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23 03 2015
di Maria G. Di Rienzo*
Giovedì 12 marzo, ore 22 circa, Zivignago (Trento): è ora di immolare la vittima bi-settimanale sull’altare della violenza di genere – e stiamo larghi, perché in Italia una donna muore uccisa da un uomo ogni 2/3 giorni – così la 36enne Carmela Morlino è massacrata a coltellate, davanti alla propria casa, dall’ex compagno Marco Quarta, che poi si dà alla fuga. Orfani di madre e con padre assassino restano due bimbi di 3 e 6 anni.
I quotidiani riportano la notizia il giorno successivo con occhielli a tutte maiuscole che strillano “LA PISTA DELLA GELOSIA”, “MOVENTE PASSIONALE” e “LA RELAZIONE ERA FINITA DA TEMPO”. All’interno degli articoli danzano le consuete frasette: alla base del delitto ci sarebbe la gelosia… una relazione ormai terminata, una coppia come tante, un uomo un po’ brusco… la donna si sarebbe confidata con degli amici dicendo di sentirsi perseguitata… un diverbio, una scenata di gelosia… il coltello che spunta, i colpi fatali.
La storiella in vendita, insomma, è sempre la stessa. Lei lo lascia e lui soffre e tenta di ricucire la relazione, ma lei è una stronza che si sente “perseguitata” dalle attenzioni di lui, e all’ennesimo rifiuto lui perde la testa, il coltello “spunta” per caso dalle sue tasche, il raptus gli imballa il cervello e lui finisce per scannare la donna che tanto ama… con una serie di coltellate “fatali”, inferte non da lui, capite, ma dal destino cinico e baro.
NOTATE BENE: in almeno un paio dei pezzi che reiterano questa solfa si attesta che per andare ad assassinare l’ex compagna, Marco Quarta ha “abbandonato l’abitazione dove si trovava agli arresti domiciliari”, ma a nessun sedicente giornalista si accende una lampadina in testa. Perché era agli arresti? Nessuno se lo chiede. Gli articoli successivi, scritti mentre l’assassino è ancora irreperibile, pur continuando a menarla con la tragedia e la lite degenerata non possono fare a meno di aggiungere che Quarta, presentandosi a casa della donna, ha violato “il divieto di avvicinamento emanato dal tribunale di Trento” e che era ai domiciliari perché “denunciato per maltrattamenti contro la donna e imputato per maltrattamenti in famiglia e verso fanciulli e violenza privata” il suddetto divieto lo aveva già violato. Cioè: Carmela Morlino non si “sentiva” perseguitata perché meteoropatica o maligna, era perseguitata sul serio.
Inoltre, il “grosso coltello dal manico nero” (un coltello da pesca che ha prodotto almeno sette ferite mortali) non è piovuto dal cielo: il signore se l’è portato dietro da casa, anche se – volendo continuare ad essere infami e rifiutandoci ostinatamente di sprecare energia accendendo lampadine – possiamo presumere che volesse solo usarlo per pulirsi le unghie mentre parlava serenamente con la sua ex.
Passano ancora un paio di giornate e la dinamica dell’accaduto è chiara. Le testimonianze dei vicini sono le stesse dal 13 marzo, ma non dicevano niente di corroborante per il dramma familiare e l’improvviso scoppio di follia, per cui non se l’era filate nessuno: Carmela Morlino stava rientrando a casa con i due figli quando si è trovata davanti l’ex compagno sul pianerottolo dell’abitazione. Lui strepita, lei si spaventa, le urla richiamano una vicina che per sicurezza porta con sé i bambini. Un’altra vicina chiede al marito di intervenire perché la situazione non accenna a placarsi ma quando costui arriva sul pianerottolo Carmela è distesa in un lago di sangue. “E l’ex compagno è lì, fermo, con il coltello in mano. Pochi attimi e l’omicida si dilegua.”
19 marzo 2015: Marco Quarta viene arrestato dai carabinieri, a Rovigo, mentre esce dal centro commerciale dove è andato a far la spesa e sta per risalire sulla sua automobile. Evidentemente il raptus non si era ancora attenuato al punto da permettere all’uomo di rammaricarsi e costituirsi – e bisogna pur mangiare, mannaggia. I posti di blocco e tutte le altre misure per rintracciarlo non avevano dato esito positivo, ma una donna ha riconosciuto Quarta grazie alle immagini segnaletiche e ha chiamato il 112. I giornalisti tirano un sospiro di sollievo e nei loro pezzi sembra aleggiare l’adagio “tutto è bene quel che finisce bene”… anche perché, pensate un po’, “la Morlino” (Carmela Morlino, la vittima, la donna assassinata brutalmente) “sarà ricordata questa sera con una fiaccolata nel paese teatro della tragedia“. E visto che è una tragedia, un malefico colpo del fato, non ci sono veri colpevoli, meno che mai il pover’uomo abbandonato che sì, vabbè, era incline ad alzare le mani ma chissà come si comportava lei… e poi si sa che il 99% delle denunce fatte dalle donne sono false, come il 99% degli stupri e il 99% dei femicidi/femminicidi. Infatti, ho aspettato che Carmela Morlino si rialzasse, al termine della recita, però non è accaduto. Vuoi vedere che è cascata in quel misero 1% che schiatta sul serio? Che sfortuna, povera Carmela!
Ma un momento:
3 gennaio 2015, Napoli, Paolina Gargiulo, 69 anni: strangolata con un filo elettrico.
15 gennaio 2015, Benevento, Aurora Marino, 51 anni: uccisa con 30 coltellate.
18 gennaio 2015, Giugliano, Annamaria Riccardo (cognome da sposata, il suo non è riportato da nessuna parte), 49 anni: uccisa da colpo di pistola al torace.
28 gennaio 2015, Pavia, Laura Carla Lodola, 55 anni: sequestrata in casa e morta di fame.
1° febbraio 2015, Campigliano, Giustina Copertino, 29 anni: uccisa da vari colpi di pistola.
10 febbraio 2015, Moncalieri, Magda Valcelian, 27 anni: uccisa a bastonate.
15 febbraio 2015, Gioia del Colle, Antona Cirasola, 55 anni: uccisa a colpi di piccone.
4 marzo 2015, Firenze, Marinella Bertozzi, 50 anni: uccisa da calci, pugni, colpi sferrati con un bastone metallico.
16 marzo, Brescia, Angela Mura, 54 anni: cranio sfondato da corpo contundente…
… NESSUNA di queste donne, TUTTE assassinate da mariti, compagni, fidanzati, conviventi (o ex tutto questo), si è ancora rialzata spolverandosi il vestito per dire: “Sì, facevo finta, sapete come siamo perfide noi donne.” E pensate: non si tratta nemmeno di TUTTE le donne uccise in meno di tre mesi nel 2015, in Italia, da uomini con cui avevano / avevano avuto relazioni, ma solo di una manciata di esse pescata a caso dai miei files. Dramma. Raptus. La pista della gelosia (ma quale “pista”, benedetta creatura che hai scritto ‘sta boiata, quando l’assassino è già noto e identificato: quella di coca?). Movente passionale. Tragedia. Ovvero, gli ingredienti del brodo di coltura fornito alla violenza maschile dalla maggioranza dei media italiani.
* Giornalista, formatrice e regista teatrale femminista, cura il blog lunanovola, dove è apparso questo articolo (la cui pubblicazione su Comune è autorizzata dall’autrice).
