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Il congedo parentale? Parli con il preside

  • Ago 04, 2015
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04 08 2015

di Pietro Ratto

Buongiorno, volevo chiedere un congedo parentale. So che ne ho diritto per un massimo di trenta giorni, interamente retribuiti. Così, tanto per stare un po’ di più con mia figlia.

La segretaria guarda il professore con sospetto: quanti anni ha sua figlia? Tre. Tre già compiuti? Si, da qualche giorno. Allora no, non può. Il Ministero della Pubblica Istruzione le riconosce la retribuzione intera solo fino al terzo anno di età del figlio. Che strano!, pensa il professore. Che abbia letto male? Così ringrazia ed esce dall’Ufficio del personale. Tornato a casa, va a leggere bene. Dunque.. Decreto Legislativo 26.03.2001, n. 151 … Uhm, sì: è vero.. un massimo di trenta giorni di congedo parentale interamente retribuiti, solo fino al terzo anno di età del figlio… Ma non c’è anche un Contratto? Cerchiamo.. Eccolo, il CCNL per il comparto scuola.. Vedi? Non mi sbagliavo mica: l’articolo 12 estende il diritto fino agli otto anni di vita del bimbo..

La mattina dopo l’insegnante-genitore torna alla carica. Spiega cos’ha trovato, sommerge la segretaria di articoli e normative. Le conviene parlare col Preside, sa? Non so mica se lui sia disposto a concederglielo.. Non sa “se sia disposto a concedermelo”? Ma cos’è, un regalo? In un attimo il prof è in Presidenza. E in effetti le cose stanno così. Il Dirigente Scolastico ha ben presente il suo diritto, ma c’è un piccolo problema: non può concedermelo. Il Ministero non glielo permette. Il Ministero deve risparmiare, e questo genere di diritti non li riconosce. Entro i tre anni di vita, altrimenti il congedo non è pagato; punto e basta!

L’insegnante-genitore-allibito non demorde. Ah sì? Bene, allora vado di là e questo cavolo di congedo lo chiedo subito. Così, se poi mi viene negato faccio ricorso. Benissimo, faccia pure.

L’insegnante-genitore-allibito-incazzato “fa pure”! Entra, compila, firma. Tre giorni di congedo parentale per la bimba di tre anni e qualche giorno, prego. Dal 3 al 5 aprile 2013. Non le conviene chiederlo per l’altra figlia, professore? Quella che ha solo qualche mese, no? Così il permesso glielo accordano di sicuro. No, no. E’ una questione di principio.

Qualche giorno dopo, ecco il provvedimento del Dirigente, che gelidamente nega la pur dovuta retribuzione del congedo richiesto.

Col fogliaccio in mano, l’insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito va in cerca di sindacalisti. Tutti la stessa solfa: ma non ha detto che ha una bimba più piccola, di qualche mese? E lo chieda per lei ‘sto congedo, no? Visto che ha questa fortuna..! Roba da pazzi. Roba da pazzi!

Che si fa? Che facciamo? Com’è più che diceva mia madre? La dignità al primo posto! Cos’è che consiglia mia moglie? E’ una questione di principio, bisogna lottare! Niente da fare: il segreto della felicità è circondarsi di donne in gamba.

Quindi, eccolo dall’avvocato. Che gli fa anticipare una cifra esattamente doppia rispetto a quanto la scuola non gli ha pagato per quei dannati tre giorni di permesso. Ma è una questione di principio, no? E allora cacciamo i soldi. Bisognerà pur ricominciare a insegnare le questioni di principio, ai nostri giovani. Mica vogliamo che vengan su come la gentaglia che ci governa.. E le questioni di principio si insegnano con gli esempi concreti, quelli che viviamo sulla nostra pelle.. Non certo con la teoria.

Così, viene redatto il ricorso, super dettagliato, a cui l’Aran (l’Agenzia per la Rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) controbatte con una smilza “interpretazione” delle norme in questione, fornita dal ministero. Da una parte tutto un ragionamento basato sull’evidenza della legge, dall’altro una semplice “interpretazione” ministeriale. Che naturalmente dovrebbe bastare a cancellare un diritto, stile ventennio fascista. Il piccolo docente contro la gigantesca macchina del ministero. L’apoteosi della burocrazia.

Alla prima udienza, il 2 ottobre 2014, il Giudice del lavoro straluna. Non ne ha mai sentito parlare. Dice di volersi prima documentare. E’ logico: sono anni e anni che quando un docente si sente negare un diritto, piuttosto che rimetterci qualche soldo da un avvocato si tira indietro. E non capita solo agli insegnanti, probabilmente. Quindi? Se ne riparla a dicembre. Il 10 di dicembre, per l’esattezza, quando il Giudice annuncia che non intende ancora andare a sentenza. Dice che la cosa non è chiara, che non ha senso che un ministero firmi con i sindacati contratti collettivi che prevedono certi diritti, per poi fornire interpretazioni che li negano. Vuol capire meglio, il Giudice. E dà due mesi di tempo all’ARAN per incontrare i sindacati e dirimere la questione. Lo fa ai sensi dell’art. 64 del D.Lgs. 165/2001. Un’occasione mica da poco, insomma, che trasforma tutto l’ambaradan in un vero e proprio processo-pilota. Dal singolo caso di un insegnante-genitore-allibito-incazzato-agguerrito-fierodisé ci si proietta in un lampo a un diritto di tutti gli insegnanti-genitori italiani.

Ma l’ARAN se ne frega, in quei due mesi non convoca proprio nessun sindacato e ribadisce, lapidario, la sua “interpretazione”. Il 30 aprile, così, il Giudice va a sentenza. E condanna il Ministero.

