversi, e con specificità variabili, è esistito anche in passato. Questa così sfuggente terra di mezzo costituisce, a mio avviso, una componente essenziale dell’esperienza del vivere urbano, che rende comprensibili ai nostri occhi le transizioni e instabilità proprie di determinate configurazioni spaziali. Finanche nella città più densamente costruita vi sarà terrain vague. Poiché si contraddistinguono visivamente come spazi sottoutilizzati, sono spesso luoghi densi di ricordi che rimandano ad altri ordinamenti visivi, a presenze del passato, che alterano la sostanza del loro essere, all’oggi, nient’altro che aree sottoutilizzate. Si tratta quindi di spazi carichi di significato, proprio perché non utilizzati. Come avviene per i ricordi, questi luoghi entrano a far parte della vita interiore della città, del suo presente, ma si tratta di un’interiorità che vive al di fuori dell’utilitarismo dominante orientato al profitto, con il suo modo di organizzare lo spazio. È il lotto vacante che permette a chi ha la sensazione di vivere circondato dalla città di entrare in connessione con quest’ultima, in un’epoca di rapide trasformazioni: uno spazio vuoto da riempire di ricordi, nonché un luogo dove attivisti e artisti possono realizzare i propri progetti. Questa manifestazione di presenza è una forma di parola.
Forze de-urbanizzanti
Grazie alla loro natura complessa e incompleta, le città hanno storicamente sviluppato la capacità di sopravvivere agli sconvolgimenti, riuscendo, in una certa misura, a mettere in campo la propria risposta e ad arginare le tendenze de-urbanizzanti. Ma non vi riescono mai del tutto. Il potere, che si tratti di élite, politiche di governo, o innovazioni nel panorama architettonico, può sovrastare il discorso della città. Un meccanismo riscontrabile nella logica delle grandi opere, nelle strade di scorrimento veloce che tagliano in pieno lo spazio urbano, nella natura estrema dei processi di gentrification che quello spazio privatizzano, nel proliferare di grandi conglomerati caratterizzati dalla bassa qualità delle abitazioni e dall’assenza di attività commerciali e luoghi di lavoro, e in molti altri casi. Tutti esempi di tendenze de-urbanizzanti attualmente in corso.
Viviamo in un’epoca in cui il senso consolidato delle cose sembra vacillare. La città, così grande e complessa, con tutte le sue diversità, è la nuova zona di frontiera. Ciò è particolarmente vero nel caso della città globale, un luogo parzialmente plasmato a immagine e somiglianza della rete transfrontaliera di città in cui è inserita. Nella città globale, attori provenienti da diversi mondi hanno la possibilità di incontrarsi, ma senza chiare regole d’ingaggio. Se un tempo la frontiera era costituita dagli scampoli d’impero più remoti, oggi attraversa le grandi e complesse città in cui viviamo. Ad esempio, le pressioni delle imprese globali a favore della deregolamentazione, delle privatizzazioni e di nuove politiche monetarie e di bilancio si sono in gran parte concretizzate e sviluppate proprio nelle città globali. È la strada scelta dagli imprenditori mondiali per costruire l’equivalente del fortino militare lungo la frontiera tradizionale: la loro rete di fortini è il regime di regolamentazione su cui devono poter contare, città dopo città, ovunque nel mondo, per garantirsi margini di manovra su scala globale.[9] È un attacco feroce alla città e alle capacità di cui dispone per continuare a esserlo.
Nelle mie ricerche sul tempo presente,[10] ho individuato tre scenari che possono provocare la de-urbanizzazione di una città. Il primo è il drastico aumento delle disuguaglianze più disparate, che può innestare radicali processi di espulsione – dalle case e dai quartieri, dagli stili di vita del ceto medio. Una tendenza che può farsi particolarmente acuta e visibile nelle città, dove gli spazi di lusso e povertà si amplificano. Il secondo scenario riguarda l’edificazione di nuove città, ivi comprese le cosiddette città intelligenti, spesso costruite a mero fine di profitto. Allo stato attuale, sono ben seicento le città in corso di edificazione o progettazione. A destare particolare preoccupazione, su questo fronte, è il ricorso intensivo a sistemi intelligenti chiusi per il controllo di interi edifici. Se consideriamo quanto in fretta le tecnologie divengono oggi obsolete, intere porzioni di queste nuove città rischiano di avere breve vita. Una sfida a mio avviso interessante, sotto questo profilo, sarebbe quella di cercare di urbanizzare le tecnologie in questione, affinché possano contribuire all’urbanità di simili aree. Il terzo scenario, infine, riguarda i sistemi di sorveglianza di massa, oggi oggetto di collaborazione tra diversi Paesi – soprattutto Stati Uniti, Germania e Regno Unito. Un punto, quest’ultimo, che vorrei discutere più in dettaglio nelle prossime righe.
Nel luglio 2012 il «Washington Post» ha pubblicato, in tre puntate, i risultati di un’inchiesta giornalistica durata due anni, intitolata Top Secret America.[11] Stando all’inchiesta, sono ben 1.271 gli enti governativi, nonché 1.931 le aziende private, che fanno parte di questa America top secret, per un totale di circa 854.000 persone, di cui 265.000 contractor privati, dotate di nulla osta di sicurezza ai massimi livelli – sarebbe a dire, circa una volta e mezzo la popolazione di Washington.[12 Sono le persone che lavorano per i programmi di lotta al terrorismo, la sicurezza nazionale e l’intelligence, nelle circa 10.000 sedi disseminate su tutto il territorio nazionale. Di queste, 4000 si trovano nella zona di Washington e occupano una superficie complessiva pari a circa 1,6 milioni di metri quadri – ovvero circa tre volte il Pentagono o 22 volte lo United States Capitol.[13]
Dentro tutti questi palazzi, potenti computer raccolgono enormi quantità d’informazioni derivanti da intercettazioni telefoniche, osservazioni satellitari, e altri strumenti di sorveglianza impiegati per monitorare persone e luoghi tanto internamente quanto esternamente agli Stati Uniti. Ogni giorno, la National Security Agency intercetta e immagazzina 1,7 miliardi di email, messaggi istantanei, indirizzi IP, telefonate e altri stralci di comunicazioni, selezionandone una piccola parte da archiviare in settanta diverse banche dati. [14] Parte di queste informazioni andrà poi a finire nelle decine di migliaia di rapporti top secret che gli analisti del campo producono ogni anno, ma a cui solo un numero estremamente esiguo di persone ha integralmente accesso – e peraltro il volume di questi rapporti è talmente grande che molti non vengono mai letti.[15]
Questo intero apparato di sorveglianza opera per garantire la nostra sicurezza. Nel nome della sicurezza, siamo tutti sotto sorveglianza, sarebbe a dire che siamo tutti considerati sospetti – sempre per la nostra sicurezza. La domanda sorge spontanea: nelle circostanze date, noi cittadini chi siamo diventati? I nuovi abitanti delle colonie?