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18 03 2015
di Esther Vivas
Un nuovo giro di vite è stato dato alla politica agricola in Europa. Stiamo parlando del trattato di libero scambio tra Stati Uniti e l’Unione europea (Ue), meglio conosciuto con il nome di T-tip (acronimo per Transatlantic Trade and Investment Partnership), l‘ombra crescente dell’agro-alimentare che si estende dai campi al piatto. Come vampiri assetati di sangue, le multinazionali del settore sono in attesa di banchettare lucrosamente grazie a queste nuove misure di liberalizzazione commerciale.
Ma in cosa consiste il T-tip? Si tratta di un accordo negoziato in segreto per mesi, tenuto nascosto al pubblico [e conosciuto solo grazie a fughe di notizie. N.d.T], in attesa dell’approvazione del Parlamento europeo, e che al momento gode di una campagna di marketing. L’obiettivo è armonizzare verso il basso le legislazioni su entrambe le sponde dell’Atlantico, a solo vantaggio delle grandi aziende. Conseguenze: più disoccupazione, più privatizzazioni, meno diritti sociali e ambientali. In definitiva, i nostri diritti serviti al capitale su un piatto d’argento.
E per quanto riguarda agricoltura e cibo? Le aziende del settore, a cominciare da quelle di sementi, allevamento e mangimi, passando per la biotecnologia, per arrivare ai produttori di bevande e alimentazione umana, sono quelle che hanno esercitato le maggiori pressioni a favore del trattato, superando persino le lobby farmaceutica, automobilistica e finanziaria. La posta in gioco è importante per multinazionali come Monsanto, Kraft Foods, Coca Cola, Unilever, Bacardi-Martine, Nestlé, Cargill. Su 560 incontri consultivi della Commissione europea per l’approvazione di detto trattato, il 92% è stato realizzato con gruppi di aziende, il resto con i gruppi di interesse pubblico, come indica una relazione del Corporate Europe Observatory.
Se il trattato di libero commercio tra Stati Uniti e Unione europea dovesse essere approvato, quale ne sarebbe l’impatto sulle nostre tavole?
Ancora più Ogm (Organismi Geneticamente Modificati)
L’ingresso massiccio di Ogm in Europa sarà una realtà. Anche se oggi importiamo già un numero considerevole di alimenti geneticamente modificati (basti pensare in particolare ai prodotti per il bestiame e ai molti prodotti trasformati contenenti derivati della soia e del mais transgenici, come lecitina, olio e farina di soia, sciroppo e farina di mais) l’approvazione del TTIP comporterà un aumento di tali importazioni, specie delle prime, con l’ingresso di OGM attualmente non autorizzati dall’Unione europea.
Bisogna tener conto del fatto che la legislazione negli Stati Uniti è molto più permissiva di quella europea, sia per quanto riguarda le tecniche colturali che per quanto riguarda la commercializzazione degli Ogm. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’etichetta che identifica un alimento come geneticamente modificato non esiste, a differenza dell’Europa dove, nonostante le limitazioni, la legislazione, almeno teoricamente, impone questa identificazione. Inoltre, nell’Unione europea viene coltivato un singolo alimento transgenico per scopi commerciali: il mais MON 810 della Monsanto, nonostante l’impatto ambientale negativo di quest’ultimo che contamina altri campi di mais, tanto convenzionale che biologico. L’80% della produzione è concentrata in Aragona e Catalogna, mentre la maggior parte dei paesi europei l’ha vietato. Negli Stati Uniti, al contrario, la percentuale di questa coltivazione è molto più alta. Ecco perché l’Europa rappresenta una torta allettante per multinazionali come Monsanto, Bayer, Syngenta, Dupont, e il T-tip può trasformare tutto questo in realtà.
Il veto a carne e prodotti derivati da animali trattati con ormoni e tecniche per la velocizzazione della crescita, finora vietati in Europa, sarà revocato, così come quello sull’uso di tali sostanze, con l’effetto che ne deriverà sulla nostra salute.
Negli Stati Uniti, a suini e bovini possono essere prescritti farmaci come la ractopamina, utilizzata come additivo alimentare per ottenere una accelerazione della crescita ponderale dell’animale e maggior vantaggio finanziario per l’industria del bestiame. Nell’Ue, l’utilizzo di questo prodotto e l’importazione di animali trattati con lo stesso sono vietati, così come in altri 156 paesi, tra cui Cina, Russia, India, Turchia, Egitto, paesi nei quali i dati disponibili sono considerati insufficienti a escludere rischi per la salute umana. Altri 26 paesi, come Stati Uniti, Australia, Brasile, Canada, Indonesia, Messico, Filippine, invece lo permettono.
Lo stesso scenario si presenterà con l’utilizzo della somatotropina bovina, un ormone somministrato principalmente alle vacche da latte per aumentarne la produttività e ottenere tra il 10 e il 20% di latte supplementare. Tuttavia, gli effetti collaterali associati al suo utilizzo su animali (infiammazione della mammella, aumento dell’ormone della crescita…) sono numerosi, così come quelli sugli esseri umani (alcuni studi lo collegano ad un aumento del rischio di tumori della mammella o della prostata, e alla crescita di cellule tumorali). Ecco perché l’Unione europea, il Canada e altri paesi ne proibiscono l’uso e l‘importazione,al contrario di altri paesi, e in particolare gli Stati Uniti. Tra l’altro, l’azienda americana Monsanto, numero uno nel campo delle sementi geneticamente modificate, è l’unica sul mercato a commercializzare questo ormone, sotto il nome commerciale di Posilac. Che coincidenza.
La carne di pollo “disinfettata” con il cloro arriverà anche nei nostri piatti. Se in Europa si utilizza un sistema di controllo preventivo delle malattie del pollame, a partire dall’allevamento attraverso tutte le fasi, compresa quella della macellazione, fino alla commercializzazione, gli Stati Uniti hanno scelto di ottimizzare i costi abbassando gli standard di sicurezza alimentare. Così, il pollame allevato e macellato viene sterilizzato solo alla fine della catena, mediante immersione in una soluzione chimica antimicrobica generalmente a base di cloro. In altre parole, gli si fa un “bagno di cloro”, punto. Così i polli sono “puliti”, senza batteri, ben clorurati e il trattamento è molto più conveniente. Ancora una volta, tutto per soldi.
Ma quali conseguenze tutto questo può avere sulla nostra salute? A partire dal 1997, l’ingresso nella UE del pollame nordamericano è stato vietato, a causa di questi trattamenti e del pericolo che residui di cloro o altre sostanze chimiche usate per la disinfezione possano persistere nella carne che andremmo a mangiare. L’industria dell’allevamento nordamericana sostiene che questi trattamenti permettono di eliminare i microrganismi patogeni. Tuttavia le infezioni non solo non diminuiscono in modo significativo ma, peggio ancora, l’uso continuato di disinfettanti può, alla fine, generare ceppi di microrganismi resistenti.
Ci viene detto che gli standard di sicurezza alimentare nordamericani sono i più sicuri. Le ricerche non indicano la stessa cosa, visto che negli Stati Uniti ogni anno una persona su quattro, cioè 76 milioni di persone, si ammala a causa di malattie causate dal consumo di cibo. Di questi milioni di persone, 325.000 vengono ricoverati, e 5.000 muoiono. Gli esperti sottolineano come la maggior parte dei casi si sarebbe potuta evitare con miglioramenti nel sistema di controllo alimentare. Ciascuno tragga le proprie conclusioni.