L’iter processuale che è stato intrapreso, però, è molto particolare. Così, la sentenza è ancora da considerarsi “provvisoria”: in pratica, si dà al Ministero l’ulteriore possibilità di ricorrere entro due mesi. E non in Appello: in Cassazione. Due gradi di giudizio invece che i soliti tre, insomma.
Il 28 luglio 2014, il Giudice del lavoro riconvoca le parti, e sbigottisce. L’avvocato del Ministero ammette che l’ARAN non ha provveduto ad effettuare ricorso perché “se l’è dimenticato”. Quasi risentito, il magistrato rende definitiva la sua condanna nei confronti del Ministero e di quell’istituto che non ha retribuito l’insegnante-genitore-soddisfatto. Quel liceo dovrà pagare i tre giorni di permesso, sì, ma anche tutte le spese legali. Duemila euro, per la precisione.
Non li pagherà mica il preside, quei duemila euro, no. I presidi possono negar diritti senza perderci nulla. Se un tribunale condanna il loro comportamento, paga la scuola. Paga l’amministrazione pubblica. Paghiamo tutti noi, insomma. In questo caso, poi, a rimetterci sono soprattutto gli studenti di quella specifica scuola, perché i soldi che finiranno nelle tasche degli avvocati sono gli stessi con cui si sarebbero potute riparar lavagne, comprar carta igienica, cambiar toner alle fotocopiatrici… Tutte cose che non si fanno perché “non ci sono i fondi”. Quegli stessi fondi che, invece, quando li si butta in spese legali per riparare alle decisioni illegittime di un Dirigente, ci sono eccome.

L’avventura dell’insegnante-genitore-retribuito è così finita. Potrà servire a incoraggiare altri docenti a far valere di più i propri diritti? Non lo so. Sinceramente non lo so. Ma una cosa, con un pizzico di orgoglio, ve la voglio proprio confidare.

Quell’insegnante sono io.

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Questo articolo è tratto da Bosco Ceduo, l’ottimo blog di Pietro Ratto, che ringraziamo. Lo abbiamo visto pubblicato però su un altro blog con cui siamo sempre strafelici di scambiare le “figurine” del nostro racconto sociale, la Bottega del Barbieri. Per esigenze grafiche, abbiamo dovuto leggermente modificare il titolo originale, che era Il congedo
Tags:diritti, educare, scuola

Avete un nome ben preciso, schiavisti

  • Ago 03, 2015
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03 08 2015

di Saverio Tommasi*

Ho avuto la possibilità di vedere “Dodici anni schiavo”, il film premio oscar. Racconta la storia vera di Solomon Northup, nero nato libero e rapito per essere venduto come schiavo. E così restò, fra sevizie e soprusi, per dodici anni. Venne liberato, alla fine del film e a due terzi della sua vita, grazie a un incontro casuale con un abolizionista canadese.

Per il resto della sua vita da uomo libero Solomon Northup visse abbracciato alla sua famiglia e impegnandosi per l’abolizione della schiavitù. E aiutando gli schiavi a fuggire tramite la linea ferroviaria. Ripeto: e aiutando gli schiavi a fuggire tramite la linea ferroviaria.

Io, oggi, non vedo molta differenza fra quelli che vorrebbero la reintroduzione del reato di clandestinità, quelli che vorrebbero che la sanità pubblica non curasse chi non è in regola con il permesso di soggiorno, quelli che esultano quando un barcone affonda, e gli schiavisti del 1841, la data di inizio della storia del grande Solomon Northup. Niente di più, niente di meno.

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* Attore, scrittore, blogger, Saverio Tommasi è nato a Firenze e ama raccontare storie. “Il mio mestiere – scrive nel suo sito – è vivere le storie… Sul campo. Sul palco, attraverso una telecamera o un libro. Mostrare ciò che non si ha interesse a disvelare”. Quali storie? “Storie scomode. Voglio alzare i tappeti e raccogliere la polvere”. Ha scelto di inviare i suoi articoli a Comune con molto piacere

Denunce, ruspe e spazi liberati

  • Lug 29, 2015
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29 07 2015

Rete per il Diritto alla città

Il 7 maggio 2015, all’alba, veniva sgomberato Scup, spazio occupato a San Giovanni. Il 7 maggio 2015, al tramonto, veniva occupato il nuovo Scup da un corteo cittadino che denunciava lo sgombero, ma anche l’arroganza e le procedure anomale utilizzate dalla proprietà a scapito della volontà di un intero territorio. Nelle ultime ore stanno sopraggiungendo decine di denunce per quei fatti. La celerità, generalmente anomala alla magistratura romana, ci restituisce l’idea che evidentemente quella giornata non sia andata molto giù all’amministrazione, al prefetto e alle forze dell’ordine.

In effetti, ammettiamo, che le facce basite della questura siano un ricordo piacevole di quel pomeriggio. Ma ancor più soddisfacente è stato vedere tanti e tante, dopo essere stati tutta la mattina sotto al sole inermi a vedere le ruspe fare a pezzi Scup, attraversare le strade di San Giovanni con il preciso intento di non far precipitare nelle macerie la ricchezza che quello spazio ha significato per il territorio.

Nato da quella voglia collettiva, infatti, Scup ha ritrovato non solo casa, ma una vera complicità con la Roma solidale. Una soluzione di continuità che leggiamo come una piccola ma significativa vittoria, e certo non scontata nella fase che stiamo attraversando. Una fase che a suon di sgomberi, intimidazioni, ammende economiche e svendita del patrimonio pubblico al miglior offerente privato, sta determinando un tabula rasa ed un’aperta guerra agli spazi sociali.

Come rete per il diritto alla città abbiamo ben chiaro che le coercizioni che gli spazi sociali ed i suoi attivisti subiscono sono il ritratto di un cambio di paradigma più generale. Non è una casualità che proprio in questi giorni di afa, la giunta Marino (sotto lo scacco direttivo della segreteria nazionale del Pd), stia sancendo la definitiva messa a bando di un gran numero di servizi, dal trasporto alla gestione dei rifiuti, per citarne qualcuno. Così, mentre i romani in questi giorni afosi trovano rinfresco tra i nasoni di Roma (ancora per poco pubblici), la versione renziana della giunta Marino sta meschinamente predisponendo una sicura – ma non piacevole – doccia gelata per settembre che spazzerà definitamente quel poco che rimaneva dei servizi pubblici, di tutele sociali, garanzie e diritti.