Le città, con tutte le loro diversità e anarchie, con la loro capacità innata di contrastare le tendenze de-urbanizzanti, divengono uno spazio strategico per combattere l’idea che tutti debbano essere ridotti al rango di persone sospette. La città è il luogo dove è possibile, operando dietro le quinte della più familiare facciata della separazione e del razzismo, riuscire a sviluppare una sorta di convergenza strutturale che si elevi a dimensione sociale, permettendo a soggetti appartenenti a comunità profondamente diverse tra loro di unirsi per contrastare il predominio della sorveglianza. La possibilità che ciò si verifichi non cade dal cielo, ma richiede un duro lavoro. Ciò nonostante le città, così eterogenee e complesse, sono un luogo strategico dove una simile possibilità può materializzarsi.
Conclusioni
Perché è importante riconoscere l’esistenza delle capacità urbane, nonché la possibilità che costituiscano una forma di parola, con tutto il peso che l’affermazione comporta? Perché le capacità in questione sono proprietà sistemiche che permettono alla città di continuare a esserlo, ovvero di restare uno spazio complesso che prospera nella diversità e tende a mettere ordine al conflitto attraverso forme rinnovate di civismo. Inoltre, si tratta di capacità ibride – frutto della miscela tra la fisica materiale e sociale della città. Un’interdipendenza che comporta la continua trasformazione di entrambe queste sfere, con periodi di stabilità e continuità che si alternano a periodi di grandi sconvolgimenti, quale la fase in cui ci troviamo attualmente, iniziata negli anni Ottanta.
Non si tratta di antropomorfizzare la città. Si tratta di comprendere una dinamica sistemica capace di contrastare forze che hanno effetti distruttivi sul suo dna – un dna che, lo ripetiamo, costituisce l’essenza dell’essere città, con tutte le sue diversità. In situazioni limite, la città permette a chi è senza potere di fare storia e quindi di effettuare un salto critico – in cui l’essere senza potere da mera condizione diviene una complessità, e la possibilità di manifestare la propria presenza e fare storia entrano in gioco.
Ma queste capacità delle città non sono illimitate, e la storia ci offre esempi sia di città che si sono dimostrate capaci di sopravvivere a sistemi più rigidi e formali, sia di potenti forze de-urbanizzanti messe all’opera. Nella fase attuale, tra di esse troviamo le forme di disuguaglianza estrema, la privatizzazione dello spazio urbano con i diversi meccanismi di espulsione che ne conseguono, la rapida espansione dei sistemi di massa per sorvegliare i cittadini delle democrazie più avanzate del mondo. Tutte forze che riducono la città al silenzio e distruggono le capacità urbane.
Traduzione a cura di Eva Gilmore
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Note:
[1] Cfr. S. Sassen, Territorio, autorità, diritti, cit., cap. 8.
[2] La parola (speech) è qui intesa in senso giuridico astratto, come ad esempio quando si afferma che le corporation hanno facoltà di parola, per citare la sentenza Citizens United v. Federal Election Commission della Corte Suprema del 2010. Questa ha riconosciuto alle corporation il diritto a sostenere spese di natura politica in virtù del Primo emendamento sulla libertà di parola. Le città, come le corporation, non si esprimono con voce umana – parlano a modo loro.
[3] In italiano nell’originale (N.d.T.).
[4] In italiano nell’originale (N.d.T.).
[5] S. Sassen, The Global Street: Making the Political, in «Globalizations», n. 8, vol. 5, 2011, p. 565-571.
[6] Cfr. Id., Territorio, autorità, diritti, cit., capp. 6 e 8.
[7] Ivi, capp. 2, 3 e 6.
[8] Ivi, cap. 6.
[9] Ivi, cap. 5.
[10] Id., Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy, Belknap Press, Cambridge MA 2014.
[11] D. Priest, W.M. Arkin, A Hidden World, Growing Beyond Control, in «Washington Post», 19 July 2010; Id., National Security Inc., in «Washington Post», 20 July 2010; Id., The secrets next door, in «Washington Post», 21 July 2010.
[12] Ivi.
[13] Ivi.
[14] Ivi.
Dinamo Press
27 07 2015
Dopo l'attacco suicida a Suruc la Turchia di Erdogan, con la scusa della lotta all'Isis, dichiara guerra alle sinistre sul fronte interno e bombarda le postazioni dei curdi che da mesi si battono contro l'avanzata jihadista.
Dopo che le immagini della strage al centro culturale Amara di Suruc, base operativa delle solidarietà curda e internazionale al Rojava e a alla città di Kobane hanno fatto il giro del mondo, il sultano Erdogan non poteva più stare fermo e ha lanciato la sua campagna militare contro l'Isis. Ma l'obiettivo primario del governo turco sembra essere uno e soltanto uno: distruggere l'esperienza del confederalismo democratico nei cantoni del Rojava, colpire le postazioni del Pkk (che nel frattempo ha dichiarato rotta la tregua unilaterale) e criminalizzare la sinistra turca e curda, dopo lo straordinario risultato dell'HDP (il partito della sinistra curda) che ha superato alle ultime elezioni la soglia del 10%, impedendo ad Erdogan di avere la maggioranza assoluta in parlamento.
Se da mesi viene denunciata dai curdi la tolleranza turca per gli spostamenti dell'Isis, che passa regolarmente per il confine per portare a termine i suoi attacchi suicidi contro Kobane, ora quello che fa più paura è la possibilità di un'avanzata di terra da parte dell'esercito turco: da settimane si parla infatti della volontà di creare una 'zona cuscinetto' al confine siriano, un'eventualità, hanno già chiarito i partitigiani curdi dell'Ypg che da mesi combattono l'Isis (e indirettamente difendono il confine turco), che vorrebbe dire guerra aperta.
Da dopo l'attentato al centro Amara manifestazioni e scontri si sono susseguiti nelle città curde ma anche a Istanbul, in particolare nel quartiere di Gazi, e in altre città tuche, e non è stato raro vedere militanti della sinistra curda e turca sfilare con pistole e mitra, a rendere visibile che non ci sarà più tollerenza contro il terrorismo di stato. Il giorno dopo più di 300 militanti di varie formazioni di sinistra, tra cui molti dirigenti e militanti dell'Hdp, sono stati arrestati dalle forze di sicurezza in un'operazione antiterrorismo. Nel mentre i primi F 16 bombardavano indistintamente le postazioni della guerriglia curda e quelle dell'Isis in Siria. Ieri invece i caccia di Ankara hanno colpito villaggi civili e postazioni del Pkk nel nord dell'Iraq.