È giunto il momento di dirlo chiaro e forte al T-tip: giù quelle zampe sporche dal nostro cibo!
*Traduzione di Giuseppina Vecchia per Pressenza.
*Esther Vivas è una ricercatrice spagnola: si occupa di movimenti sociali e di politiche agricole. E’ autrice di diversi libri, alcuni dei quali tradotti in francese, portoghese e italiano (tra cui Pianeta indignato, Edizioni Alegre). É membro del Centro de Estudios sobre Movimientos Sociales all’Università di Barcellona, fa parte della Rete di Consumo solidale e della campagna Non mangiarti il mondo. Altri suoi articoli sono QUI.
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17 03 2015
di Davide Villa
Dieci anni fa mi trovavo per motivi, almeno sulla carta, di studio all’estero. Mi giunse la notizia di questo posto che era stato occupato nel quartiere di San Giovanni, a Roma, c’era di mezzo qualche amico, quindi la voce corse piuttosto rapida e superò i confini nazionali.
Sta di fatto che mi persi i primi mesi di vita del Sans, un ex bar d’uno stabile occupato già da qualche tempo prima a scopo abitativo da alcune famiglie. Appena rientrato, roso dalla curiosità di conoscere un posto nuovo e dalla paraculite, che voleva farmi trovare un posto per suonare live con la mia band, andai a vedere di cosa si trattasse. Il tutto sembrava un posto in divenire, un cantiere aperto che, della precarietà della propria situazione, faceva in parte la sua spinta e in parte la sua scusante. Non l’ho vissuto dal dentro per un po’, ma l’ho frequentato, ci ho suonato, guardato le partite della Roma, chiacchierato e bevuto, ma l’ho quasi sempre attraversato esternamente. Negli anni l’aspetto è cambiato e più volte le anime che lo facevano vivere si sono alternate, allontanate e riavvicinate, portando nuovi progetti e nuove motivazioni.
Succede che, ad un tratto, mi allontano dal Sans: interessi, amicizie, amori, sono molteplici i motivi che portano allo stemperarsi di una vecchia passione. Arrivato al punto di maggior oblio, ecco che mi arriva una nuova voce: c’è una radio che trasmette dal Sans Papiers! Mi fiondo di nuovo a capofitto, motivato da alcune persone, nuove e vecchie conoscenze, mentre cerco di farmi accettare dentro la radio. L’impresa si rivela meno difficile di quanto chiunque, me compreso, potesse pensare: l’inclusione attraverso il mezzo radiofonico era contemporaneamente una pratica ed una consuetudine a via Carlo Felice. L’attenzione negli anni si è spostata su vari argomenti, ma da qualche tempo è focalizzata sulla produzione e promozione culturale, da affiancare alla politica non come qualcosa di diverso, ma come una parte necessaria, reciprocamente, alla crescita del discorso nella sua interezza.
Dal Sans, negli anni, sono passati artisti emergenti che mai sono emersi, musicisti alle prime armi che poi hanno spiccato il volo, dj e saltimbanchi, teatranti, fotografi. Il posto ha mutato il suo aspetto, raggiungendo l’estetica che chi, negli ultimi due fine settimana di Marzo, vorrà attraversare il Sans, troverà di fronte ai propri occhi. Pareti pitturate con colori che richiamano a Roma (il rosso) e pareti bianche che si prestano ad interpretazioni e proiezioni, come se fossero dei fogli da scrivere. Un’area espositiva per fotografie, stampe, illustrazioni, per mostre itineranti che vogliono passare da San Giovanni, ha preso il posto d’un area bivacco, rispettabilissima, ma lasciata un po’ a sé stessa. Ora almeno il bivacco può essere accompagnato dall’ambrosia dell’arte, cibo preferito dei cervelli.
Il palco per i concerti negli anni si è spostato, dove si suonava un tempo ora c’è lo studio di Radio Sonar, attivo tutti i giorni della settimana, ma ancora non arrivato all’apice delle sue possibilità. Il nuovo palco è più largo, da quest’estate, ed ospita jazzisti, trash warriors, mash-uppers e rockettari. Due bar, banconi che si trasformano in luoghi di scambio per idee e conoscenze, proposte che riempiono, grosso modo, tutti i fine settimana, nonostante gli impegni, gli acciacchi, la vita precaria di chi anima il Sans Papiers.
Una rete antirazzista, un luogo di ritrovo per i fratelli africani del (fu) vicino centro d’accoglienza di Castrense, un mercato del disco che si ripete una volta al mese (leggi Affinità viniliche, cultura e vita), concerti, discussioni, un incipiente corso di italiano, una radio, un posto dove guardare eventi sportivi in compagnia e bersi un paio di birre. Tutto questo è quello che per me è diventato il Sans Papiers, tutto questo è quello che vorrò festeggiare dal 20 al 29 marzo con i fratelli e le sorelle che lo attraversano, più o meno assiduamente. Tutto questo è quello che una città come Roma, con le sue difficoltà, le sue intuizioni, le sue contraddizioni, ricchezze e povertà, dovrebbe festeggiare, perchè un presidio di libertà, per quanto possa piacere o meno, quando compie dieci anni va festeggiato e valorizzato.
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16 03 2015
La voce di Rachel Corrie, ragazza di Olympia, capitale dello Stato di Washington, s’era levata alta contro la complicità. Era una di quelle voci giovani, coraggiose, profonde. Le voci che spesso fanno dire ai semplici e ai troppo astuti che il loro dissenso prova l’esistenza della democrazia negli Usa. Rachel ha pagato quel dissenso concludendo la sua giovane vita schiacciata da un mostro meccanico guidato da un mostro umano armato di ferocia e stupidità. Nessuno di quelli che contano ha detto che il suo omicidio feriva la democrazia. “Democrazia” è una parola magica. Ha il potere di evocare qualcosa che sa di giustizia, di civiltà, di rispetto degli umani. Non molto più di un’evocazione, purtroppo, ormai. In Palestina e altrove. La democrazia, perfino il vuoto simulacro di democrazia formale che viene agitato in questi anni, non abita di certo dalle parti di quelli che hanno mandato i mostri contro Rachel. Un omicidio odioso quanto inutile: quegli uomini non sanno, né possono immaginare che la speranza per la quale è stata spenta quella giovane vita non può essere seppellita da una ruspa
RACHEL COREY IS HELPED BY COLLEAGUES AFTER AN ISRAELI ARMY BULLDOZER BADLY INJURED HER.
L’uccisione di Rachel Corrie è appena avvenuta
di Patrizia Cecconi
Il 16 marzo di 12 anni fa un bulldozer guidato da un soldato israeliano passò sul corpo di Rachel Corrie mentre cercava di impedire l’abbattimento di una casa palestinese nella Striscia di Gaza.
Era il 2003, Sharon governava Israele, e i Palestinesi, dopo l’ennesima provocazione, avevano lanciato la seconda Intifada, quella che l’abilità mediatica degli occupanti avrebbe utilizzato per ottenere consenso attraverso l’apologo della sicurezza.
Rachel aveva 23 anni. L’età giusta per credere ingenuamente e con grande generosità che il suo corpo avrebbe fermato un potere mostruoso come quello israeliano. Sfidò il bulldozer in nome dell’habeas corpus, ma Israele non sa ancora di che si tratti, il bullodozer la travolse e proseguì il suo lavoro con la determinazione di chi esegue gli ordini di un potere che non ha altri giudici che se stesso.
