Corriere della Sera
08 02 2013

Dovevano durare pochi mesi per consentire la costruzione di case popolari dopo il crollo di alcune abitazioni del centro di Taranto. Da 33 anni ospitano 260 famiglie falcidiate da tumori, cirrosi ed epatiti. I soldi stanziati per l'abbattimento sparirono dieci anni fa.

«Resterete qui solo 5 o 6 mesi, il tempo necessario per costruire le nuove case». Così dissero i tecnici comunali di Taranto agli sfollati del centro storico che nel frattempo cadeva a pezzi. Era il 1980. Sono passati 33 anni ma quelle case costruite di fretta e furia con catrame al posto dei pavimenti e pannelli di amianto come pareti, sono ancora lì. Mentre sono cambiati molti di quelli che ci abitavano. Falcidiati da tumori e cirrosi epatiche.

Un'ecatombe quotidiana per le 260 famiglie alloggiate a pochi metri dalla ciminiera più grande dell'Ilva. Qui, in ogni casa ci sono almeno due malati di tumore. Il resto sono cirrosi ed epatiti. Siamo entrati a vedere questo quartiere abbandonato da tutti in una giornata di pioggia. Negli appartamenti all'ultimo piano (costruiti per ospitare due o massimo tre persone) ci abitano famiglie intere, anche di 7 o 8 persone. Le mura gocciolano acqua ovunque. Al punto da aver consumato le pareti e svelato i filamenti di amianto. I pavimenti sono di plastica, incollati a terra con il catrame. Nei piani bassi invece le mura sono segnate dall'umidità che sale . Almeno così sembra a prima vista.

Ci spiegano che invece sono i pozzi neri, situati proprio sotto gli appartamenti, a esalare e impregnare i pannelli usati come pareti fino a 1,5mt di altezza. La puzza è di fogna. Il colore dei parati, messi posticcio per dare una sembianza di ospitalità, è marrone scuro. Erano bianchi. A terra c'è l'acqua delle fogne. I topi sguazzano ovunque. C'è chi ha tappato tutti i buchi dei sanitari e di notte chiude la porta del bagno a chiave per paura. «Sono dei bambini, non sono topi».

Appena qualche mese fa i pozzi neri sono esplosi e i liquami fognari si sono infiltrati nelle condotte dell'acqua. «Dai lavandini, dai rubinetti, dai lavelli della cucina uscivano escrementi, urina, persino pezzi di carta igienica. Molti di noi sono dovuti andare in ospedale ma non è cambiato niente» ci spiegano le donne del quartiere sul quale, come se non bastasse, si posa ovunque la polvere metallica delle ciminiere dell'Ilva.

Da queste parti i tecnici comunali o dell'istituto case popolari (comproprietari degli stabili) li vedono di rado. Anche loro hanno rinunciato a metterci mano. «Hanno una qualità costruttiva talmente bassa che è impossibile recuperare, sono al di sotto di qualsiasi standard abitativo, andrebbero solo abbattuti» rivela l'architello Rocco Alberto Cerino dello Iacp di Taranto. Dieci anni fa pareva fosse la volta buona per mettere fine a questa vergogna e dare una speranza anche alle 2500 persone cui spetta di diritto una casa popolare a Taranto. Invece, inspiegabilmente, i fondi destinati per l'abbattimento e la ricostruzione sparirono.

Al comune arrivò la magistratura. Mise sotto sequestro l'ufficio Casa del Comune. Le indagini sono in corso. Allo scippo di questi soldi, all'abbandono del quartiere da parte dello Stato è corrisposta l'avanzata della criminalità che in alcuni di queste case ha stabilito la propria centrale dello spaccio di droga. La notte scatta il coprifuoco mentre le abitazioni dei boss vengono sorvegliate da pastori tedeschi e vedette a ogni angolo. Durante un blitz delle forze dell'ordine sono stati trovati persino dei mitra. Un degrado talmente surreale da far credere ad alcuni ragazzi del quartiere che un giorno qualcuno verrà a girare un film «...perché - ci dicono dietro le telecamere - una vita così o è fatta per diventare un film o è una vita bruciata».

Antonio Crispino

Amnesty international
31 01 2013

La sentenza emessa il 30 gennaio da un tribunale distrettuale olandese dell'Aia relativa alla responsabilità della Shell per l'inquinamento del delta del fiume Niger, in Nigeria, dimostra che la giustizia è possibile ma che è estremamente difficile raggiungerla quando si ha a che fare con una grande multinazionale.