Il governatore di Istanbul intanto ha deciso di vietare la 'marcia della pace' indetta dall'Hdp per oggi in città: un chiaro segnale che lo spazio per la politica si riduce ogni giorno di più. "La guerra al terrorismo", che in Turchia nasconde la guerra ai curdi e alle sinistre, potrebbe avere come effetto non secondare la creazione di un governo di unità nazionale nazionale tra l'Akp di Erdogan e i partiti kemalisti inaugurando una nuova stagione di gestione del potere.
La scelta di trascinare in un confronto armato la guerriglia curda e criminalizzare la sinistra sul fronte interno è ovviamente un disastro per gli obiettivi di chi lotta per l'indipendenza e la democrazia, e potrebbe voler dire la fine dell'esperienza di democrazia confederale del Rojava. Per questo non dobbiamo abbassare la guardia e intensificare la mobilitazione internazionale, sperando al contempo in una ripresa della mobilitazione sociale di massa in Turchia, che eviti l'avvitamento di un confronto sul piano militare anche sul fronte interno.
Dinamo Press
22 07 2015
Il V Incontro globale “L'economia dei lavoratori e delle lavoratrici” si terrà dal 22 al 26 luglio in Venezuela, Falcón, Penisola di Paraguaná, Punta Cardón. Dal 2007, l'incontro internazionale “La Economía de los Trabajadores” si realizza ogni due anni, articolando uno spazio di dibattito tra lavoratori, militanti sociali, politici, intellettuali e accademici su questioni riguardanti i problemi e le potenzialità [...] di quello che abbiamo denominato come la “economía de los trabajadores y trabajadoras”, basata sull'autogestione e sulla difesa dei diritti e interessi della popolazione che vive del proprio lavoro nelle attuali condizioni di capitalismo globalizzato e neoliberale.
In questo incontro internazionale, il fulcro del dibattito è stato contraddistinto da temi come le esperienze di autogestione generate dai popoli sudamericani, come le fabbriche recuperate in Argentina, Uruguay e Brasile, i movimenti di cooperativismo dei lavoratori, le esperienze di controllo operaio e di cogestione nel Venezuela bolivariano, l'economia solidale e altre lotte per l'autogestione del lavoro e dell'economia. Si tratta di una discussione sempre più necessaria, in cui i nuovi, e i vecchi problemi, rivisti in chiave contemporanea di mondiale egemonia neoliberale, devono essere ridiscussi e ricostruiti.
In questo modo si sono articolati i quattro precedenti incontri internazionali, ai quali hanno partecipato compagni e compagne provenienti da tutto il mondo. Gli incontri si sono svolti a Buenos Aires (2007 e 2009), Città del Messico (2011) e a João Pessoa, in Brasile (2013). In quest'ultimo incontro si è deciso che il prossimo, quello del 2015, si sarebbe realizzato in Venezuela, a Falcón, Penisola di Paraguaná, e che nel frattempo si sarebbe spinta l'organizzazione di incontri regionali durante gli anni intermedi tra un incontro internazionale e l'altro. Con grande successo si sono realizzati vari incontri regionali in Europa, nella fabbrica recuperata della Fralib, a Gémenos, Marsiglia, il 31 gennaio e il primo febbraio 2014. C'è stato anche un incontro sudamericano il 3-4 ottobre in una fabbrica recuperata argentina, la Textiles Pigüé, che ha significato il ritorno del dibattito in sudamerica, dove tutto era cominciato. Nei giorni successivi all'incontro in Argentina, il 6-7-8 novembre ci sono stati altri incontri regionali in America del nord, centrale, nei Caraibi e in Città del Messico. A Città del Messico l'incontro si è tenuto presso l'Università Operaia del Messico, in un contesto di grande mobilitazione popolare per i terribili fatti riguardanti la scomparsa degli studenti di Ayotzinapa. Tra i vari appelli, La Economía de los Trabajadores ha espresso solidarietà e chiarimenti per quello che stava accadendo in Messico, a fronte del fatto che l'incontro internazionale non è solo uno spazio di dibattito ma anche di impegno nei confronti delle lotte dei lavoratori e dei popoli del mondo.
Nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, in particolare in America Latina, ampi movimenti sociali, organizzazioni popolari e movimenti di lavoratori, hanno sviluppato processi di organizzazione, che in molti casi si sono esplicitati nell'autogestione di unità economiche produttive o di servizi, come nel caso delle imprese recuperate dai lavoratori e altre forme di cogestione, controllo operaio e autogestione del lavoro, tanto urbano come rurale.
In alcuni casi, questi movimenti popolari hanno ottenuto una certa influenza sul governo del proprio paese, come è accaduto in diversi paesi sudamericani, ponendo una nuova questione al dibattito della relazione tra il potere statale e l'autonomia del movimento popolare che ha visto lo stato come potenziatore di questi processi anziché soltanto come strumento di potere tradizionale.
L'incontro in questione ha come obiettivo quello di mettere le questioni sopra citate, e altre collegate alla lotta dei lavoratori e lavoratrici, in un dibattito tra diverse prospettive e contesti nazionali, regionali e internazionali, legando il mondo accademico impegnato con queste lotte. Il punto di partenza del dibattito è l'esperienza di autogestione economica da parte dei lavoratori, le imprese recuperate, le esperienze di autogestione del lavoro, le cooperative, il movimento dei lavoratori sindacalizzati, lavoratori rurali, movimenti sociali, di diverse correnti politiche e intellettuali.
Ripetiamo qui quello che abbiamo segnalato nelle convocazioni precedenti:
“anche se in forma diversa e non dominante, i diversi settori e espressioni di una classe lavoratrice sempre più diversificata già presentano alternative che non si limitano solo alla sfera economica, ma anche che raggiungono fasce che permettono di intravedere una sovrapposizione di processi culturali che, basati su relazioni non capitaliste, danno come risultato spazi prefigurati nei quali si possono ridiscutere le relazioni interne di potere, di genere così come la relazione con la comunità. Questi processi, presenti all'interno delle fabbriche recuperate e ai processi iniziali di autogestione, fanno scorgere che a partire da questi piani i lavoratori e le lavoratrici possono presentare all'umanità un modello alternativo al capitalismo”.