Rachel veniva da Olympia, Stati Uniti, e quindi era cittadina del più importante alleato, sostenitore e complice del potere che decretò la sua morte. La sua era una voce contro quella complicità, una di quelle voci “contro” che fanno dire ai semplici e ai troppo astuti che quel dissenso è prova della democrazia del loro paese. Che Rachel il suo dissenso l’abbia pagato con la morte, e che la sua morte non abbia trovato neanche tardiva condanna del suo assassino, per i semplici e per i troppo astuti non incrina la democrazia del suo paese, né del paese che l’ha fatta uccidere.
“Democrazia” è una parola magica. Ha il potere di evocare qualcosa che sa di giustizia, di civiltà, di rispetto degli umani. E quando c’è il potere per farlo, resta a significarlo anche se l’operare pratico lo smentisce.
“Democrazia” ha la forza di significare, come fatto positivo tout court, che il potere appartiene al popolo, il quale esprime a maggioranza il suo consenso a chi istituzionalmente lo rappresenta, e tanto basta ad assolvere dall’accusa di autore di crimini contro l’umanità chi quei crimini li commette spalleggiato dalla maggioranza del proprio popolo. È un paradosso, ma funziona. Soprattutto funziona da assolutore del criminale invece che da accusatore critico del popolo che conferisce il potere di commettere crimini ai propri rappresentanti.
È così, per esempio, che il presidente del Paese che più di ogni altro porta la morte nel mondo viene definito espressione di democrazia e premiato a priori, sulla fiducia, con un Nobel per la pace!
E, ancora, è così che il governo del Paese più illegale del mondo tra quelli dichiarati democratici può seguitare a uccidere, distruggere case, occupare terre, violare ogni diritto umano, avere un consenso superiore all’80 per cento anche quando esegue le peggiori mattanze di civili e seguitare ad essere considerato democratico: un attributo che contraddice se stesso nel valore positivo che evoca. Un attributo che però è reale, drammaticamente, nel dato tecnico di espressione della maggioranza, quella che ne legittima i crimini!
Rachel Corrie, quindi, è stata uccisa col consenso della maggioranza del popolo israeliano che approva la demolizione delle case palestinesi e l’eliminazione di chi vi si oppone. E la sua morte ha anche avuto più o meno tacitamente il consenso della maggioranza del popolo statunitense in quanto sostenitore di Israele.
A nulla è valso il ricorso alla cosiddetta giustizia da parte dei suoi genitori, i quali hanno visto ripetere la sua condanna a morte, in modo virtuale, dai giudici che hanno assolto gli assassini e, sostanzialmente, condannato Rachel per essersi incautamente esposta al rischio cercando di impedire l’ordinato svolgimento di un lavoro commissionato al proprio esercito dal governo del democratico Stato di Israele.
Rachel, in poche settimane nella Striscia aveva visto avanzare l’orrore e aveva affidato la sua amarezza, ma anche l’ingenua speranza che la consapevolezza e l’impegno potessero cambiare le cose, alle lettere alla famiglia e alle sue poesie. “…tu ed io ci stiamo svegliando/dalla nostra complicità sonnambula e tonta/con i maestri dell’illusione e della distruzione…” aveva scritto poco prima che la ruspa le togliesse la vita.
Ma non può essere affidato alle belle e coraggiose anime di giovani volontari/e la condanna di uno Stato che esercita la propria “democrazia” con confische di terre, bombardamenti criminali, furto d’acqua, arresti arbitrari e cingoli di bulldozer che calpestano cose e persone. Se anche Rachel non si fosse trovata davanti alla casa che tentava inutilmente di difendere e non fosse stata uccisa, il crimine di distruggere le abitazioni palestinesi resterebbe tal quale. Non lo cancella la sentenza del giudice Gershon che fa inorridire qualunque umano semplicemente, umanamente, onesto.
Dove sono in tutto questo le democrazie occidentali? Sono occupate a fare affari con quello Stato, quale che sia il governo che lo rappresenta. E Rachel potrebbe seguitare a vergognarsi del suo Paese, mentre la società civile deve continuare a pretendere che “democrazia” non sia un termine vuoto o, peggio, utilizzato per distruggere subdolamente i valori che dovrebbe rappresentare.
In ricordo di Rachel, colpevole di essersi opposta a un crimine, in ricordo di Tom Hurndall colpevole, solo pochi giorni dopo, di essersi trovato di fronte a un fucile mentre difendeva alcuni bambini; in ricordo e in onore di tutte e tutti gli uccisi per essersi opposti alla “democratica” tracotanza israeliana, ci uniamo al popolo palestinese per chiedere ai nostri governi la fine di ogni complicità che ci vede ufficialmente sostenitori, sebbene contro la nostra volontà, dei crimini israeliani.
Patrizia Cecconi, studiosa di psicologia sociale e presidente dell’associazione Oltre il mare, onlus. Ha scritto diversi libri: Lessico deviante e Vagando di erba in erba. Racconto di una vacanza in Palestina, Città del sole edizioni; Belle e selvatiche. Elogio delle erbacce Chimienti editore. Tra le molte altre cose, cura un blog dedicato alla vita delle piante in Palestina, la terra che le scorre nelle vene, dove pubblica i testi che ha scelto di inviare a Comune-info e all’agenzia di stampa Nena News, diretta da Michele Giorgio, storico corrispondente del manifesto, la fonte italiana più autorevole e attenta alle notizie mediorientali.
L’adesione di Patrizia Cecconi alla campagna Ribellarsi facendo
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16 03 2015
di Alex Zanotelli
Il 9 marzo 2015 è una data storica per il movimento Acqua di Napoli perché il Consiglio Comunale di Napoli ha finalmente votato lo Statuto di ABC –Napoli (Acqua Bene Comune) ed ha affidato, con una Convenzione, l’acqua di Napoli ad ABC, Azienda Speciale, che non può lucrare sull’acqua. Per sei lunghe ore in piedi, con i rappresentanti del movimento acqua di Napoli, ho potuto seguire il dibattito delle forze politiche, che per la prima volta hanno votato compatte per la gestione pubblica dell’acqua, incluso il Pd. Astenuti, invece,i Fratelli d’Italia, Nuovo Centro Destra e Forza Italia.
Quando il presidente del Consiglio Comunale ha annunciato l’esito del voto, l’assemblea lo ha accolto con un scrosciante applauso. Consiglia Salvio, la coordinatrice del movimento acqua in Campania ha alzato un cartellone con la scritta “Napul’è ….ABC”. Euforia per una vittoria quasi insperata: abbracci, strette di mano, foto e sventolii di bandiere.
“Questa è una pagina storica che Napoli oggi scrive”- tuona in aula il sindaco Luigi De Magistris, soddisfatto anche per l’appoggio quasi unanime del Consiglio. Napoli diventa così l’unica grande città in Italia che ha avuto il coraggio di obbedire al Referendum sull’acqua del 2011 che sancisce (è legge di Stato) che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene che è un diritto fondamentale. Ero così felice perché Napoli, una città così malfamata in Italia, dava a tutto il paese una lezione di civiltà, di coraggio. Mi sembrava di sognare! Ce l’avevamo fatta. Il merito va tutto ai comitati. Il Sindaco nel suo discorso ha infatti sottolineato la ‘tenacia’, ma anche la ‘pazienza’ dei comitati.
