Corriere della Sera
11 09 2014
E adesso? È la domanda che spesso alla fine di un processo penale ci si sente rivolgere dalle persone che abbiamo assistito, qualsiasi ruolo abbiano avuto in quella vicenda. Chi il processo lo ha vissuto dovendosi difendere, perché vuole capire come cambierà la sua vita da quel momento in poi e se quella sensazione di essere sospeso tra due mondi durerà ancora a lungo. Chi il processo lo ha vissuto come persona offesa, perché non sa ancora, ma lo scoprirà in breve tempo, che con la sentenza si chiude – di fatto – l’interesse statale per la sua posizione.
In mezzo l’avvocato che deve spiegare, deve tradurre da una lingua complessa e contorta i contenuti di un comando, di un divieto, di una sanzione o di una pronuncia assolutoria. Non è infatti facile comprendere che il «dopo» nel diritto non esiste, che il processo penale non è rivolto al futuro ma guarda solo al passato per giudicarlo e lì si consuma. Ed ancora meno che le sanzioni spesso resteranno sulla carta o che, anche se si chiude con una assoluzione il processo può segnare comunque negativamente la vita, lasciando una ferita pesante. Tutto questo vale anche per i processi in materia di violenza domestica.
Il processo penale per quanto certamente moderno, ancora oggi è pensato in termini quasi esclusivamente punitivi e mentre è prevista una debole rete di protezione nel circuito processuale non la contempla affatto nella fase post processuale.
Questo significa lasciare «scoperti» sia autore che vittima del reato nel momento in cui il processo finisce. Ed invece è li che la rete di protezione dovrebbe attivarsi per dare una opportunità di non recidiva e di reinserimento reale nel mondo del colpevole, per dare un sostengo effettivo e concreto a chi vittima è stata riconosciuta da una pronuncia definitiva.
Questa caratteristica non aiuta né gli uni né gli altri ma anzi, aumenta se possibile il senso di distanza tra Stato e cittadino che non comprende come e perché si impegni tanto tempo e denaro per occuparsi di qualcosa che riguarda un momento passato e non ci si preoccupi minimamente di ciò che avviene adesso e, ancora di più, di ciò che avverrà in futuro. È come se l’unico modo per rappresentare la realtà, fosse quello di fotografarla, fissandola in un dato momento storico. Ma la vita non si ferma: cammina, spesso corre ed il processo la insegue, acchiappandola solo per brevi tratti. E così capita per esempio di trovarsi tante volte con processi fotocopia tra le stesse parti, come per le violenze domestiche, per i maltrattamenti, per le violenze sessuali, lo stalking. Gli stessi fatti che si ripetono nel tempo.
E dopo il processo? Nulla si riprende, passato un breve momento, dal punto di partenza.
Perché se lo Stato, oltre che punire ovviamente, non pensa al dopo, quei fatti sono destinati a ripetersi tali e quali. E per affrontarli, invece, non servirebbero interventi né complessi né particolarmente costosi, solo diversi. Quale aiuto al reinserimento oggi è presente per chi è stato condannato?
La Costituzione prevede una pena rieducativa ma oggi si è davvero lontanissimi da tutto ciò salvo poche e pur importanti realtà. Per chi la violenza l’ha subita la situazione è anche peggiore: per i reati che si svolgono nell’ambito familiare e per quelli contro la persona, sarebbe sufficiente un monitoraggio minimo per comprendere se quelle situazioni si verificano ancora e perché lo Stato ne prendesse coscienza e se ne facesse dunque carico.
Una telefonata, una presa di contatto con chi è stata riconosciuta vittima di violenza che chieda come va, se ci sono problemi, se quelle situazioni si sono ripresentate. Un follow up, direbbero i medici.
Fondamentale per evitare recidive o per affrontarle rapidamente.
Il contrasto alla violenza in atto è cosa diversa dalla prevenzione per la quale servono interventi culturali, sopratutto dedicati alle agenzie educative, di largo spettro ad oggi decisamente carenti. Per il contrasto e la repressione, oltre al ruolo fondamentale del processo, occorre una rete di protezione che si attivi in presenza di una vittima, non la lasci sola e la sostenga. Anche sotto questo profilo il quadro è, oggi, desolante.