Quindi, la proposta di questo incontro è quella di sviluppare uno strumento basato sulla critica e resistenza alla gestione dell'economia capitalista in primo luogo, ma anche la disposizione di forme proprie di gestione della classe operaia; per questo l'invito a V incontro internazionale in Venezuela è partito anche dall'iniziativa dei lavoratori delConsejo Socialista de Trabajadores y Trabajadoras de VTELCA e da un gruppo di organizzazioni della classe operaia venezuelana. Dal 2011 gli operai e le operaie della Zona Franca Paraguaná “Donato Carmona” stanno progettando un insieme di azioni che permettano di superare le contraddizioni insite nel sistema capitalista globale, e nello stesso tempo, che portino ad assumerci il nostro ruolo storico come classe operaia.
III- Modalità: aree di interesse
Il V incontro che si svolgerà in Venezuela si organizzerà in tavoli di lavoro raggruppati secondo le seguenti tematiche:
• Crisi del capitalismo globale e latinoamericano: analisi e risposte dall'economia dei e delle lavoratrici.
• Dibattito sull'autogestione, cogestione, controllo operaio, cooperativismo, imprese di produzione sociale e altre forme di fare economia da parte dei e delle lavoratrici.
• Problemi sulla costruzione di un'economia politica del lavoro: gestione, produzione e integrazione produttiva, tecnologia e situazione legale.
• Potere popolare, comuni, proprietà sociali e territorio.
• Il ruolo della classe operaia nella trasformazione dello Stato.
• Le sfide del sindacalismo e delle altre forme di organizzazione dei lavoratori nel contesto di globale capitalismo neoliberale.
• Lavori precari, informali e umili: esclusione sociale o riformulazione delle forme del lavoro nel capitalismo globale?
• Sistema educativo per la gestione partecipativa, trainante e democratica dei lavoratori e lavoratrici.
IV-Modalità di incontro
Durante i diversi incontri internazionali e regionali, si è andata sviluppando una metodologia di dibattito e coordinamento organizzato in diversi livelli che hanno il fine di facilitare la partecipazione e un'approfondita discussione dei temi sopra descritti. I temi hanno il fine di organizzare il dibattito ma non circoscrivono le possibilità di discussione. Le diverse fasi del dibattito sono costituite da: tavoli con espositori selezionati dal comitato d'organizzazione locale e internazionale; tavoli di lavoro con temi speciali e lavori sulla commissione; sarà anche aperto uno spazio per attività culturali inerenti.
1.- Tavoli di narrazione: saranno tavoli con dei relatori selezionati dagli organizzatori in accordo con i temi che verranno affrontati. Si partirà dai temi principali e si cercherà di combinare espositori nazionali con internazionali, operai manuali e intellettuali, che avvieranno il dibattito. In ogni tavolo si potrà esporre la propria esperienza, fare domande e interventi da parte dei partecipanti. I tavoli saranno collocati nella sala centrale e le esposizioni e i dibattiti non si sovrapporranno alle altre attività.
2.- Tavoli di lavoro: saranno organizzati per tematiche e saranno simultanei. Ai si raggrupperanno le relazioni presentate e le esposizioni dei e delle lavoratrici a partire dalla propria esperienza personale (senza il bisogno di relazione scritta, basta solo una breve sintesi del contenuto). Ci saranno anche laboratori e gruppo di dibattito su tematiche speciali proposti dalle organizzazioni partecipanti e dal comitato organizzatore.
3.- Commissioni di lavoro: saranno degli spazi di discussione aperta senza relatori e rappresentanti prestabiliti sulle tematiche dell'incontro. Sarà un momento dove poter rielaborare le narrazioni e i dibattiti dei precedenti laboratori.
V.-Tempistiche:
1.-Termine per la presentazione della sintesi della relazione: 15 maggio 2015.
2.- Termine per la presentazioni della relazione completa e proposte di presentazioni di collettivi sociali e lavoratori: 27 giugno 2015.
3.- Le relazioni si possono presentare preferibilmente in spagnolo, inglese, francese e portoghese.
4.- L'incontro è gratuito con iscrizione previa. Rivolgersi al comitato organizzativo.
VI.- Sede dell'incontro:
L'incontro si svolgerà a Punto Fijo, nella Zona Franca Industrial “Donato Carmona”, Paraguaná, Estado Falcón, República Bolivariana de Venezuela.
VII.-Equipo Organizador en Punto Fijo:Consejo Integrado de Trabajadores (CIT) de la Zona Franca Industrial de Paraguaná. Conformado por trabajadores de VTELVA; VIT; VIETVEN y UNERVEN.
Coordinación del V encuentro 2015 en Venezuela-Falcón-Península de Paraguaná:
• Franklin Medina, Trabajador de la Universidad Bolivariana de Venezuela. Teléfono 04146968644, correo electrónico Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
• Maximiliano Zapata, Trabajador de Venezolana de Telecomunicaciones C.A. Teléfono 04266691827, correo electrónico Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
• Oscar E Galicia, Trabajador de Venezolana de Telecomunicaciones C.A. Teléfono 04265644050, correo electrónico Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
• Oscar J Galicia, Trabajador de Venezolana de Telecomunicaciones C.A. Teléfono 04265642887, correo electrónico Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
• Jaime Corena, Trabajador de Corpivensa. Teléfono 04168649255, correo electró Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Comitato organizzativo venezuelano:
Movimiento Nacional por el Contro Obrero.
Frente Nacional de Lucha de la Clase Trabajadora.
Juventud Venezolana por la Industrialización Socialista JUVINDUS.
Movimiento Gayones.
Escuela coriana socialista de trabajadores y trabajadoras (Edo. Falcón).
Movimiento Conuco (Edo. Falcón).
MEGUN/Movimiento Estudiantil Gente Unexpo (Edo. Miranda).
Comitato organizzativo internazionale:
Programa Facultad Abierta. SEUBE, Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad de Buenos Aires. Argentina.
Cooperativa Textiles Pigüé. Argentina.
INCUBES-Universidade Federal da Paraíba, Brasile.
Área de Estudios del Trabajo del Departamento de Relaciones Sociales de la Universidad Autónoma Metropolitana-Xochimilco, Messico.
Núcleo de Solidariedade Técnica (SOLTEC), UFRJ, Brasile.
Programa Procesos de reconfiguración estatal, resistencia social y construcción de hegemonías, Instituto de Ciencias Antropologicas, FFyL, Università di Buenos Aires.
Unidad de Extensión, Facultad de Cs. Sociales, Universidad de la República, Uruguay.
Carrera de Relaciones del Trabajo, Universidad Nacional Arturo Jauretche (UNAJ), Argentina
Asociación Autogestión (Francia)
Red Workers Control.net (internacional)
Officine Zero y Ri-Maflow, fábricas recuperadas (Italia)
Centro para la Justicia Global (Messico/Stati Uniti)
ICEA (Instituto de Ciencias Económicas y Autogestión, Spagna)
Centre for Learning, Social Economy & Work (CLSEW), University of Toronto, Canada
Casa de los Trabajadores, Córdoba, Argentina.