Una lunga lotta questa, iniziata con l’impegno del sindaco De Magistris in campagna elettorale, di tradurre in pratica il Referendum. I comitati dell’acqua, ben coordinati in chiave provinciale e regionale, hanno continuato a fare pressione sul sindaco perché mantenesse la promessa. E De Magistris l’ha mantenuta, quando, appena eletto, ha trasformato l’Arin, un’impresa totalmente pubblica ma gestita da una SPA (Società per Azioni) che serve a fare profitti, in ABC (Acqua Bene Comune), Azienda Speciale. È stato un passaggio epocale. I comitati esultarono per la vittoria.
Ma ben presto ci accorgemmo che mancava qualcosa di importante: il Comune non aveva mai affidato con una convenzione l’acqua di Napoli ad ABC .Chi aiutò a capire questo, fu un giovane avvocato, Maurizio Montalto, che ci ha da sempre aiutato. Seguirono altri due anni di dure lotte e di scontri con De Magistris per forzarlo a fare questo passo, ma inutilmente! Il primo segno di una svolta l’abbiamo avuto quando il sindaco ha scelto, lo scorso anno, l’avvocato Montalto a presidente dell’ABC (al posto del prof. Ugo Mattei). E così il 9 marzo la grande svolta.
“Nessuno guadagnerà più sull’acqua – ha esultato l’avvocato Montalto dopo il voto – Tutti gli utili saranno reinvestiti nel servizio. Non ci sarà più lucro. Oggi non siamo più una società di mercato, ma siamo diventati tutori di un diritto. È una svolta storica”.
La prima mossa della nuova ABC sarà di togliere a giugno ogni competenza a Equitalia sulle bollette non pagate, e la seconda è la decisione di dare l’1 per cento degli utili per portare l’acqua a chi non ce l’ha nei pesi del Sud del mondo. Per di più, il presidente dell’ABC, ha deciso che i comitati acqua di Napoli possano partecipare al Consiglio di amministrazione dell’Azienda Speciale. È fondamentale questo processo di partecipazione democratica su un tema così importante. Inoltre la delibera votata dal Consiglio comunale prevede che l’ABC, tra le sue attività, non potrà mai realizzare programmi che prevedono l’imbottigliamento e la vendita dell’acqua. Tutto questo avrà grandi ripercussioni sia in Campania come in Italia.
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In chiave campana, il presidente Caldoro sta varando una legge che mira alla privatizzazione dell’acqua, ponendola sotto l’unico soggetto giuridico esistente che è la Gori, una società mista pubblico-privata che gestisce 76 comuni dell’area vesuviana. È da anni che i comitati dell’acqua stanno lottando contro la pessima gestione della Gori, con bollette salate, ma finora inutilmente. Con questa legge Caldoro sperava così di poter mettere le mani anche sull’ABC di Napoli. Ma la Convenzione con la quale il Comune di Napoli affida per trent’anni l’acqua ad ABC, blocca il piano di Caldoro. Ecco perché abbiamo premuto su De Magistris perché mettesse ABC “in sicurezza”.
“Mi auguro – ha detto il sindaco dopo il voto – che questo segnale del Pd che ha votato per la gestione pubblica dell’acqua, vada anche verso la Regione che cerca di affondare ABC. Saremo noi ad affondare le mire di Caldoro e della Gori. E vogliamo anche inserire la gestione pubblica dell’acqua pubblica nello statuto della Città Metropolitana”. Ma la scelta del Comune di Napoli va non solo contro Caldoro, ma anche contro il governo Renzi che con lo Sblocca Italia spinge verso la privatizzazione dell’acqua, favorendo le grandi multiutilities Hera, A2 A, Iren… È questa la politica neoliberale del governo Renzi che è la negazione del Referendum del 2011.
Per questo Napoli invita oggi città come Milano, Torino, Reggio Emilia, Trento, Savona, Venezia a imitarla. È solo partendo dal basso che riusciremo a sconfiggere il Sistema. E sempre partendo dal basso Napoli sollecita oggi i nostri Parlamentari a far discutere la Legge di iniziativa popolare sulla gestione pubblica dell’acqua che è stata rivista e firmata da oltre 200 deputati dell’attuale Parlamento, ma che resta ancora nel cassetto della Commissione Ambiente della Camera.
Mi auguro che la vittoria che abbiamo ottenuto a Napoli dia uno scossone a tutto il movimento dell’acqua in Italia perché si risvegli dal proprio torpore e obblighi il governo Renzi ad obbedire alla volontà del popolo, democraticamente espressa nel referendum del 2011.
Dal basso, e insieme, si può!
Comune-info
10 03 2015
di Marina Sitrin*
Scrivo per celebrare la Giornata internazionale della Donna. Scrivo per celebrare tutte coloro che si identificano come donne e che lottano, in tutti i modi, in ogni campo, per essere più libere e per un mondo migliore.
Le lotte per la liberazione generale e quelle per la sopravvivenza quotidiana sono di uguale importanza. Scrivo per celebrare, non senza frustrazione, che abbiamo ancora bisogno di un giorno per celebrare le donne, che non siamo nemmeno lontanamente uguali e rispettate in tutto. Voglio scrivere di come solevamo dover celebrare le donne e le nostre lotte, ma oggi viviamo in un mondo libero in cui queste lotte sono cose del passato, in cui le ragazze non sono violentate e maritate a forza e le tossine non sono parte dei nostri pasti quotidiani. Ma quello non è ancora il nostro mondo. Così io scrivo per celebrare le donne combattenti di oggi, condividendo alcune storie di donne che stanno preparando il terreno per questo mondo nuovo, nelle nostre relazioni sociali, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle case e nelle strade e sulle barricate.
Argentina
Mi sono recata recentemente in Argentina per apprendere da, e collaborare con, chi difendeva la terra, l’acqua e i beni comuni, come sono definite le lotte (en defensa de la tierra, agua y bienes comunes). Dalle lotte contro le attività minerarie e contro la fratturazione idraulica a quelle contro l’irrorazione di pesticidi e i tentativi di deforestazione, le comunità resistono, vincono e spesso creano alternative negli stessi spazi della lotta. Mi sono stati dati nominativi di contatto per i vari movimenti in ciascuna città e paese; dopo i primi tre paesi ho cominciato a notare uno schema: Vanessa, Sofia, Gabriela, Monica, Paula … erano tutte donne. E una volta che ho cominciato a incontrare queste donne ispiratrici e ad apprendere le loro storie, ho anche notato alcuni tratti comuni.
Nessuna aveva fatto politica prima. Tutte erano arrivate all’attività organizzativa per quello che chiamavano un istinto e una reazione alla contaminazione o alla potenziale distruzione della loro comunità. La maggior parte di loro aveva figli e dappertutto si organizzavano in assemblee orizzontali.
C’è una potente intenzione di fare di tutte delle leader, di non avere gerarchie, e di condividere tra tutte il processo decisionale. Sono coinvolti anche gli uomini delle comunità, ma in tutti i casi la convocazione delle assemblee è fatta dalle donne. E significativamente la maggior parte delle azioni dirette militanti sono anch’esse guidate e condotte da donne.
A Malvinas, Argentina, sono lo donne dell’assemblea che hanno incrociato le braccia settimana dopo settimana e hanno impedito il passaggio ai camion della Monsanto. E hanno vinto! La Monsanto non sta più realizzando nella loro città l’impianto di lavorazione di semenze geneticamente modificate più grande del mondo.