Di violenza, diritti e genere si parlerà da oggi a sabato 13 settembre a Sui Generis, quattro giorni di convegno e dibattito organizzato a Cagliari dall’Ordine dei medici, dall’Ordine degli psicologi della Sardegna e del Comitato pari opportunità dell’Ordine Avvocati di Cagliari con il patrocinio dell’Università degli Studi di Cagliari, del Consiglio Nazionale Forense, dell’Ordine nazionale degli psicologi e della Fondazione nazionale Ordini Medici e Odontoiatri
Rosanna Mura
Associazione Frida - Donne che sostengono donne
05 09 2014
Oggetto: nuovo corso di formazione per operatrici dei centri antiviolenza iscrizioni fino al 20 settembre 2014
L’Associazione Frida di San Miniato promuove un nuovo corso di formazione sul tema della violenza contro le donne e dedicato a coloro che desiderano acquisire le competenze teoriche e pratiche per diventare operatrici dei centri antiviolenza.
Il corso, interamente gratuito, si svolgerà a San Miniato da inizio ottobre a fine novembre.
Il corso è aperto a tutte le donne; per l’ammissione è previsto un colloquio di selezione iniziale. La richiesta di partecipazione, corredata di curriculum vitae, dovrà essere inviata entro e non oltre il 20 settembre 2014 all’indirizzo email Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Alla formazione in aula farà seguito un tirocinio formativo obbligatorio di 200 ore da svolgersi presso il Centro antiviolenza Frida Kahlo di San Miniato, aperto da Frida nel giugno del 2013 in partenariato con la Società della Salute Valdarno Inferiore e grazie al contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità.
Il corso prevede 7 incontri di 6 ore ciascuno, che si terranno preferibilmente nei fine settimana (venerdì e sabato), sui seguenti temi:
Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere, Storia delle donne, femminismo, Definizioni e riconoscimento della violenza di genere, La spirale della violenza di genere, Leggi enorme sulla violenza di genere, L’assistenza legale e le procedure penali e civili, I minori e la violenza assistita, La costruzione dell’identità di genere, La metodologia di accoglienza delle donne vittime di violenza e il lavoro dei centri antiviolenza.
Per info contattare l'Associazione Frida ai numeri 3467578833 – 057142649
Per saperne di più sull'associazione Frida visita il sito: www.associazionefrida.it
Associazione Frida
Un altro genere di comunicazione
28 07 2014
I centri antiviolenza hanno una storia femminista. Negli anni ’70 c’erano i gruppi di autocoscienza nei quali le donne condividevano storie ed esperienze, molte di quelle storie raccontavano di violenze.
Alcune di quelle donne decisero di lasciare il luogo dove quelle violenze venivano agite contro di loro, quel luogo era la casa, la famiglia.
Costruirono nuove case, nuove famiglie, dove tra donne potevano vivere la loro libertà e mettere in discussione l’assetto della società patriarcale. Nascevano così le prime case rifugio per donne vittime di violenza.
In Italia, in ritardo rispetto ad altri paesi europei, i primi centri per donne che subiscono violenza aprono negli anni ’90, questi centri si ispirano a principi tra cui: riconoscimento delle radici strutturali della violenza maschile contro le donne nella disparità di potere tra i sessi; accoglienza basata sulle relazioni tra donne; accompagnamento nel percorso di uscita dalla violenza nel rispetto dell’autonomia e autodeterminazione della donna vittima; ascolto non giudicante; pieno rispetto e accoglienza per donne e bambin* di qualsiasi religione, etnia, classe sociale, orientamento sessuale.
Molti centri antiviolenza italiani hanno una storia ventennale di progetti, attività di accoglienza e sensibilizzazione, buone prassi.
Operatrici formate ed esperte operano con fondi scarsi o inesistenti o ripartiti male.
La rete di centri antiviolenza D.I.Re è scesa in piazza il 10 Luglio scorso per protestare contro la ripartizione dei fondi decisi in Conferenza Stato Regioni.
Secondo D.i.Re questi criteri penalizzano le competenze dei Centri Antiviolenza e legittimano luoghi che si occupano di problematiche distanti dalla violenza, solo al fine di accedere a fondi già assolutamente inadeguati.