Mentre il vergognoso scempio di Mafia Capitale ha lentamente consumato, depauperato e spremuto fino al midollo le casse del Campidoglio rendendo proficue persino le emergenze sociali, Roma viene investita dall’ignaro compito di essere archetipo e modello da seguire per risanare il dilapidato debito di bilancio comunale. E allora ecco che parallelamente a qualche bacchettata moralista contro il corrotto di turno e alla privatizzazione strategica delle politiche sociali e dei servizi, compaiono grandi e piccoli processi speculativi che in nome della rendita finanziaria ed immobiliare cementificheranno lupaettari di verde a Roma Sud per costruire il “necessario” stadio della Roma, costruiranno centri commerciali a Tor Pignattara, capovolgeranno la città in nome della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024.

Siamo di fronte ad una città allo sbaraglio, dove le sacche di resistenza, di denuncia politica e contrarietà vengono pedissequamente colpite in termini repressivi, mentre il resto di Roma si trova nel mezzo tra l’incudine del populismo grillino e il martello di una destra fascista che rimodula il suo pericoloso intervento politico e sociale. Una città che nel sociale cavalca la dottrina del decoro scambiando e riducendo il concetto di “qualità della vita” a quello della “sicurezza” e nel politico istituzionale propone l’uscita neoliberista di Mafia Capitale.

Che la situazione fosse complicata lo sapevamo da tempo ed è per questo che è da altrettanto tempo che stiamo sperimentando e scommettendo su forme nuove di rapporti sociali, su nuovi processi di definizione delle relazioni, di complicità, di mutualismo e di cooperazione che provino a ristabilire un equilibrio ed un’equità sociale che ad oggi è ridotta all’osso. L’esperienza di Roma Comune è stata solo l’inizio e non saranno certo le ennesime denunce intimidatorie che fermeranno le nostre rivendicazioni.

Se lavorare a scuola deve avere un senso

  • Lug 14, 2015
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14 07 2015

di Raimondo Giunta*

La scuola si pasce di speranza e di futuro; la scuola si nutre di libertà, di intelligenza, di passione e di collaborazione. Su questi parametri vanno misurate tutte le innovazioni a scuola; vanno misurate sul parametro delle opportunità che vengono date alle nuove generazioni per essere cittadini e lavoratori.

Per essere più chiari e precisi: le innovazioni riescono a cambiare le procedure abituali di riproduzione delle élites, dei quadri operativi del mondo economico, della ricerca, dei servizi secondo criteri di pari opportunnità? Esiste una correlazione tra innovazioni e possibilità di inserimento nel mondo del lavoro? La scuola sarà in grado di dire qualcosa di diverso e di meglio rispetto alla situazione attuale o continuerà ad essere l’anello debole del rapporto col mondo del lavoro, degli assetti economico-sociali?

Nella scuola è impresa ardua fare sintesi dei vari aspetti del sapere e della cultura umana e trasformarli in un progetto di vita per le nuove generazioni, che vi trascorrono il tempo della loro crescita, il tempo del loro passaggio dall’infanzia all’età adulta. Sarà impresa ancora più complicata dopo la manomissione alla quale è stata sottoposta, che l’ha resa più povera di slanci e di umanità.

I giovani dovrebbero apprendere a scuola quel che è sufficiente per assumere il ruolo di adulto: la capacità di svolgere un lavoro, la capacità di assumere delle responsabilità pubbliche e sociali, la capacità di esprimersi e farsi valere, la capacità di convivere, la capacità di scegliere e di accettarne le conseguenze, la capacità di finalizzare e progettare la propria vita. Troppe cose importanti e tutte necessarie per un’istituzione molto rinchiusa in se stessa, incattività dagli sfregi che ha subito, senza prestigio, senza identità educativa.

L’intruglio che con inaudita e insipiente frettolosità si è voluto approvare, spacciandolo per “buona scuola” non punta sulle competenze, nè sulla formazione della personalità, nè sui valori. Un pastone indigesto che affida agli arbitri di un capo e alla guerra di tutti contro tutti il compito di essere efficiente ed efficace in un campo dove contano solo responsabilità, cultura, intelligenza, libertà, autonomia, fiducia, dialogo, collaborazione.

In un momento particolarmente delicato della società ci si trova davanti all’intenzione dichiarata di cancellare ciò che ha consentito al sistema di istruzione di fare la propria parte. Intendo dire di quell’insieme di regole, di rapporti, di atteggiamenti, di procedure, che costituiscono la cultura di ogni singolo istituto e che costituisce lo sfondo morale della vita scolastica.

Ogni scuola ha la sua propria atmosfera che la rendono unica e che esercita un forte influenza su quelli che vi lavorano; sono destinate al fallimento le innovazioni che ignorano l’istituto come luogo di vita e di cultura. La legge delega approvata impedirà la valorizzazione e lo sviluppo delle energie professionali e intellettuali degli insegnanti, per gli evidenti tratti di autoritarismo che la distinguono.

Pensare l’istituto come luogo di cambiamento significa prendere in carico la sua complessità sociologica, psicologica, antropologica; non significa procedere per le vie spicce dei premi agli “adempienti” e delle punizioni per i “ricalcitranti”.

Con le nuove disposizioni sarà impossibile sviluppare un qualsiasi sentimento di appartenenza al proprio istituto, condizione cruciale per dare impulso positivo all’attività didattica e darle il senso unitario che si pretende in ogni piano dell’offerta formativa. Senza la libera continuità della permanenza nel proprio istituto, l’attività scolastica sarà un’inutile e ingiustificata fatica di Sisifo. Non si farà tesoro delle esperienze compiute, nè insegnamento dagli errori commessi.