Foro Joven (Colombia)
Trabajadores de la fábrica Vio.Me (Salonicco, Grecia)
Programa de Antropología e Historia de la Relación Capital-Trabajo en el contexto contemporáneo, Universidad Nacional de Córdoba.
Contatto comitato organizzativo internazionale:
Andrés Ruggeri (Programa Facultad Abierta, UBA, Argentina): Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Informazioni, iscrizioni e invio delle relazioni/presentazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Traduzione italiana Antonella Sartori per workerscontrol.net
Dinamo Press
20 07 2015
Nasce Tutmonda (https://tutmonda.wordpress.com/) un progetto editoriale e di approfondimento che si propone “dalla parte di chi mette a rischio la propria vita per salvarla o renderla migliore” , dalla parte dei migranti, di chi fugge dalle guerre rivendicando il proprio diritto a un luogo dove approdare, dove vivere e restare e, dalla parte di coloro che si battono ogni giorno contro ogni forma di razzismo e di esclusione in un paese pericolosamente esposto a derive xenofobe raccapriccianti, a guerre tra poveri, a forme di intolleranza esasperate.
Il nome viene dall’Esperanto , un’utopia di democrazia linguistica, di solidarietà e condivisione fra i popoli, che, più che mai oggi, viene infranta, in Europa e nel mondo. Riteniamo fondamentale segnalare la nascita di Tutmonda e invitiamo a visitare il blog, che ospita contributi –di parte - dalla parte dei diritti umani e delle battaglie di libertà- di voci autorevoli che da anni, in qualità di attivisti e di ricercatori, si battono per il rispetto dei diritti fondamentali: il diritto ad un’accoglienza degna, il diritto a muoversi, il diritto a restare.
E con loro condividiamo l'urgenza, la necessità, la responsabilità di costruire ogni giorno altre verità, altri modi di agire, perché "Ogni gesto della nostra piccola vita quotidiana deve opporsi alla marea crescente della follia. Superando ideologie e divisioni, con l’umiltà di renderci comprensibili, di rivolgerci a chiunque possiamo raggiungere. Oltre la paura, lo stupore, la frustrazione, la fatica, le nostre solitudini. Perché la posta in gioco è troppo alta, la più alta che la nostra generazione si sia mai ritrovata davanti."
Dinamo Press
14 07 2015
L'Eurosummit si chiude con la vendetta della Germania nei confronti di Atene. Entro mercoledì nuova tranche di riforme "lacrime e sangue" e poi via alle privatizzazioni in cambio degli aiuti economici. Dopo la trattativa di questa settimana molte cose non saranno più come prima
Dopo diciassette ore di trattative l’Eurosummit si è chiuso con un accordo che avrà probabilmente conseguenze devastanti. Un pacchetto di aiuti che si aggira tra gli 82 e gli 86 miliardi di euro verrà stanziato per un periodo di tre anni a favore della Grecia, se e solo se in questa settimana la Grecia approverà un pacchetto di riforme enormi. Perciò il parlamento di Atene è chiamato a votare entro il 15 luglio, cioè meno di tre giorni, su: la riforma delle pensioni, del fisco – comprensiva dell’innalzamento dell’IVA – l’autonomizzazione dell’istituto nazionale di statistica e la piena applicazione del Fiscal Compact, che prevede, tra le altre cose, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Entro il 22 luglio si dovrà riformare il codice civile e applicare pienamente la direttiva sulle crisi bancarie (Brrd).
Una volta approvate queste riforme e quindi ristabilita “la fiducia” dei creditori nei confronti del governo greco, l’Eurogruppo potrà dare il suo via libera per il Memorandum of Understanding, che dovrà essere votato in seguito, secondo le procedure dei singoli stati, da almeno sei parlamenti nazionali, tra cui – chiaramente – il parlamento tedesco. “Al fine di costituire la base per una conclusione di successo del protocollo d'intesa, l'offerta greca di misure di riforma deve essere seriamente rafforzata (…). Il governo greco deve formalmente impegnarsi a rafforzare le proprie proposte in un numero di aree identificate dalle Istituzioni”, con tempi chiari, obiettivi precisi, standard di riferimento e ispirandosi alle buone pratiche europee (traduzione nostra). Cosa bisogna “riformare”? E’ necessaria un’ “ambiziosa” riforma delle pensioni, una piena liberalizzazione del mercato dei beni e servizi (ex: farmacie, traghetti, aperture la domenica…), privatizzazione della compagnia elettrica, “una rigorosa revisione e modernizzazione del mercato del lavoro”, in particolare per ciò che riguarda la contrattazione collettiva e le misure industriali, rafforzare il sistema finanziario, eliminando qualsiasi possibilità di interferenza politica nel sistema bancario.
A queste riforme si aggiunge la costituzione di un fondo di 50 miliardi che si occuperà di gestire un massiccio processo di privatizzazione. Gli assets – o meglio i beni pubblici - considerati “valuables” verranno trasferiti a questo fondo che si occuperà di “monetizzarli” attraverso la loro vendita al migliore offerente. I fondi così ricavati verranno utilizzati per ripagare una parte del prestito triennale, per ammortizzare una parte del debito pubblico e per investimenti per far “ripartire l’economia”. Il fondo avrà sede in Grecia, e non in Lussemburgo come inizialmente previsto, e verrà gestito dalle istituzioni greche, sotto la supervisione delle Istituzioni europee. Ovviamente sono presenti minacciose clausole di salvaguardia, quali anche noi ben conosciamo.
Durante i negoziati la Grecia aveva costruito la propria linea di difesa attorno a quattro punti principali: il rifiuto della partecipazione dell’FMI al terzo programma di aiuti, l’opposizione al fondo per le privatizzazioni, la ristrutturazione del debito, la garanzia di liquidità alle banche. Soltanto sull’ultimo punto – stando al tenore delle dichiarazioni di queste ore – il governo greco sembra essere riuscito a strappare qualcosa, per il resto – a parte il trasferimento del fondo per le privatizzazioni dal Lussemburgo ad Atene – il governo Tsipras è stato costretto a capitolare. La stessa discussione attorno alla ristrutturazione del debito è presente nel testo dell’accordo in termini molto vaghi.