E’ stato ribadito che motivi di poca chiarezza risiedono già nella legge 119/2013, la così detta legge sul femminicidio, che non indica i criteri qualitativi che distinguono e caratterizzano i centri antiviolenza; lacuna che ha portato le Regioni ad includere nella mappatura dei centri antiviolenza anche luoghi privi di competenze.
Voce unanime in conferenza stampa la necessità di evitare di somministrare finanziamenti a pioggia e distribuire risorse senza tenere conto dei bisogni delle donne e delle esperienze maturate dai Centri antiviolenza. D.i.Re ha messo in evidenza il rischio che le donne possano ricevere risposte inadeguate o subìre vittimizzazione secondaria da risposte non adeguate fornite.
Per vittimizzazine secondaria si intende la colpevolizzazione della vittima, ovvero un ulteriore danno emotivo/morale rispetto a quello già subito dalla donna.
Possono agire vittimizzazione secondaria famigliari, agenti di polizia, medici, qualsiasi operatore che prende in carico una donna vittima di violenza e attua un comportamento giudicante, accusante, lesivo della persona e della sua storia.
Per questo motivo chiunque lavori con donne che hanno subito violenza deve essere adeguatamente formato per evitare di causare ulteriori problemi.
Una donna che arriva in un centro antiviolenza ha il diritto di trovare davanti a sè donne esperte, capaci di accogliere senza giudizio e di riconoscere l’autodeterminazione di ognuna senza sostituirsi nelle scelte.
Ma se una donna si rivolgesse ad un centro antiviolenza e incontrasse un’operatrice del Movimento Per la Vita? Ovvero una persona che non riconosce l’autodeterminazione delle donne, che considera più importante un embrione di una vita fatta di esperienze e scelte, che rifiuta la contraccezione perchè peccato e condanna il divorzio perchè distruttivo della sacralità della famiglia “tradizionale”? Le donne di Pescara corrono questo rischio.
Nell’Aprile scorso il Movimento per la Vita della città di Pescara è riuscito ad ottenere uno stanziamento regionale di fondi europei per la bellezza di 60 mila euro per la gestione di sportelli antiviolenza.
Il progetto presentato e vincitore del bando si chiama: “Legge, sicurezza e pienezza per la vita”, nato “dall’esigenza di rafforzare sul territorio la rete di aiuto e supporto alle donne vittime di violenza”, consiste in 10 sportelli attivi per un anno sul territorio di Pescara.
Uno di questi dieci centri “antiviolenza” si trova nella sede locale del Movimento per la Vita, uno dentro il consultorio pubblico, uno in un poliambulatorio medico, altri nelle sedi di quartiere. Ma sono presenti anche nelle scuole: “in quattro Istituti superiori siamo già entrati in accordo con i dirigenti scolastici per fare incontri con gli studenti” (fonte citazioni)
Non farti calpestare, il fiore sei tu. C’è scritto così nella locandina dell’evento di presentazione di apertura degli sportelli, e sotto c’è l’immagine di una giovane donna, con un fiore ficcato in un’occhio, un’immagine violenta, un bruttissimo esempio di riproposizione visiva della violenza, una rappresentazione umiliante e deturpata della donna, alla quale, tra l’altro, si intima di smetterla di farsi calpetare, riconoscendole quasi un concorso di colpa nella violenza subita.
Il Movimento per la Vita è una federazione di associazioni che si battono per il riconoscimento della vita sin dal concepimento, riescono ad ottenere fondi e piazzarsi nei consultori dove fanno terrorismo psicologico verso le donne che scelgono di interrompere una gravidanza.
I prolife del Movimento per la vita agiscono contro i diritti di autodeterminazione e salute delle donne, come possono gestire sportelli antiviolenza?
Come possono seguire le buone prassi di ascolto non giudicante e rispetto di tutte le scelte quando l’obiettivo primario dichiarato dell’associazine non è quello del sostegno alle donne vittime di violenza maschile ma la tutela della vita, della sacralità del matrimonio, della famiglia uomo/donna?
Cosa diranno le operatrici prolife a quella donna che si reca da loro perchè ha subito violenza sessuale e vuole essere indirizzata per procedere con un’interruzione volontaria di gravidanza?
Le operatrici del progetto “Legge, sicurezza e pienezza della vita” sosterranno la decisione di quella donna che vuole il divorzio dal marito violento?