L’istituto non è una semplice unità amministrativa, ma luogo di formazione e di educazione che deve avere un progetto e questo potrà essere portato avanti se il corpo docente agisce come collettivo di persone morali, libere, responsabili, capaci di impegnarsi nel difficile compito di preparare le nuove generazioni al lavoro e alla cittadinanza.

Se lavorare a scuola deve avere un senso bisogna rifiutare le scelte fatte con la legge delega; bisogna aprire subito la lotta per ritornare alla scuola del dialogo e della libertà.

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* ex dirigente scolastico

Non dimenticheremo. È una promessa

  • Lug 08, 2015
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08 07 2015

di Saverio Tommasi*

Patrizia è la mamma di Federico Aldrovandi, e oggi ha deciso di ritirare le querele presentate nei confronti del senatore Carlo Giovanardi, dell’agente di polizia Paolo Forlani, condannato in via definitiva per la morte del figlio, e del segretario del Coisp Franco Maccari. Patrizia ha detto:

“Non è un perdono, ma non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Ho riflettuto a lungo e alla fine mi sono accorta che avevamo vinto su tutti i fronti: non vi è infatti più alcun dubbio, tra l’opinione pubblica, su chi sono quelle persone”.

Patrizia ha ragione, ha sempre avuto ragione dall’inizio di questa storia. Patrizia ha pure detto: “Io non voglio sapere più nulla di loro”. Ha ragione, appunto. Ma il fatto che lei non voglia più saperne niente non significa che noi dovremo scordarcene. Niente affatto. Anzi, il tormentato riposo di Patrizia potrà forse godere di qualche carezza di serenità sapendo che noi non dimenticheremo.


Carlo Giovanardi è quello che disse, a proposito della foto mostrata dalla madre di Federico ritratto all’obitorio, che non si sarebbe trattato del sangue del ragazzo ma di un cuscino rosso.

Paolo Forlani è l’agente di polizia che secondo la Cassazione si appropriò degli ultimi istanti della vita di Federico Aldrovandi, e dopo la condanna in via definitiva offese la signora Patrizia con frasi immonde, la più gentile delle quali fu: “faccia di culo”.

Franco Maccari è il segretario generale del Coisp, quello che manifestò sotto l’ufficio dove lavorava Patrizia; ed è lo stesso che solidarizzò con il Sap per la standing ovation dei colleghi poliziotti ai condannati in via definitiva. Franco Maccari è anche quello che ha accusato Patrizia di essere una buona sfruttatrice della morte del figlio. Patrizia, a cui proprio loro hanno ucciso di botte un figlio di diciotto anni, e che ora ha ritirato le querele per diffamazione nei loro confronti.

Patrizia, tu hai il diritto di dimenticare le loro facce, anche se temo che non sarà facile. Noi invece abbiamo il dovere, e la voglia, di non dimenticare mai quei nomi, i loro volti e le loro storie. E questa è una promessa.

 

* Attore, scrittore, blogger, Saverio Tommasi è nato a Firenze e ama raccontare storie. “Il mio mestiere – scrive nel suo sito – è vivere le storie… Sul campo. Sul palco, attraverso una telecamera o un libro. Mostrare ciò che non si ha interesse a disvelare”. Quali storie? “Storie scomode. Voglio alzare i tappeti e raccogliere la polvere”. Ha scelto di inviare i suoi articoli a Comune con molto piacere

Fermate quella clausola. T-tip in aula

  • Lug 07, 2015
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07 07 2015

di Monica Di Sisto

Il T-tip torna in aula. Il parlamento europeo il 7 e l’8 luglio sarà chiamato a riesaminare il testo della Risoluzione con cui darà le proprie indicazioni politiche alla Commissione sull’andamento del negoziato transatlantico di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra Usa e Ue. Lo scoglio che si troverà di fronte intatto è l’inserimento o meno della clausola Isds, cioè quel meccanismo che permette agli investitori dell’altra parte dell’Oceano di citare uno Stato che avesse introdotto una normativa a lui sfavorevole, anche se utile per i propri cittadini. La maggioranza parlamentare, infatti, si era spaccata su questo tema al punto che il presidente del parlamento, il socialdemocratico Martin Schulz, per guadagnare tempo e riguadagnare numeri aveva rinviato il testo alla Commissione commercio internazionale (Inta) con la scusa che ci fossero troppi emendamenti da esaminare.

Ora, sotto la propria responsabilità, lo stesso Schulz ha proposto un testo di compromesso in cui, con un politichese impeccabile, nei fatti sostituisce l’Isds con lo stesso meccanismo, che evita di chiamare con lo stesso nome, ma definisce “meccanismo per risolvere le dispute tra investitori e Stati”, cioè precisamente la traduzione della sigla stessa. Un meccanismo cui, proprio come nell’Isds, possono ricorrere solo gli investitori, non gli Stati, tantomeno i cittadini semplici. Cause che potrebbero essere promosse “qualora gli interessi provati non possano minare gli obiettivi delle politiche pubbliche”, ma anche questo limite è posto senza spiegare che chi deciderà se gli obiettivi pubblici siano prevalenti o no sarebbe lo stesso meccanismo arbitrale, e non la giustizia ordinaria cui sono costretti a rivolgersi i cittadini semplici, ma anche le imprese che operano solo a livello nazionale o regionale. Quindi un compromesso che non mira alla sostanza, ma vuole offrire ai colleghi parlamentari un escamotage per votare l’Isds facendo finta di no.


Come vanno poi a finire solitamente queste cause lo spiega l’Unctad, Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, nel terzo capitolo del suo Rapporto 2015 su Commercio e investimenti. A guardare superficialmente i numeri potrebbe sembrare che esse vadano abbastanza bene per gli Stati, che sembrerebbero prevalere nel 36 per cento dei casi, su un 27 per cento di sentenze a favore degli investitori.