A La Rioja la difesa del monte La Famatina è stata organizzata dalle donne e, di nuovo, i blocchi stradali e l’erezione di barricate sono state guidate dalle donne. E stanno vincendo! Hanno costretto due compagnie minerarie a revocare la loro intenzione di avviare attività minerarie nella montagna.
Viaggiando e parlando con persone in giro per il paese i racconti sono stati costanti: orizzontalismo, azione diretta, assenza di gerarchie, autonomia … tutte prevalentemente organizzate e dirette e messe in atto da donne.
Canada: Non Più Passive
Sheelah, Nina, Sylvia e Jessica: queste sono le donne che hanno avviato Non Più Passive.
Theresa Spence, il capo Attawapiskat che ha stimolato altre azioni di massa in tutto il continente e nel mondo con il suo potente sciopero delle fame.
Il movimento iniziato con quattro donne che si scambiavano e-mail e che hanno deciso di essere “Non Più Passive” è decollato in Canada e negli Usa con molte migliaia a tenere manifestazioni e marce, bloccando strade, ponti e autostrade e danzando in centri commerciali, aree di negozi e incroci. Queste azioni hanno forzato una conversazione sulla protezione della terra. Inizialmente in reazione a una potenziale legislazione canadese, leggi che avrebbero cancellato le protezioni della terra e dell’acqua e in particolare di terre indigene; il movimento è ora cresciuto e si è evoluto in una rete internazionale di popoli indigeni e loro sostenitori con una vasta base. Il movimento e quasi dovunque diretto da donne, dalla gestione di molte centinaia di siti internet alle portavoci, coordinatrici e agevolatrici del movimento in molte località.
Ciò che Widia Larivière, una ventinovenne Anishinabe del Quebec leader di Non Più Passive, ha scritto sul suo sito è coerente, credo, con quanto sentono tante migliaia.
“Per me essere una giovane attivista significa parlare apertamente e agire per la mia gente nonostante gli ostacoli che incontriamo come giovani, donne, indigene, eccetera e creare spazio per emancipare altri giovani a fare lo stesso”.
Dappertutto donne sono alla guida ma, come spiega Widia, non solo alla guida per sé stesse, per il presente, ma insegnando ad altre a guidare, e per il futuro.
Fukushima, Giappone
Ciò che si mangia sta diventando sempre più una questione di vita o di morte in molte parti del mondo. Luoghi come l’Argentina dove i raccolti sono irrorati di pesticidi a base di napalm, da lungo vietati anche negli Stati Uniti oppure come il Giappone, dove dopo la fusione dell’impianto nucleare nel 2011 il terreno non solo è contaminato, ma intenzionalmente sparpagliato in tutto il paese, rendendo contaminate anche località dove e se non c’era alcun terreno tossico.
Aki, Sersuko, Tatsuko, Yukiko, Kazue e Setsuko sono sei delle migliaia di donne coraggiose schierate contro il governo giapponese, le loro comunità e persino i loro mariti e famiglie. Sono della prefettura di Fukushima, dove ha avuto luogo la fusione nucleare, ma rappresentano tante donne che si oppongono alla contaminazione dei loro corpi e, per estensione, delle loro menti. Il governo ha condotto una massiccia campagna di propaganda sostenendo sin dall’inizio della crisi che è sicuro uscire, giocare per terra e nella sabbia e mangiare il cibo. Si è spinto sino a sostenere che non fare queste cose è antipatriottico, non giapponese e perciò punibile. Chi si oppone ha perso il lavoro ed è stato emarginato dai propri vicini e dalle proprie famiglie. C’è un clima tale di controllo sociale che dissentire, dire “No, io verificherò il mio cibo prima di darlo a mia figlia” oppure “Verificherà la sabbia prima che mio figlio ci giochi” è un atto di resistenza, e un atto di forza. Sono le donne che stanno manifestando questa forza.
Le donne sono, e sono state, in prima linea in questa resistenza in Giappone. Immediatamente dopo la fusione le donne si sono organizzate per acquistare contatori Geiger, allora illegali, per misurare i livelli di contaminazione nei loro quartieri. Hanno condiviso tra loro queste informazioni, facendo sapere ad altre donne quali alimenti erano sicuri da mangiare o quali terreni erano sicuri per i giochi dei bambini. Si oppongono, rifiutandola, alla propaganda dello stato sostenendo che obbedire potrebbe significare morte e certamente malattia. Opporsi allo stato in Giappone non è cosa semplice e molte donne raccontano che i loro mariti hanno divorziato da loro e che non sono più invitate alle occasioni familiari. È un prezzo pesante da pagare per cercare di sopravvivere e di tenere al sicuro la propria famiglia.
Molte delle donne, come Setsuko, oggi stanno organizzando non solo la sopravvivenza delle loro famiglie e comunità ma anche il cambiamento generale. Come dice nel film Donne di Fukushima “Dobbiamo far cadere questo governo”.
India, bande Gulabi
Le storie dell’orrore di matrimoni infantili e di stupri di giovani donne e ragazze in India sono devastanti, e in aumento. La reazione dei media, dei tribunali e dell’opinione generalizzata della maggior parte degli uomini del paese, che sono da incolpare le donne e le ragazze, aggravano ancor più tutto.
Nell’ultimo decennio si è andata levando una nuova forza – una forza rosa – non basata sul sistema legale, poiché è totalmente corrotto, bensì organizzata esclusivamente da donne di paesi e villaggi in tutta la regione settentrionale del paese. Questa nuova forza chiama gli uomini a rispondere delle violenze e così facendo cerca di prevenirle per il futuro.
Quella iniziata con poche donne è oggi una rete informale dovunque da decine di migliaia a 400.000 donne, vestite di sari rosa e che brandiscono bastoni di bambù. Sono chiamate Banda Gulabi (Banda Rosa) e mentre progrediscono la loro visione consiste nel “proteggere gli impotenti dalla violenza e combattere la corruzione”.
La loro attenzione è ai diritti delle donne e alla lotta alle violenze contro le ragazze e le donne. Sono prevalentemente note per picchiare gli uomini fino allo svenimento quando violano donne o ragazze, ma combattono anche contro i matrimoni infantili, aiutano a organizzare matrimoni basati sull’amore e operano in vari modi per assicurare che i poveri siano protetti.
“Sì, combattiamo gli stupratori con i lathis [bastoni]. Se scopriamo il colpevole lo facciamo nero e blu così non tenterà più di fare del male a una ragazza o a una donna”, ha spiegato la fondatrice dei gruppi, Sampat Devi Pal.
Ma la difesa non è la loro sola attività. Come scrivono sul loro sito web, “assistono e addestrano [anche] le donne ad accrescere le loro competenze per diventare economicamente sicure e sviluppare fiducia per proteggersi dagli abusi mediante scelte di sostentamento sostenibili”.
Resistenza quotidiana come una barricata in fiamme
Ci sono innumerevoli lotte, come quelle che ho citato in Argentina, Canada, Giappone e India, in cui le donne lottano per sopravvivere, proteggere chi è loro attorno, e si sforzano di costruire un mondo migliore, insegnando contemporaneamente ad altre come fare lo stesso. Veniamo da una lunga tradizione di donne di tutto il mondo che si sono costantemente organizzate per un mondo migliore, difendendo il prossimo e tutto ciò che deteniamo in comune.