"È chiaramente positivo che uno dei ricorrenti sia riuscito ad aggirare tutti gli ostacoli per avvicinarsi a qualcosa che somiglia alla giustizia. Il tribunale ha stabilito che la Shell aveva l'obbligo di diligenza nel prevenire le manomissioni dei suoi oleodotti" - ha dichiarato Audrey Gaughran, direttrice del Programma Africa di Amnesty International.

"Tuttavia - ha aggiunto Gaughran - il fatto che il tribunale abbia respinto gli altri ricorsi
evidenzia gli enormi ostacoli che la popolazione del delta del Niger incontra nell'accesso alla giustizia quando le loro vite sono state distrutte dall'inquinamento".

"Considerate complessivamente le grandi difficoltà nell'arrivare al processo, il significato della sentenza di oggi è che un ricorrente ha vinto e otterrà il pagamento dei danni. È comunque evidente che i governi devono rendersi conto di quanto siano elevati gli ostacoli che si frappongono a chi cerca di portare in giudizio le grandi multinazionali" - ha concluso Gaughran.

Amnesty International documenta da anni il massiccio inquinamento da petrolio nel delta del fiume Niger e le sue gravi conseguenze sui diritti umani delle popolazioni locali.

Ulteriori informazioni

L'11 ottobre 2012, un tribunale dell'Aia ha accolto la causa contro la Shell intentata da quattro contadini nigeriani originari dell'Ogoniland, supportati dall'associazione ambientalista Friends of the Hearth International.

La Shell è stata accusata di aver inquinato campi coltivati e corsi d'acqua dei villaggi di Goi, Oruma e Ikot Ada Udo a causa di una serie di fuoriuscite avvenute fra il 2004 e il 2007.

A consentire l'avvio del processo è stata una decisione della magistratura olandese, che nel 2008 si era dichiarata competente sul caso nonostante la Royal Dutch Shell sostenesse che le responsabilità ricadessero unicamente sulla sua sussidiaria locale, la Shell Petroleum Development Company Of Nigeria.

Le richieste dei contadini all'azienda sono di bonificare le zone inquinate da idrocarburi nelle loro comunità, risarcire le persone colpite e prevenire il verificarsi di ulteriori perdite di petrolio dalle infrastrutture della compagnia.

Le comunità che vivono sul delta del fiume Niger dipendono per il loro sostentamento in primo luogo dall'ambiente, ivi compresa l'agricoltura e la pesca. Decenni di attività dell'industria petrolifera nel delta del Niger hanno danneggiato o distrutto importanti fonti di sostentamento tra cui l'agricoltura, la pesca e i corsi d'acqua.

Frontierenews
28 01 2013

Adulti legati agli alberi e fucilati, bambini e bestie gettati nei fiumi, cadaveri dati in pasto alle iene e un villaggio Suri raso al suolo. Dei 154 abitanti solo sette i sopravvissuti.

Tra polemiche e controversie intorno alla diga Gibe III, cresce il numero delle vittime in Etiopia. Nell’ultimo rapporto, che risale a dicembre 2012, viene rivelato che sono centinaia le persone che hanno subito violenze, omicidi e stupri. La “colpa” è quella di opporsi alla costruzione del colosso idroelettrico per difendere la propria terra.

Nella valle dell’Omo, patrimonio dell’Unesco, un conflitto silenzioso iniziato 7 anni fa continua a mietere vittime. Non è uno di quei conflitti che ai grandi eserciti europei interessa risolvere. Si tratta di una guerra indetta e gestita dal “progresso”, se così è lecito chiamarlo. Nel luglio 2006 il governo etiope, attraverso la EEPC (Ethiopian Electric Power Corporation) appalta, ma senza bando né gara, alla Società italiana Salini Costruttori la realizzazione della terza diga che porta il nome di GIBE.

“Ispirata ai principi dello sviluppo sostenibile, fa leva sull’innovazione tecnologica e organizzativa e sullo straordinario patrimonio umano e professionale di cui dispone, per sviluppare soluzioni costruttive, capaci di valorizzare le risorse dei territori e di contribuire alla crescita economica e sociale dei popoli”, è la mission che la Salini dichiara sul proprio sito. La diga sarà un gigante di cemento in grado di produrre 6.500GWh all’anno. Energia da immettere nel sistema elettrico nazionale e da rivendere a caro prezzo alla nazione più vicina: il Kenya.