Ma cosa succede quando disaggreghiamo queste sentenze? Lo ha fatto il team legale internazionale dell’International Institute for Sustainable Development (Iisd), di cui seguiamo il ragionamento. La base analizzata è di 255 cause private: 144 deliberate a favore degli stati mentre 111 a favore degli investitori. Scopriamo che 71 di queste sentenze (pag. 116) vinte dagli Stati erano decisioni sulla competenza dell’arbitrato che, nei fatti, terminavano i procedimenti. E che quindi solo in 71 casi, cioè nel 28 per cento dei casi, gli Stati sono riusciti a fermare l’Isds contro gli investitori che vi ricorrevano, che sono risultati vincitori nel 72 per cento dei casi e hanno potuto portare avanti il loro ricorso. Tolte queste cause, dunque, sulle 255 decisioni arbitrali totali, sono 184 le cause in cui si è arrivati a discutere il merito, e di queste gli investitori ne hanno vinte 111, cioè il 60 per cento. Quindi le nostre democrazie risultano più che esposte alla potenza degli interessi privati.


In virtù di queste buone ragioni la Campagna Stop Ttip in tutta Europa lancerà una nuova mobilitazione via e-mail, Facebook e Twitter per chiedere nuovamente ai parlamentari europei di non cadere in questa trappola retorica. Anche perché molti eletti sembrano essersi accorti del nuovo espediente, e sono pronti a fermarlo. I tre parlamentari italiani Tiziana Begin del M5s, Sergio Cofferati del gruppo europeo socialdemocratico e Eleonora Forenza della sinistra ecologista hanno lanciato un appello tripartisan ai propri colleghi per escludere l’Isds dai futuri negoziati: “Chiediamo ai nostri colleghi e ci impegneremo nel prossimo passaggio parlamentare affinché non vengano approvati accordi al ribasso o posizioni ambigue che ledano anche indirettamente il diritto delle istituzioni Europee e degli Stati membri di legiferare in difesa dei diritti dei cittadini e dei consumatori”.

Un appello del tutto condivisibile che chiediamo venga sostenuto da tutti quei parlamentari che hanno a cuore i nostri diritti. Una lista di eletti che terremo con cura, e che renderemo nota con tutta la forza di cui saremo capaci.

 

* vicepresidente di Fairwatch, tra i promotori della campagna Stop Ttip Italia tra i fondatori di Comune.
Pubblicato anche sul blog della campagna su Il fatto quotidiano

La questione greca e la lotta della scuola

  • Lug 06, 2015
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06 07 2015

di Matteo Saudino*

Il referendum di domenica 5 luglio che si tiene in Grecia riguarda molto da vicino il mondo della scuola pubblica. L’Unione europea dal trattato di Maastricht (1992) ha infatti imposto agli stati membri politiche economiche liberiste e monetarie imperniate sul pareggio di bilancio, sul basso costo del lavoro, sul sostegno alle offerta e alle imprese, sulla privatizzazione dei beni e servizi pubblici e sulla drastica riduzione del welfare state (in primus sanità, istruzione e previdenza). I governi nazionali come dei bravi scolaretti devono eseguire i compiti assegnati loro dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. Questa Europa è una sovrastruttura politica al servizio degli interessi economici della Germania e della grande borghesia finanziaria e industriale del vecchio continente alle prese con una competizione capitalistica globale sempre più spietata.

In questa prospettiva ci sono popoli, stati e classi sociali che devono essere sacrificati in nome della massimizzazione del profitto e dell’egemonia economica. La Grecia, che ha accumulato debiti a causa delle scelte politiche dei governi e delle banche tanto amate da Bruxelles sta subendo un vero e proprio attacco terroristico da parte dell’Europa, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale: non riesci a restituire i soldi che ti abbiamo prestato? Bene allora fai pagare il conto al popolo e ai lavoratori: taglia le pensioni e i salari, licenzia dipendenti pubblici, aumenta l’Iva, privatizza i servizi pubblici e rendili più cari e non accessibili a tutti.

Si tratta di un vero e proprio assedio finalizzato alla conquista della ricchezze della Grecia, la quale da queste politiche di austerità non si risolleverà mai, diventanto così un’area di realizzazione di profitto del Fondo monetario internazionale e delle banche e imprese che gli gravitano attorno.

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* docente di storia e filosofia a Torino

Filiera sporca, dal campo allo scaffale

  • Giu 29, 2015
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29 06 2015

#FilieraSporca è il rapporto che fa luce sulle condizioni di sfruttamento dei braccianti nelle campagne di Sicilia e Calabria. Attraverso interviste sul campo, dati e confronto con gli operatori del settore si ricostruisce un modello produttivo gestito dai grandi commercianti locali in cui si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata


Che fine fanno le arance raccolte sfruttando il lavoro dei migranti? E quali sono le responsabilità delle multinazionali, dei commercianti e dei produttori? A queste domande cerca di rispondere il rapporto “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org” e presentato qualche giorno fa alla Camera a Roma.

L’obiettivo è risalire l’intera filiera delle arance raccolte in Sicilia e in Calabria, dal campo allo scaffale, per individuare i veri invisibili dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Un percorso gestito e diretto dai grandi commercianti locali che organizzano le squadre di raccolta, prendono accordi con le aziende di trasporto e con le multinazionali. Ed è proprio in questi passaggi che si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata. Antonello Mangano, che ha curato l’indagine, spiega: “Il cuore della filiera è un ceto di intermediari che accumula ricchezza. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa”.

LA FILIERA DELLO SFRUTTAMENTO. “Mentre viene celebrato l’Expo come una grande occasione per rilanciare il Made in Italy, intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro”, si legge nel rapporto. Tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Nella filiera delle arance convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Dal ghetto di Rignano (Foggia), alla baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), fino all’area di Saluzzo (Cuneo), lo sfruttamento ha le stesse caratteristiche: un uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile; situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana; bassi guadagni a fronte di molte ore di lavoro; una “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità e sulla presenza mafiosa; manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato. I braccianti spesso non vengono pagati, sono minacciati, subiscono aggressioni fisiche e stupri: sono ridotti in schiavitù.