Durante il negoziato, come riporta questa infografica del Guardian di ieri, lo schieramento dei “falchi” dell’austerity, con a capo la Germania, ha portato fino in fondo il progetto ordoliberale europeo: o la Grexit o la capitolazione della Grecia. In entrambi i casi la Germania avrebbe vinto. I termini in cui si sono svolte le trattative e il contenuto stesso dell’accordo fanno emergere in piena luce un progetto di Europa costruito attorno a un blocco tedesco, forte di una maggioranza schiacciante all’interno dell’Eurosummit. La stessa proposta avanzata negli ultimi giorni dal ministro Schäuble sulla possibilità di una Grexit “a tempo” chiarisce la posizione della Grosse Koalition tedesca sul futuro dell’Europa. Se, come sosteneva Varoufakis nei scorsi giorni, l’eurozona è qualcosa di più di un’area a cambi fissi, ma è qualcosa di meno di uno entità statale, è altrettanto vero che il ricatto tedesco in questi giorni si è basato proprio sulla possibilità della Germania di aggredire i capitali ellenici in caso di uscita della Grecia dall’euro. Un’alternativa tra default e austerity che poteva essere rotta solo attraverso la costituzione di un fronte antitedesco al tavolo del negoziato, con la Francia in prima fila. Tutto ciò non è avvenuto e la scommessa di Tsipras sulla trattativa si è rivelata perdente.
Ora il parlamento greco dovrà votare questo pessimo accordo uscito dall’Eurosummit, lo scenario più probabile è che Syriza si divida e una parte voti contro, aprendo di fatto una crisi di governo cui potrebbe seguire la prospettiva di un governo di unità nazionale o addirittura le elezioni anticipate. In ogni caso, un’eventuale crisi di Syriza rappresenterebbe per la Merkel la ciliegina sulla torta. Diverso effetto, soprattutto in vista di elezioni anticipate e di un ricompattamento della sinistra radicale, potrebbe avere un clamoroso gesto di dimissioni di Tsipras al primo rilancio ricattatorio della trojka.
Di fatto sappiamo chi pagherà: i precari, i disoccupati, i lavoratori e un paese pauperizzato e umiliato. Non possiamo negarlo, questo accordo rappresenta una forte battuta di arresto alla possibilità di ridisegnare lo spazio europeo. Il potere economico tedesco ha utilizzato tutto il suo potere di ricatto, ma il più grande merito del governo greco è stato far emergere con forza esplosiva le contraddizioni dell’UE. La vittoria dell’#Oxi della scorsa domenica è stata innanzitutto l’apertura di uno spazio per riprendere in mano la decisione politica, ed è ancora questa la sfida che abbiamo di fronte: comprendere qual è lo spazio e la scala per poter tornare a decidere. In Grecia sono previste manifestazioni già oggi pomeriggio, mentre mercoledì è stato annunciato uno sciopero del settore pubblico, e sta circolando l'appello per una mobilitazione europea nei prossimi giorni. Lo spazio di mobilitazione sociale aperto dal referendum non è chiuso e chi ha votato "no" vuole rimanere in piedi. Su ciò che resta dell’Europa.
Dinamo Press
07 07 2015
Il testo conclusivo dell'assemblea della Coalizione dello Sciopero Sociale: una prospettiva di organizzazione sociale e conflitto verso il prossimo autunno
L’assemblea della “Coalizione dello Sciopero sociale” della scorsa domenica si è svolta in un clima di sospensione. Sospesa l’Europa neoliberale, in attesa dei risultati del referendum greco. La vittoria del “No”, epocale, ancora non chiarisce gli esiti del braccio di ferro tra il governo Tsipras e i creditori, e il destino dell’Europa rimane incerto. Con sicurezza possiamo dire che una breccia democratica si è aperta nella «gabbia d’acciaio» della tecnocrazia finanziaria, continentale e globale.
È all’interno di questo clima – nella consapevolezza che viviamo tempi di smottamenti radicali – che si è dipanata l’assemblea. Momento di passaggio utile per riprendere i fili del percorso avviato con lo Strike Meeting del settembre 2014, che ha definito una discontinuità potente con lo Sciopero sociale del 14 novembre e che, a partire dall’inedito esperimento autunnale, ha provato ad articolare nuovi dispositivi di sindacalizzazione diffusa. Senza nascondersi lacune ed elementi di blocco, la discussione si è concentrata sul desiderio di dare consistenza organizzativa alla coalizione messa in campo. Convinti che nessuno, in questa fase, è autosufficiente, e che la pluralità di coalizioni in campo nella scena italiana ed Europea non può che esser accolta, e attraversata, come fenomeno ricco e stimolante.
Sulla scorta del confronto, durato più di quattro ore, indichiamo alcuni sentieri di lavoro e anticipiamo fin da subito che ci rivedremo a settembre, per completare e implementare il dibattito avviato e per articolare più nel dettaglio campagne e agenda autunnale. Procedendo con ordine, seppur schematicamente.
1. L’assemblea ha riconosciuto nella straordinaria forza della mobilitazione della Scuola, la prima che seriamente sia riuscita a mettere in questione l’egemonia renziana, un paradigma del “fare coalizione”. Lavoro dipendente e precari, sindacati di base e sindacati confederali, studenti e movimento d’opinione: una combinazione delicata, di certo carica di contraddizioni e di attriti, ha dispiegato un conflitto potente che, considerato l’autoritarismo della governo, potrebbe riemergere a partire da settembre, con la riapertura dell’anno scolastico. Alla mobilitazione della Scuola sarà fondamentale agganciare la ripresa dei conflitti nelle Università, soprattutto a partire dalla rinnovata sperimentazione organizzativa dei ricercatori non strutturati, e consapevoli che alla “Buona Scuola” potrebbe seguire, fin dall’autunno, la “Buona Università”. Intanto, da subito, il sostegno pieno alla mobilitazione della Scuola del 7 luglio è passaggio fondamentale per rilanciare verso settembre e consolidare le relazioni fin qui sviluppate.
2. Un doppio processo ci ha spinti a riflettere sul 17 di ottobre prossimo. Giornata mondiale contro la povertà, il 17 ottobre è stato già indicato dalla campagna “Miseria ladra” come momento di mobilitazione per il reddito minimo garantito. La Coordination Blockupy, che si è svolta presso lo Sherwood Festival lo scorso sabato, ha rilanciato con forza 3 giorni di mobilitazione, dal 15 al 17 ottobre, contro il vertice UE di Bruxelles, indicando nel 17 occasione di convergenza transnazionale contro le politiche di austerity. Per questi due motivi, riteniamo il 17 ottobre un passaggio importante per l’autunno. Di più: proponiamo di avviare un “cantiere” capace di combinare al meglio uno spettro ampio di forze – nel senso della coalizione tra movimenti sociali, associazionismo radicale, sindacalismo conflittuale – e di definire profilo e pretese della mobilitazione. Nel mettere al centro la tematica del reddito, infatti, non possiamo lasciare in ombra il nodo del salario minimo europeo e dell’estensione universale del welfare. Pretese decisive che impongono un problema altrettanto decisivo: quello delle risorse. Con uno sguardo alla Grecia, il tema del debito e della sua rottura/ristrutturazione dal basso, contro holding bancarie e fondi di investimento, è tema imprescindibile.