Come accoglieranno la donna transessuale o la donna lesbica?
Il rischio che le donne che si rivolgono a questi sportelli, gestiti da personale ideologizzato e non competente, subiscano vittimizzazione secondaria è altissimo, come altissimo è il rischio che le libere scelte e l’autodeterminazione delle donne non vengano rispettate o che addirittura queste possano venir indirizzate ad intraprendere percorsi potenzialmente pericolosi.
Per capire la totale mancanza di conoscenza di base dei meccanismi della violenza di genere, la malafede, il fondamentalismo cattolico che si celano dietro all’operazione “Legge, sicurezza e pienezza della vita”, basta fare un salto sulla loro pagina facebook, dove è possibile trovare link come questo dal titolo “Violenza domestica. Lui vittima quanto lei”.
Oltre a quello citato, ci sono diversi altri link provenienti dallo stesso blog, gestito da un certo Giuliano Guzzo, autore del libro La famiglia è una sola ed edtorialista di pezzi del calibro di: “Il divorzio virus che uccide”; “Contraccezione. Non riduce (semmai aumenta) gli aborti“; Adozioni omosessuali? No; Femminicidio. I dati di un allarme inventato.
Non mi sembra necessario aggiungere altro.
Il femminicidio, che ritengono un allarme inventato, è stato usato strumentalmente da questi ignobili personaggi per intascarsi 60 mila euro.
Non è ammissibile che una donna nel proprio percorso di uscita dalla violenza incontri un/una prolife, i danni di una cattiva gestione dei servizi antiviolenza sono incalcolabili.
I fondi vanno ripartiti, e magari pure aumentati, riconoscendo l’esperienza, la tradizione femminista e le buone prassi dei centri antiviolenza che operano da anni con competenza e coraggio sul territorio italiano.
Fuori i prolife dai consultori, dai centri antiviolenza, dagli spazi delle donne.
A Pescara c’è anche un vero centro antiviolenza, Ananke.
Abbatto i muri
22 07 2014
Mi scrive una ragazza che racconta una storia. La condivido con voi, dopo averle inviato in grande abbraccio. Lei voleva esprimere solidarietà e nel frattempo racconta un pezzo di vita che forse è la vita di molte altre. Ho cambiato alcuni dettagli e il nome della città, d’accordo con lei, per la tutela della sua privacy. Quello che emerge, al di là di tutto, è il fatto che questa ragazza, come molte che si trovano nella sua situazione, non ha reddito e casa, è precaria e dunque fa fatica ad essere autonoma. Si rende subito evidente la situazione di dipendenza economica che continua a farti restare legata agli stessi luoghi e alle stesse persone che per te rappresentano una violenza. Trovare autonomia, assumere consapevolezza del fatto che ti servono strumenti economici per r-esistere, è già un bel passo avanti. Perché a volte, vedete, le donne che subiscono violenza, vogliono soltanto poter andare avanti, senza restare ancorate al dolore del passato, per dare a se stesse una possibilità per vivere e perché sono queste donne che scelgono e decidono ciò di cui hanno bisogno. Questa donna vuole un reddito e, dunque, perché mai lo Stato, come unica e catartica soluzione, giusto per se stesso, per la bella immagine delle istituzioni e dei patriarchi che la sorreggono, sa solo offrire strumenti repressivi? Tra l’altro scelti senza il parere delle donne. Non è quello forse un alibi per non andare a fondo del problema e non curarsi della prevenzione?
Coraggio, sorella, io sono con te. Buona lotta a te e a tutte noi. E buona lettura a voi!
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Ciao (…) io è da tempo che seguo il blog, credo tuttora che questa sia la “mia” pagina preferita. Non commento spesso i post, ma con il tempo mi sono ritrovata a seguirli tutti. Rinnovo quindi, il mio grazie. Grazie perchè ho lottato forse per anni per riuscire a trovare qualcuno libero da pensieri dogmatici, precofenzionati e davvero, per quanto mi riguarda, liberi e frutto di un’autonomia di pensiero senza pari. E’ dalla prima adolescenza che mi sono avvicinata al femminismo cominciando dai classici, poi sono approdata al femminismo libertario pochi anni fa, essendolo io stessa.