PICCOLI AGRICOLTORI E GRANDI COMMERCIANTI. Secondo il rapporto il cuore del problema sono i grandi commercianti: comprano a prezzi irrisori la frutta dai piccoli agricoltori che non hanno alcun potere contrattuale e la rivendono a supermercati e multinazionali.

Spesso sono ditte a conduzione familiare, ma capaci di esportare nel mondo. Talvolta sono coinvolti nelle raccolte, il passaggio cruciale dello sfruttamento: sono proprio loro a rivolgersi ai caporali locali. Nelle campagne di Paternò, vicino Catania, sono arruolati anche i minori per la raccolta delle arance: prezzo a giornata 15 euro. A denunciarlo a febbraio 2014 è stata la Cgil di Catania con un esposto presentato alle autorità. “Sono a conoscenza che a Paternò esiste il ‘pizzo’ sul lavoro nero dei romeni”, dice un testimone, bracciante dell’Est. “Prima mi hanno chiesto cinque euro per il trasporto, poi metà del salario. Se non avessi accettato, non avrei più lavorato”. Gli aguzzini sono romeni “in stretta collaborazione con altrettanti mafiosi della zona che impongono un ‘prezzo’ su ogni bracciante che lavora nelle terre”, afferma la Cgil.

Un lavoratore racconta:

“Il caporale faceva picchiare chi si ribellava e faceva in modo di non farci lavorare. Quando noi romeni iniziamo a capire l’italiano e notare i suoi ‘traffici’ ci fa tornare in Romania”.

I fortunati che non pagano affitto per una casa con relativo pizzo sono alloggiati nei container di “Saro”, un imprenditore della zona che usa manodopera praticamente a costo zero.

IL VIAGGIO DALLA ROMANIA ALL’ITALIA. I caporali fanno arrivare braccianti da sfruttare dalla Romania. “Il mezzo di trasporto usato per arrivare in Sicilia è stato un autobus della ditta Tour, abbiamo pagato 100 euro ciascuno”, racconta Pavel, un ragazzo romeno. “A Salerno ci hanno fatto scendere per cambiare mezzo, siamo saliti su un minibus. Poi, sono venuti a prendermi e da quel giorno ho sempre lavorato nella ditta di ‘Saro’, che trattiene dalla paga 50 euro al mese per l’affitto. Lavoro nella raccolta delle olive e delle arance”.

Se Pavel lavora per altri, deve dare la metà al suo caporale. Vive in un container con un bagno senza neppure la porta, perché non può permettersi un affitto.

Iulia, un’altra ragazza romena, racconta:

“Mi sveglio alle quattro del mattino e arrivo di sera alle ore sette. E adesso mi dice che mi da tre euro ogni cassetta? No, non sono d’accordo con questa cosa. Avevamo concordato 3,50”.

Alcuni caporali obbligano i braccianti a fare la spesa in un supermercato che trattiene gli scontrini con il nominativo scritto sopra. L’importo è poi sottratto dalle paghe. I sindacalisti denunciano che nel periodo della campagna di raccolta, il 40 per cento del lavoro è a nero: negli agrumeti nella provincia di Catania lavorano 5000 stranieri, di cui 2000 romeni. La media è 10 ore di lavoro e il 50 per cento del salario va al caporale.

 

COME FUNZIONA IL CAPORALATO. La manodopera nelle campagne viene organizzata in squadre e capisquadra, che diventano gli interlocutori unici per pagamenti e dispiegamento dei lavoratori nei campi. Mentre i medi produttori ricorrono direttamente ai caporali, le realtà più grandi preferiscono rivolgersi a strutture formalmente legali come le “cooperative senza terra”. Sono formate sia da italiani che stranieri, non producono ma offrono servizi come la potatura e raccolta. Spesso sono aziende serie, altre volte forme di caporalato mascherato. Dietro un contratto formale con l’azienda committente, infatti, possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva.

COME EVITARE I CONTROLLI. Formalmente i braccianti non superano mai i cinque giorni di lavoro a settimana. Oltre questo limite, infatti, scattano i controlli. Nelle campagne il lavoro nero è sostituito da quello “grigio”. Un contratto c’è, ma serve al datore di lavoro come scudo per le verifiche: è sufficiente segnare poche giornate e nessuno potrà contestare.

Spesso è una tripla truffa: capita infatti che un piccolo proprietario non paga il lavoratore, non paga i contributi Inps dovuti e guadagna dalla disoccupazione come falso bracciante. C’è il rischio che le giuste indennità vengano tolte anche a chi le merita e c’è un danno erariale che colpisce tutta la collettività, anche chi non lavora in agricoltura. “Gli ispettori Inps sono dieci per tutta la provincia”, afferma la Cgil di Catania. “Dagli elenchi anagrafici si evince che a Paternò sono stati assunti meno di 300 lavoratori romeni con meno di 50 giornate l’anno, a fronte dei lavoratori italiani che hanno una media di 116 giornate lavorative”, denuncia il sindacato.

IL RUOLO DELLE MULTINAZIONALI. Sono le multinazionali a determinare il prezzo del succo d’arancia ma cosa fanno per verificare che i prodotti non vengono dallo sfruttamento? I promotori della campagna hanno chiesto ai grandi marchi della distribuzione e della produzione come Coop, Coca Cola, Conad e Nestlé, chiarimenti riguardo all’impegno contro il lavoro nero e la trasparenza nei confronti dei vari passaggi che portano i prodotti dalla campagna agli scaffali dei supermercati. Coca cola ha reso pubblici per la prima volta la lista dei propri fornitori italiani, mentre Coop ha descritto i meccanismi messi in atto a livello contrattuale per limitare il rischio di irregolarità tra i suoi sub-fornitori. Per quanto riguarda Nestlé, non ha ancora risposto. Il Gruppo Sanpellegrino, invece, vincola i propri fornitori al rigoroso rispetto di un codice di comportamento al quale si devono attenere nello svolgimento delle loro attività e si riserva di cessare il contratto qualora non venga rispettato quanto previsto dal documento.