3. Va da sé che le campagne e il paziente lavoro organizzativo, oltre le scadenze, sono elementi essenziali, e non corollari, della nostra convergenza. “Garantiamoci un futuro” e il conflitto sulle politiche attive che riguardano Neet e disoccupati; “Coalizione 27 febbraio” e il processo di sindacalizzazione di autonomi, parasubordinati e ricercatori non strutturati sui nodi della previdenza e degli ammortizzatori sociali; permesso minimo di soggiorno europeo di due anni, per rompere il ricatto che i confini della cittadinanza impongono al lavoro migrante: queste sono le campagne avviate negli scorsi mesi e che devono essere consolidate sul piano nazionale. Così come è necessario implementare e condividere strumenti, pratiche di lotta, dispositivi di nuova sindacalizzazione adeguati alle diverse sperimentazioni locali. Altrettanto, in riferimento all’agenda autunnale, è fondamentale articolare territorialmente la campagna sul reddito di base. Campagne che devono e possono essere l’ossatura sulla quale far crescere, nell’autunno e oltre, la scommessa della Sciopero sociale. Con l’ambizione di estenderlo sul piano europeo. L’appuntamento di Poznań, da questo punto di vista, è un’occasione importante, per rafforzare la traiettoria transnazionale e per allargare le relazioni oltre i perimetri soggettivi fin qui incontrati.
Note di lavoro dunque, da approfondire e da sviluppare a settembre, dopo la pausa estiva, in un nuovo appuntamento assembleare. Indicazioni utili, però, per cominciare ad avviare verifiche organizzative e progettuali, tanto sul piano nazionale quanto su quello europeo.
Abbiamo percorso una strada importante, ma siamo solo all’inizio. Avanti!
Dinamo Press
07 07 2015
Un nuovo attacco della giunta Marino: il Comune di Roma vuole mettere a bando gli spazi della Città dell'Utopia. 12 anni di attività contro le frontiere e per l'estensione della cittadinanza. Pubblichiamo una lettera aperta alla città di Roma
Care a Cari tutt*
Ci costa rabbia e fatica scrivere queste righe rivolte a voi tutt* e riguardanti il Casale Garibaldi e, nello specifico, il progetto La Città dell'Utopia. A voi che nel corso di questi anni avete più o meno direttamente attraversato questo progetto sociale di scambio, intercultura, stili di vita sostenibili e lavoro sul territorio di San Paolo, ma anche a voi che non lo avete ancora mai conosciuto.
Da 12 anni, La Città dell’Utopia è un progetto del Servizio Civile Internazionale che crea opportunità di scambio e conoscenza, garantisce accesso diffuso alla cittadinanza italiana ed internazionale senza frontiere, senza distinzione di sesso, religione, età.
La Città dell’Utopia non è solo uno stabile di proprietà di Roma Capitale, ma è un capitale di esperienze, conoscenze, relazioni che non può essere arrestato o “liberato”. La Delibera 140 del 30 aprile impone la messa a bando di circa 860 immobili di proprietà comunale, una manovra volta a fare cassa, a un guadagno economico che cancellerebbe le esperienze di chi quelli immobili li anima: piccole attività commerciali di quartiere, associazioni, cooperative, teatri, centri sociali, occupazioni abitative. Il Casale Garibaldi rientra tra questi 860 immobili, e pochi giorni fa ci è stato comunicato che sopra le nostre teste pende un bando, e alla sua uscita, presumibilmente a settembre, l'immobile dovrà essere “liberato”. Tuttavia, “liberato non è un termine che accettiamo in questo contesto. Perchè gli immobili vengono liberati quando sono vivi, quando sono attraversati da persone e attività sociali e culturali. I bandi non liberano, i bandi cancellano. Lo fanno con un colpo di spugna sulla storia passata dell'immobile, su quel capitale umano e sociale costruito nel tempo grazie agli sforzi volontari di tante e tanti.
Nessuno si è mai sentito custode di uno stabile ma portatore di messaggi e pratiche che hanno reso in questi 12 anni l’utopia un traguardo raggiungibile.
Per continuare a portare avanti questi messaggi e pratiche stiamo provando strade alternative e previste dalla Delibera 140, ovvero la concessione diretta in quanto il Servizio Civile Internazionale, associazione che ha in assegnazione il Casale, è membro consultivo dell'UNESCO. Se questa strada andrà a buon fine, la nostra situazione particolare sarà risolta, ma questo non cancellerà il problema di tutti gli altri spazi cui continueremo a rimanere accanto.
Quello che succede a noi sta succedendo, è successo e potrebbe succedere ad altri spazi sociali che nel corso degli anni hanno costruito un altro modo intendere la socialità e le relazioni umane, in altre parole comunità nuove che non pongono il guadagno monetario alla base del loro agire. Gli uffici tecnici sostituiscono ormai gli organi politici preposti, ma quante quanti di questi hanno abbandonato numeri e tabelle per toccare con mano queste comunità nuove?
Questo Casale vuole restare un crocevia di esperienze e pratiche, per questo chiediamo a tutte e a tutti un impegno a difendere questo capitale in pericolo quando riceverete la nostra chiamata.
La volontà esplicita è quella di rincontrare a breve le persone che hanno conosciuto La Città dell’Utopia e ne riconoscono il valore, per difendere non solo un Casale ma un patrimonio collettivo che collettivamente va’ difeso, per continuare insieme questo cammino verso le utopia che abbiamo diritto di coltivare.
L’utopia non si cancella!!
Dinamo Press
06 07 2015
Impressioni da Atene: un racconto della storica giornata referendaria in cui il NO vince con il 61,3 per cento, a cura della redazione di Dinamopress in Grecia con Blockupy goes to Athens. In mattinata le dimissioni di Varoufakis, domani convocato l'eurogruppo.