Nonostante l’ordinamento giuridico di Adis Abeba preveda che prima dell’approvazione del progetto debba essere effettuata una valutazione sull’impatto ambientale e sociale, il  governo dà il via libera al magnate italico di deporre la prima pietra. La stampa non ne parla e il grido silenzioso dei 500mila abitanti della valle resta sommerso. Soltanto nel 2008 l’EPA (Ethiopian Environmental Protection Authority) dà ufficialmente il via libera ai lavori dopo aver ricevuto un dossier del CESI - guarda caso un’agenzia milanese, che definisce l’impatto ambientale legato al progetto “trascurabile” o addirittura “positivo”. Il Cesi si è però impegnato a trascurare l’uso delle terre limitrofe alla diga da parte dei contadini locali, piuttosto che come funzioneranno i futuri piani di regolazione delle piene e delle irrigazioni artificiali. Lo studio dell’agenzia milanese non parla nemmeno lontanamente della futura situazione del lago Turkana, oltre il confine con il Kenya, che dall’Omo riceve il 90% delle sue acque.

Eppure gli studi di settore effettuati da una serie di Ong dicono l’esatto opposto. “La diga altererà in modo drammatico i flussi stagionali dell’Omo e avrà un enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione e sulle comunità indigene che abitano lungo le sponde del fiume fino al suo delta, al confine con il Kenya. La portata dell’Omo subirà una drastica riduzione. Il fenomeno interromperà il ciclo naturale delle esondazioni che periodicamente riversano acqua e humus nella valle alimentando le foreste e rendendo possibile l’agricoltura e la pastorizia nei terreni rivivificati dalla acque. Tutte le economie di sussistenza legate direttamente e indirettamente al fiume collasseranno compromettendo la sicurezza alimentare di almeno 100.000 persone.”, si legge su survival.it.

E così le popolazioni locali sono state costrette a un processo di “villaggizzazione” come lo hanno definito le autorità locali. Un vero e proprio trasferimento forzato di intere tribù come i Mursi, i Bodi e i Kwengu in campi di reinsediamento. Violenze fisiche e morali sono i mezzi di coercizione che accompagnano questo rastrellamento. Grazie a un servizio della Cnn è emerso un reportage a dir poco agghiacciante. Adulti legati agli alberi e fucilati, bambini e bestie gettati nei fiumi, cadaveri dati in pasto alle iene e un villaggio Suri raso al suolo. Dei 154 abitanti solo sette i sopravvissuti.

Stephen Corry, direttore generale di Survival International, ha dichiarato: “Questa mappa rivela quello che il governo etiope voleva nascondere, ovvero l’intenzione di reinsediare le tribù della bassa valle dell’Omo. Tenendo conto anche delle numerose segnalazioni che ci sono pervenute su sfratti violenti e intimidazioni, l’obiettivo finale del governo è divenuto ormai lampante, così come il suo rifiuto di rispettare i fondamentali diritti di chiunque si ritrovi sulla sua strada.”

Gli appelli che chiedono di interrompere questo scempio sono molteplici. Tra i primi è stata l’Unesco, a seguire Survival International, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Counter Balance coalition, Friends of Lake Turkana e International Rivers. E’ stato creato il sito stopgibe3.it dove sono disponibili informazioni e news sulla situazione e Survival.it ha lanciato una petizione per impedire il continuo di questa strage.
 

Francia, deraglia treno di scorie nucleari

  • Venerdì, 25 Gennaio 2013 10:48 ,
  • Pubblicato in Flash news

Radio Blackout
25 01 2013

Qualche giorno fa in Francia un treno carico di uranio impoverito della multinazionale di stato Areva, diretto in Olanda, è deragliato durante una manovra in una stazione non lontano da Grenoble, a 200 chilometri da Torino. I media francesi hanno riportato solo uno scarno comunicato di agenzia che minimizzava l’accaduto.

Ne parliamo con Lorenzo, attivista No Nuke, col quale si fa anche qualche considerazione sugli interessi di Areva per l’uranio del Nordafrica e per le scorie del nucleare italiano stoccate a Saluggia.

Erbastella

  • Mercoledì, 19 Dicembre 2012 07:30 ,
  • Pubblicato in Video

Trailer del documentario di Silvio Montanaro "Erbastella".

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