SOLUZIONI POSSIBILI. Un chilo di arance costa 0,65 centesimi al mercato di Catania; 1,33 al supermercato nel centro; a Roma, il prezzo arriva a 2,10 euro. Puntare sulla trasparenza, dare il giusto a chi lavora eliminando gli intermediari inutili che sfruttano la manodopera, permetterebbe di abbassare il prezzo finale.

“Nell’anno di #Expo2015, attraverso #FilieraSporca chiediamo un impegno alle imprese e alle istituzioni attraverso la responsabilità solidale delle aziende, che devono rispondere per quanto avviene anche nei livelli inferiori della filiera – dichiara Fabio Ciconte di Terra!Onlus -, e soprattutto chiediamo una normativa sull’etichetta trasparente e l’elenco pubblico dei fornitori, perché informazioni trasparenti permettono ai consumatori di scegliere prodotti liberi da sfruttamento. Vogliamo incontrare il ministro Martina per poter discutere le nostre proposte e, a partire da oggi, avvieremo una campagna pubblica in cui coinvolgere associazioni e singoli cittadini per una filiera trasparente”. Lorenzo Misuraca della associazione “daSud” afferma: “Con questa campagna ci poniamo l’obiettivo di illuminare le zone d’ombra della filiera in modo che per le aziende e per la politica diventi più conveniente avviare percorsi virtuosi che chiudere gli occhi sulla schiavitù nelle campagne italiane”.

Sono una maestra disobbediente

  • Giu 24, 2015
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Comune - info
24 06 2015

di Valentina Guastini*

Il disegno di legge la “Buona scuola” sarà approvato probabilmente giovedì. Molti tra gli insegnanti che hanno gridato il loro no in questi mesi sono pronti non applicare la riforma. “Sono una maestra disobbediente, con difficile spirito di adattamento alla continua burocratizzazione della scuola – scrive Valentina Guastini, maestra – e allo stress dei programmi ministeriali. Punto sulla creatività… Non rinuncio alla conversazione, indispensabile per stimolare il pensiero critico… Mi interessa una scuola laboratoriale che esca dalla classe … Credo in una scuola interdisciplinare, dove si impari facendo … In una scuola che corre, dove alla materna si preparano i bambini per la primaria, alla primaria per le medie e via così, io antepongo una scuola che parta dal bambino, dai suoi interessi e tempi, ma soprattutto attenta al qui e ora… Tendenzialmente non salgo in cattedra, ne scendo… Per insegnanti come me in questa riforma della scuola non c’è spazio”

Per insegnanti come me, buoni o cattivi, in questa riforma della scuola non c’è spazio. Sono una maestra disobbediente, con difficile spirito di adattamento alla continua burocratizzazione della scuola e allo stress da tempistica e programmi ministeriali.

Seguo una legge interna che mi suggerisce dialogo, conoscenza dei miei alunni e tempi adattabili ai salti in corsa. Punto molto sulla creatività, l’inventiva e la scoperta. Non rinuncio alla conversazione, indispensabile strumento per stimolare il pensiero critico e divergente.

Per ogni tema trattato cerco di creare tensione cognitiva (espressione cara ad Alberto Manzi) di mettere in scena l’argomento in modo da indirizzare i bambini a voler sapere, aver voglia di scoprire, ipotizzare passi successivi. Mi interessa una scuola laboratoriale che esca dalla classe, che ossigeni la mente, che studi l’ambiente con occhi, mani e pensieri, che possa creare relazioni.

Amo vedere i bambini giocare liberamente in attività non strutturate. Difendo una scuola che produca opere frutto dell’espressione personale di ciascuno e non limitata al lavoretto. Ritengo indispensabili un tot di ore mensili dedicate alla manualità.

Credo in una scuola interdisciplinare che riesca a collegare ogni argomento con il vissuto di tutti, dove si impari facendo, discutendo. Dove l’empatia e la riflessione possano essere le basi dell’inclusione. Tendenzialmente non salgo in cattedra, ne scendo.

In una scuola che corre, dove alla materna si preparano i bambini per la primaria, alla primaria per le medie e via così, giustificando tempi serratissimi e lavori sfiancanti, io antepongo una scuola che parta dal bambino, dai suoi interessi e tempi, ma soprattutto attenta al qui e ora. Un impegno a educare, per dirla con Mario Lodi, per formare cittadini capaci di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri.

La scuola non è solo fatta dagli insegnanti e il vissuto dei bambini non può essere avulso da una stretta collaborazione delle famiglie, che per me sono sempre perno insostituibile di condivisione e cooperazione. Non amo il suono della campanella e il tempo scandito.

Non esistono bambini facili e difficili, ma solo bambini e bambine, con le loro storie più o meno fortunate, ma i bambini devono essere tutti fortunati. È l’impegno che gli adulti si prendono nei confronti dell’infanzia (Roberto Pittarello) e io, nel mio piccolo, ci provo: lavoro, mi impegno, seguo con tensione ed attenzione ognuno, perché nelle mie classi questo possa accadere ogni giorno.

 

* maestra presso la scuola Papa Giovanni XXIII (Istituto Comprensivo di Sestri Levante, Genova). Questa l’adesione di Valentina Guastini alla campagna 2014 di Comune-info, Ribellarsi facendo: Docente a compiti zero.