Atene il giorno del voto era calma, ma in trepidante attesa. La maggior parte dei cittadini con cui abbiamo parlato fuori dai seggi di Exarchia e Neapolis, strapieni di propaganda per il no, ci hanno raccontato con orgoglio e senza paura di aver votato no, al contrario dei pochi votanti per il si, quasi sempre non disposti a dichiararlo con altrettanta facilità. La linea di demarcazione è chiara: a Kolonaki e Aghios Panteleimonas la propaganda è tutta per il sì. E i voti pure, fino a raggiungere circa l’85 per cento. Nei quartieri popolari di Atene invece, dove la povertà è diventata norma con le politiche di austerità nei cinque anni di memorandum, il no ha raggiunto percentuali altrettanto alte. La divisione è netta nella società, tra chi ha pagato troppo e non accetta più l’arroganza dell’austerità, la violenza dei tagli e della povertà, e chi si arricchisce sfruttando, privatizzando, impoverendo.
Nel pomeriggio la tensione è molto alta, nessuno sa cosa potrà accadere, così come nessuno si sbilancia in previsioni; i sondaggi, dal giorno prima, avevano cambiato segno: parità per il si e per il no. Si giocherà tutto su poche percentuali di voto, dicono i giornali, greci ed europei, parte del sistema di potere impegnato fino in fondo in una battaglia di classe, di “terrorismo mediatico” contro il no. Di fronte alle sedi di alcune televisioni private, sponsor efferati del si al referendum, si erano radunati spontaneamente centinaia di manifestanti già sabato pomeriggio per una decisa contestazione.
Ma chi ha organizzato la campagna per il no, compagni ed attivisti che incontriamo di fronte le scuole, nelle sedi delle realtà di movimento, nei bar di Exarchia e poi anche nella sede di Syriza, piano piano comincia ad affermarlo, a crederci: “Vincerà il no, la piazza di venerdì ce l’ha fatto capire. La campagna mediatica di costruzione della paura non ha funzionato, vedrete che vincerà il no”. La settimana scorsa, ci raccontano, il numero dei cittadini per il No è cresciuto fino a strabordare nella manifestazione di venerdì. C’è ancora paura di dirlo apertamente, ma si diffonde nell’aria la possibilità di una vittoria. Più si avvicina la chiusura dei seggi, più la tensione sale, non si rilasciano più interviste e ci si prepara alla lunga attesa dello spoglio. I compagni sorridono, molti cominciano a crederci, ce la faremo dicono, si aspetta ancora ma la sensazione è positiva.
Dalla sede di Syriza, torniamo verso Exarchia, anche il nostro taxista ha votato no e ne è convinto: “I greci sono pazzi, vincerà il No, abbiamo pagato già abbastanza”. Pian piano si riempiono i tavolini del bar Atinaion, di fronte allo steki del Dyktio dove ci troviamo con i compagni di Blockupy, e sul maxischermo montato per arrivano le prime previsioni: tutte positive. Il no può avere un distacco del 2-3%, forse anche qualcosa di più. Inizia lo spoglio: il no è in testa. Sempre più compagni iniziano ad arrivare, le vie di Exarchia si riempiono di centinaia di persone in trepidante attesa. 8% scrutinato, 10% scrutinato, 15% scrutinato: la via è piena, il No è al 60%! Abbiamo vinto!
Più il conteggio avanza, più il risultato migliora, si profila una storica vittoria: la maggior parte dei greci ha votato contro la proposta di accordo, contro la troika, contro questa Europa, contro questo modo di negoziare, l’austerità, l’arroganza del potere finanziario.
La gioia esplode, ci muoviamo in corteo verso piazza Syntagma: ad ogni angolo nuove persone si aggiungono al corteo, dai palazzi si sentono applausi, gli automobilisti suonano i clacson e applaudono, bisogna festeggiare, questa è una vittoria di tutti! Atene si è riversata nelle strade: migliaia di persone incredule si sono abbracciate, hanno cantato e ballato per le strade, gioiose per un risultato netto che nessuno si aspettava ma che tutti desideravano.
La strana sensazione di vivere un momento storico, di aver ottenuto un risultato importante. Una rottura affermata con forza, un rifiuto netto che riconquista il futuro. Una vittoria che parla all’Europa, alle lotte contro l’austerity che da cinque anni hanno cominciato a costruire mobilitazioni da nord a sud dalle piazze occupate all’assedio della BCE.
Oxi ha vinto nonostante e contro il terrore mediatico della troika, ha rispedito al mittente la paura e l’arroganza. Ci si è cominciati a liberare dal destino già scritto dei sacrifici, della povertà imposta dal ricatto dei mercati finanziari. O meglio, un passaggio, decisivo e significativo, è stato fatto. Uno spazio di politicizzazione è stato ri-aperto, nella società greca, e in Europa. Una rottura costituente si sta dando con forza, articolata su più piani, dall’alto e dal basso, con lo sguardo rivolto alle lotte transnazionali, all’interno di un campo segnato da tensioni e contraddizioni ancora tutte da giocare, che già oggi si dispiegano nel campo della politica europea e globale. La paura, adesso, comincia a cambiare lato della barricata. La gioia è immensa a piazza Sintagma, una piazza composita in cui migliaia di persone cantano slogan, ballano e si abbracciano, scadendo: oxi, oxi, oxi!
Samaras annuncia, mentre avvengono i festeggiamenti in piazza, le dimissioni da segretario di Nea Democratia. Gli effetti del no travolgono chi con questo referendum voleva giocarsi la partita del ritorno di quelli di sempre, di quelli che hanno gestito con la paura e i tagli di cinque anni di aggiustamenti strutturali. Loro, gli alleati della Merkel e dei poteri forti europei, sono gli sconfitti greci di questo straordinario voto popolare.
La piazza è variegata, ci sono famiglie, attivisti, precari, pensionati e giovanissimi alla riconquista del protagonismo politico, ma anche tanti europei, italiani, francesi, spagnoli e tedeschi, venuti a supportare i greci, perché se gli Stati stanno provando ad isolare la Grecia, le piazze e le strade d’Europa sanno bene da che parte bisogna stare. Ha vinto l’Europa nata dalle lotte sociali, un’Europa costruita dagli incontri nelle proteste contro l’austerità, che con coraggio ha sfidato i poteri tecnocratici e finanziari, costruendo una solidarietà oltre ogni confine e divisione.
E farà bene, il governo Renzi, e i governi allineati con la tecnocrazia europea, ad avere paura da oggi in poi: la Grecia ci ha mostrato che è possibile rifiutare il ricatto, l’austerity e le misure che in questi anni hanno reso milioni di europei poveri e ricattabili, sacrificando nel nome degli interessi dei ricchi il futuro di intere generazioni. Un nuovo inizio, che necessita di una riapertura del conflitto. Un no che segna una significativa battuta arresto nella costruzione di questa Unione Europea, aprendo uno spazio inedito per il cambiamento. Come questo processo si dia poi concretamente, è la sfida che ci troviamo davanti.
La redazione di Dinamopress ad Atene