E poi ci sono le lotte per la sopravvivenza che spesso ricevono meno attenzione poiché possono apparire meno eccitanti – possono non esserci barricate o azioni nelle strade – ma queste storie di sopravvivenza non sono meno potenti e sono anche parte di ciò che sta trasformando il nostro mondo – creando mondi nuovi – e proponendo alle giovani donne e alle ragazze un esempio che ci sono modi diversi di vivere, di essere e di relazionarsi.
Nel celebrare la Giornata Internazionale della Donna celebriamo tutto ciò che abbiamo realizzato, la forza che abbiamo e creiamo, e ricordiamo che questa forza si manifesta in ogni sorta di modi, dalle barricate in fiamme alle reti di case sicure per le donne violentate, dagli slogan dei nostri raduni pubblici emancipati alla nostra sopravvivenza giorno dopo giorno.
Fonte: teleSUR, tradotto da Giuseppe Volpe per znetitaly.org (creative commons CC BY-NC-SA 3.0)
* Scrittrice e insegnante. Il suo ultimo libro, scritto con Dario Azzellini, è They Can’t Represent Us! Reinventing Democracy from Greece to Occupy.
Comune-info
09 03 2015
Quella che racconta “Soldi sporchi”, la graphic novel di Re:Common e Round Robin, è una storia vera. Le dimensioni colossali dell’operazione di riciclaggio del denaro, messa in atto con la complicità di fondi privati, istituzioni europee, cooperazione internazionale e faccendieri vari, potrebbero sembrare eccessive, incredibili. Eppure non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che, anche in materia di corruzione, la realtà suole superare agilmente anche la più bizzarra delle fantasie. Protagonista della storia è un cittadino nigeriano onesto, Dotun Oloko, che non si dà pace e bussa alle porte dei finanziatori pubblici coinvolti per metterli in guardia e indurli a fermare una delle più grandi frodi internazionali condotte con soldi pubblici negli ultimi anni. Shell ed Eni avrebbero pagato una mega tangente di oltre un miliardo di dollari al governo e a vari trafficanti nigeriani e italiani per ottenere la licenza del campo petrolifero offshore Opl245. La procura di Milano dispone un blocco senza precedenti su più di 200 milioni di dollari dell’Eni a Londra e in Svizzera…
George Osodi – Oil Rich Niger Delta
di Antonio Tricarico
Quando si guarda a fondo in questioni di corruzione, spesso la realtà va ben oltre la fantasia. Lo scandalo Mose-Expo degli ultimi mesi in Italia ne è prova tangibile. Una Mani Pulite 2, molto più elaborata e articolata, ha mostrato la corruzione sistemica dei controllori e dei super-manager e non solo dei controllati o dei soliti politici di turno. In questo caso tutte le parti in causa hanno avuto un ruolo preciso, senza distinzione tra “buoni e cattivi”. Dalla guardia di finanza al Magistrato delle Acque, ai vari super manager governativi dell’Expo nel gioco a premi fatto di corrotti e corruttori c’era spazio per tutti. Insomma un sistema altamente delinquenziale, che non risparmia nessuno, tranne quei magistrati coraggiosi che pazientemente lo indagano e poi smascherano.
Ma basta spostare la prospettiva e il punto di osservazione verso il Sud del mondo che tutto il “sistema” salta. Almeno agli occhi dell’opinione pubblica dominante, imboccata da media poco attenti, quando non del tutto assenti. In Nigeria, secondo questa logica, la corruzione è causata da avidi politici nigeriani che affamano il loro popolo tenendo per sé i proventi del petrolio. Addirittura estorcendo denaro alle “povere” multinazionali petrolifere occidentali, costrette a subire pur di lavorare e creare ricchezza oltre-confini, perché ovviamente quelle cinesi, di multinazionali, sono ancora più corrotte degli stessi politici nigeriani. Il risultato è un enorme ginepraio di luoghi comuni, disinformazione e scarica barile con cui i governi occidentali e i loro probi governanti possono lavarsi mani e coscienza invocando una assoluta estraneità ai fatti. Ipocrisia senza quartiere per alcuni, arte della diplomazia e della politica secondo altri. Appunto, basta spostare prospettiva e punto di osservazione.
soldi-sporchi-copertinaLa storia vera che questa graphic novel racconta è quella di un onesto cittadino nigeriano che, come tanti, crede che ci vogliano due partner consenzienti per ballare il tango della corruzione. In alcuni casi il maschio tanghero che guida lo show è occidentale, nigeriana invece – e ovviamente non priva di responsabilità – è la consenziente ballerina.
Dotun Oloko, il protagonista inconsapevole di questa spy story fatta di corruzione, giochi di potere, fiumi di denaro e violenza, ha bussato alle porte di tutti i finanziatori pubblici occidentali per allertarli, metterli in guardia e indurli a intervenire per prevenire una delle più grandi frodi internazionali con soldi pubblici degli ultimi anni. Una denuncia senza quartiere che lo ha portato lontano dalla sua terra. Giocatore involontario di un complicato Risiko tra Africa, Stati Uniti ed Europa, dove nulla è più distinguibile, dove esistono solo nemici da cui guardarsi.
In questo gioco molto più grande di lui, Dotun ha scoperto che non vi è alcun vero interesse a porre fine alla corruzione e allo sperpero di fondi pubblici, a Londra come a Bruxelles. E che chi disturba il controllore, come ha fatto lui, poi finisce nel mirino dei corrotti con il tacito consenso dei finanziatori pubblici. Questa inquietante realtà è stata recentemente certificata dal garante europeo per la privacy, che ha fatto emergere come, dopo aver presentato l’esposto, Dotun e i suoi figli fossero stati sistematicamente spiati da investigatori privati assoldati dai manager del fondo di private equity tramite cui i governi occidentali hanno investito in Nigeria. L’ufficio anti-corruzione europeo (Olaf) alla fine ha chiuso le sue indagini sul caso con un nulla di fatto, ma la stessa indagine è stata riaperta quest’anno dal Serious Fraud Office inglese, dimostrazione che anche tra i controllori europei pare esserci qualche problema.
La tenacia e il coraggio con cui Dotun si è tuffato nello scandalo ECP non si è però limitata a questo. Insieme a Re:Common, Global Witness e The Corner House Dotun ha aiutato a ricercare e poi formulare un esposto alle autorità inquirenti di Regno Unito, Stati Uniti ed Italia sulla mega tangente di più di un miliardo di dollari che l’ENI e la Shell avrebbero pagato al governo e a vari trafficanti nigeriani e italiani per la licenza del campo petrolifero offshore Opl245. Anche in questo caso le indagini che ne sono scaturite, fino al blocco senza precedenti di più di 200 milioni di dollari dell’ENI a Londra e in Svizzera da parte della Procura di Milano, hanno dimostrato addirittura la possibilità che vi fosse una cospirazione da parte del senior management dell’ENI per defraudare la stessa società – ancora in parte pubblica – beneficiando di una parte della maxi stecca.
Lo scorso settembre la nuova indagine sul cane a sei zampe da parte della Procura di Milano è stata ampiamente riportata da tutti i media italiani e internazionali, e il primo ministro Renzi si è subito sperticato in una difesa (azzardata?) del nuovo amministratore delegato dell’ENI da lui nominato, pur se coinvolto fino al collo nella vicenda. La giustizia farà il suo corso, come si dice sempre in queste occasioni. Ma è importante aggiungere che anche la giustizia sociale perseguita dalla società civile lo continuerà a fare, ispirata dall’operato di persone come Dotun Oloko che, mettendoci la faccia, sfidano i veri poteri forti nel tango corrotto che costoro “insistono” a ballare indisturbati, in Italia come in Nigeria.