Le ombre migranti del Sahel

  • Giu 24, 2015
  • Pubblicato in COMUNE INFO
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Comune - info
24 06 2015

Non tutti hanno la fortuna di portare la pazza corsa verso la speranza di una vita migliore fino ai comodi scogli di Ventimiglia. Non tutti riescono a raggiungere gli spensierati locali di un edificio italiano sotto le cui finestre la gente passa e urla che gli fai paura e te ne devi andare. Molti non ce la fanno. Non riescono nemmeno ad arrivarci a quel mare profondo e blu che ne ha inghiottiti tanti da non poterli più digerire. Non ce l’ha fatta Keita, derubato e torturato dalla polizia libica, che si dispera umiliato perché è tornato in Senegal vinto e senza nemmeno un regalo (a parte la sua vita) per i bambini. E non ce l’ha fatta Lucky, che sognava di vivere facendo le trecce ma ha contratto l’Aids e coprirà i capelli per sempre nel reparto di accoglienza delle suore di Santa Teresa. Sono le ombre che camminano nei deserti del Sahel. Dal suo ineguagliabile osservatorio a Niamey, Mauro Armanino riesce a vederne il profilo e le disegna per noidi Mauro Armanino

Seduto nell’ufficio Keita mostra le mani, la pianta dei piedi e le ginocchia. Proprio lì lo picchiavano coi bastoni i poliziotti di Ghadames, in Libia. Bastoni qualunque che come dappertutto fanno male se accompagnati da insulti. Sono entrati di notte nella casa dove Keita si trovava con altri amici senza documenti. Sapevano che era stati pagati il giorno prima. Erano i soldi del viaggio a Tripoli e oltre per il Mare Nostro. Mesi di lavoro andati in polvere in pochi minuti. Dopo una mezza giornata in prigione li hanno abbandonati nel deserto alla frontiera dell’Algeria. Keita sa che in Italia ci sono tanti senegalesi come lui che si trovano bene. A Genova, in Via Pré, c’è il negozio Touba, santuario meta di pellegrinaggi per i Muridi. In poco spazio si vendono trecce finte, profumi, generi di inutile necessità e soprattutto informazioni. Si organizzano viaggi commerciali fino a Dubai e ritorno. Paese che vai senegalese che incontri. Keita è stanco del viaggio. Il deserto non è mai alle spalle.

Keita era partito dal Senegal con 450 mila franchi circa, che fanno 680 euro. La somma era stata inghiottita dal viaggio e dalla libera circolazione di beni, persone e ladri. Dall’Algeria era passato in Libia col proposito di guadagnare abbastanza per pagarsi il viaggio di mare. Torna ferito alle mani, ai piedi e alle ginocchia. Ora che è cominciato il Ramadan non riesce a fare la preghiera come si deve al Dio come avrebbe voluto. Lo aspetta la moglie che era d’accordo col viaggio, questo almeno afferma sottovoce. La prima delle figlie si chiama Fanta e ha 12 anni. Il secondo si chiama Moussa e il terzo, di poco più di due anni, si chiama Khedim che vuol dire servitore. A Keita dispiace con vergogna di non portare neppure un regalo ai suoi figli se non la sua vita. Sulla strada di ritorno gli hanno portato via quanto rimaneva per il viaggio e solo un viandante come lui lo ha salvato. Ha il rammarico di non poterlo rimborsare. Rialza i pantaloni e mostra i ginocchi ancora segnati.

Di fortunato lei ha solo il nome. L’hanno chiamata Lucky, in quei giorni in Liberia. Tutto sembrava funzionare bene. I comandanti e i comandati del battello in buona maggioranza schiavi o loro discendenti. Poi la guerra spazza le gerarchie. A 14 anni per salvarsi deve scappare nella vicina Guinea. Rimane anni e impara a fare trecce. Diventa un’esperta parrucchiera e decide il viaggio in Kenia. Suo padre era stato ucciso nel memorabile 6 di aprile nella Monrovia che tutti ancora ricordano. Sparavano a tutto e i gruppi armati passavano da un quartirere all’altro per eliminarsi a vicenda. Lucky non ha mai cominciato la pace, da allora. Dal Kenia, con James, amico incontrato all’aeroporto, passano nel Sudan. Aveva raccolto informazioni sbagliate. Sono messi fuori del paese. Senza documenti, soldi e futuro. Le guerre si portano dentro per sempre come un bagaglio impossibile da spedire. Lucky ha lasciato due figli a casa. Il terzo è morto in seguito alla guerra.

E’ partita stamane al Centro di Depistaggio Anonimo e Volontario. Sono gli ammalati di AIDS che passano veloci negli uffici del servizio. Lucky è tornata con la risposta positiva dall’esame del sangue. Ha 35 anni e da qualche settimana non riesce a mangiare. E’ passata ieri e voleva tornare al paese di fretta. Sapeva il perché e allora ha accettato il depistaggio. La data di oggi col numero anonimo 1197. Il risultato arriva come una conferma di sorpresa che anche lei sapeva. Le suore di Madre Teresa hanno un reparto di accoglienza per questi malati e Lucky ha accettato di abbandonarsi nelle loro mani. A Monrovia abitava nella centralissima Ashmun Street. La casa dove ancora vive suo padre è poco lontana dalla Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù. Forse per questo insisteva per tornare lì, come un’ombra migrante.

Niamey, giugno 015

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* Mauro Armanino è nato a Chiavari nel 1952. Già operaio e sindacalista della Flm a Casarza Ligure. Volontario in Costa d’Avorio, sostitutivo del servizio militare. Poi ordinato prete missionario presso la Società delle Missioni Africane di Genova. “Sono stato cappellano dei giovani in Costa d’Avorio fino al 1990. Dopo alcuni anni a Cordoba in Argentina sono partito in Liberia per sette anni. Ho conosciuto la guerra e i campi di rifugiati. Al ritorno da questa esperienza sono rimasto in centro storico a Genova coi migranti e ho operato come volontario nel carcere di Marassi per gli stranieri di origine africana. Da oltre due anni mi trovo in Niger per un servizio ai migranti e nella formazione. Sono stati pubblicati alcuni miei libri dalla Emi, l’editrice missionaria (Isabelle, 5 nomi per dire Liberia, La storia si fa coi piedi). Con l’editrice Gammarò di Sestri Levante è uscito il libro-tesi: La storia perduta e ritrovata dei migranti, per Hermatena (Bologna) ho pubblicato La nave di sabbia. Migranti, pirati e cercatori nel Sahel”.

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