La lotta alla corruzione non ha bisogno solo di super-commissari e leggi a tolleranza zero – seppur necessarie – o di una cooperazione effettiva tra le autorità dei vari paesi che oggi è ancora un miraggio: oggi più che mai serve una società civile libera e indipendente che combatta in prima linea senza fare sconti a nessun governo, chiedendo e sostenendo l’azione della magistratura e dando voce e protezione a gole profonde così come a chi voce non ce l’ha. A partire dai milioni di diseredati del Delta del Niger in Nigeria, la cui vita è stata e continua a essere saccheggiata da governi corrotti e multinazionali “tanghere” del petrolio.
Comune - info
05 03 2014
Se fosse un altro posto, un qualunque altro posto, quelle strade piene di macerie, cadaveri e resti umani, sarebbero la cosa più simile all’inferno che si può immaginare sulla terra. Quattro italiani della Campagna Rojava Calling hanno varcato la frontiera turca e trascorso alcuni giorni a Kobanê. Poi hanno preferito far raccontare quei giorni alle immagini invece che alle parole, perché le parole a volte non bastano e spesso finiscono per annegare nella retorica. Un tentativo di restituire la verità della Rojava in una città che guarda il mondo con un punto di vista molto originale, quello di una rivoluzione possibile difesa quartiere per quartiere, anzi metro per metro.
Abbiamo preferito le immagini alle parole. Cinque giorni dentro Kobane sono abbastanza per scegliere un altro punto di vista sul mondo. Quello della rivoluzione possibile. Questo e’ il motivo per cui abbiamo paura della retorica e non riusciamo ad immaginare un testo in grado di contenere tutto quello che abbiamo vissuto correndo oltre il filo spinato per oltrepassare quella maledetta frontiera, con luci e fucili dell’esercito turco puntati alla schiena. Se fosse un altro posto, un qualunque altro posto, quelle strade piene di macerie, cadaveri e resti umani, sarebbero la cosa più simile all’inferno che si può immaginare sulla terra.
E invece la libertà, così difficile da immaginare realizzata per noi che abbiamo perso il sapore della conquista, ha trasformato quel disastro in nuove fondamenta. Sola come durante la guerra, Kobane lentamente si sta rialzando sulle proprie gambe e giorno dopo giorno raccoglie le migliaia di abitanti che aveva messo al sicuro a Suruç e che ora sono pronti a ricominciare dove il Daesh li aveva violentemente interrotti. Non siamo giornalisti. Siamo parte di un progetto collettivo, Rojava calling, che da mesi supporta e sostiene questa esperienza. Quello che raccontiamo e’ un tentativo di restituire la verità della Rojava anche attraverso l’atrocità del conflitto.
Sappiamo che la densità e l’intensità degli incontri e delle esperienze che abbiamo vissuto in questi giorni sono state un privilegio che dobbiamo ai fratelli e alle sorelle che abbiamo lasciato oltre il confine e che ci hanno accompagnato instante dopo istante. Abbiamo battuto quartiere per quartiere la città distrutta, addentrandoci tra i passaggi segreti che i combattenti e le combattenti hanno aperto tra i palazzi per non esporsi mai ai cecchini dell’Isis. Quegli stessi varchi grazie ai quali metro dopo metro i compagni hanno riconquistato la città. Siamo saliti fino alla cima della collina che oggi porta il nome di Arin Mirkan sulla quale è stata issata l’immensa bandiera che ha sancito la liberazione. Abbiamo chiacchierato con i combattenti e le combattenti dello YPG e YPJ di resistenza, pratiche rivoluzionarie, strategie di smantellamento della mentalità patriarcale, capitalismo e liberazione.
Abbiamo assistito alla prima riunione ufficiale dei tre cantoni che hanno scelto quel teatro apocalittico per discutere insieme non solo della ricostruzione di Kobane, ma pure del futuro della rivoluzione del Rojava. Abbiamo attraversato il cuore di una città senza moneta, che durante la guerra non ha mai smesso di produrre pane e garantire sopravvivenza a chi era rimasto in città. Abbiamo lavorato fianco a fianco ai ragazzi del media center, quei ragazzi che durante la guerra sono rimasti dentro Kobane per raccontare al mondo quello che accadeva istante dopo istante. Ma soprattutto di questi giorni non scorderemo mai la ricchezza delle discussioni politiche fatte al calar della sera davanti a un chai con alcuni protagonisti di questa rivoluzione di cui abbiamo promesso di cancellare volti e nomi.
Non dobbiamo dimenticare che Kobane, la Rojava, il confederalismo democratico sono il risultato di un esperimento praticato negli ultimi decenni da un’organizzazione, il Pkk, che oggi ancora viene accostata al terrorismo e costretta alla clandestinità. Tutte queste cose vanno tenute assieme perché Kobane non diventi solo una bandiera da sventolare ma una pratica che mira alla riproducibilità e alla moltiplicazione. Tutto il mondo e’ in debito con questa rivoluzione. Kobane, la sua gente e la sua resistenza sono patrimonio dell’umanità.
Rojava Calling
Comune-info
24 02 2015
Il commento di notav.info dopo la grande manifestazione di Torino.
Quando l’assemblea popolare di Torino scelse Torino come sede della manifestazione ci dicemmo che sarebbe stata una scommessa. Lasciare la Valle, con le certezze sulla partecipazione, era un rischio eppure il movimento ha dimostrato di avere ancora una volta coraggio quando è chiamato a fare delle scelte.
Abbiamo scelto Torino perché volevamo un corteo che lasciasse il segno, in risposta alle condanne del maxiprocesso, per chiedere la liberazione dei notav ancora in carcere e di dimostrazione di come saremmo ancora una volta ripartiti, perché è tornato il momento di non solo difenderci da arresti e condanne, ma di far capire a tutti perchè tanto accanimento nei nostri confronti.
E questo è stato, una manifestazione grande, veramente grande, che sotto una pioggia battente ha mostrato le facce di chi lotta, le fasce dei sindaci, le bandiere di tanti, il trenino con i bambini e gli anziani, i cartelli con i costi del tav, gli striscioni di solidarietà, la geografia resistente delle lotte per il territorio.
Mancavano i notav da Milano, bloccati prima alla stazione centrale, poi a Biella e infine a Porta Susa e poi dirottati a Porta nuova e fatti scendere a corteo finito. Un’assurdità targata Trenitalia e forze dell’ordine.
Anonymous nel frattempo manifestava a modo proprio mandando in tango down il sito del Cipe, del tribunale di Torino e del sen Esposito.
I sindaci della Valle hanno deliberato in piazza Castello davanti alla Regione, il no al tav e nei prossimi giorni invieranno la delibera a tutti i comuni italiani. Il movimento ha lanciato la campagna con #1metrodiTav e rilanciato verso il futuro. Non bastano le condanne, l’ennesima approvazione fuffa del Cipe, lo scavo al contrario da Chiomonte a Susa per far abbassare quelle bandiere.
La scommessa che avevamo fatto l’abbiamo vinta, ora lo diciamo con ancora più convinzione: fermarci è veramente impossibile!