Sono nata in un paesino del Sud, chiuso, bigotto, rigido, figlia della cultura padre/padrone. Ho subito una violenza sessuale in famiglia due anni fa, da cui purtroppo fatico ancora a riprendermi. Devo dire che dopo il crollo iniziale, pian piano sono diventata più autonoma, in quanto ho sempre rigettato il ruolo di vittima, la compassione negli occhi degli altri e il senso di colpa. Il crollo iniziale mi portò poi in cura da una psicologa, che diede la colpa ahimè, al mio “portare la minigonna” e alla mia inclinazione naturale a mettermi in situazioni a quanto pare “pericolose”. Aggiungo che ero in casa con mio padre, avevo la minigonna ed era estate, devo dire abbastanza pericoloso in effetti…
Abbandonai successivamente la casa di famiglia con cui vivevo con i miei, scappai letteralmente anche a causa di zero aiuto da parte di amici e amiche che si volatizzarono nel nulla e l’omertà dei parenti “no è impossibile una cosa del genere! E’ tanto pacato!“, mio padre in effetti pacato lo era con tutti tranne quando c’era da picchiare me o mia madre, ma tant’è. Adesso da un anno mi ritrovo a Pisa, con un lavoro da precaria e zero fiducia in psicologi, di conseguenza non ebbi e non ho tuttora il coraggio di chiedere aiuto. Aggiungo che non denunciai e i carabinieri del mio paese mi dissero chiaramente di non poter allontanare mio padre da casa, di conseguenza andai via io.
Tuttora sono costretta a chiamarlo per aiuti economici, qualcun@ mi dice “devi farlo se non vuoi morire di fame“. Ho dovuto combattere con gente che mi ha chiesto in cambio del sesso per lavoro (e qualche volte, tuttora penso e ho pensato di poter intraprendere quella strada per necessità ovvia), continui licenziamenti, pagamenti in ritardo e successivamente gravi problemi di salute generati da questa situazione. Adesso ho un lavoro che nonostante non mi permette di vivere in totale autonomia riesce a fruttarmi qualcosa. Nonostante tutto non ho rinunciato alla mia sessualità, sono sempre stata e tuttora lo sono “libera”, nel gergo comune “troia” per intenderci come amano definire donne che non si sottomettono ad un modo standard di vivere la sessualità e i rapporti, una mia amica mi disse, e lo ricordo come fosse ieri “se sei riuscita ad avere rapporti sessuali dopo una violenza, evidentemente hai ingigantito la cosa, chi subisce violenza ha un trauma e non riesce ad avere contatti con l’altro sesso“.
Sono bisessuale, parola che ovviamente non esiste, nè per omo, nè per etero, più volte nel tuo blog hai toccato l’argomento, da una parte avevo chi mi definiva modaiola dall’altra una che non riesce ad ammettere che in realtà è lesbica. No. Peccato che nessuna delle due cose mi rappresenti. Da tutto questo, devo dire, che il danno maggiore a livello psicologico è stato creato proprio da quelle donne. Dalle donne della mia vita. Da donne da cui ingenuamente avrei preteso più comprensione. Ma è sempre un bianco o nero. E’ sempre una guerra. Ho un ragazzo che con il tempo mi ha aiutato tanto, ma la strada è ancora lunga. Potrei toccare milioni di altri argomenti toccati nel tuo blog, tutti quanti vissuti, tutti quanti visti. Dalla cultura maschilista di cui siamo schiavi tutti, uomini e donne, alla lotta vera e propria, per i diritti delle prostitute, l’autonomia, l’aborto e molto altro. Avrei tante cose da dirti su di me, ma credo che non sia questo il luogo giusto, forse.
Ho però voluto raccontarti tutto questo per farti capire che fai tanto, anche senza volerlo, magari. Il sapere di non essere soli, il sapere di quante persone, uomini e donne hanno sofferto e soffrono a causa di pregiudizi, ignoranza, retaggi fascisti e a quanto sia dura la vita in certi casi. Ma siamo qui, ne parliamo, urliamo. Noi siamo forti. Io sono a Pisa adesso, ma a causa di questi problemi ho avuto poco tempo per informarmi sui collettivi qui presenti (e so che sono tanti), sulle iniziative. Ero alla manifestazione dell’8 marzo, quella per il diritto alla casa, contro la precarietà, contro il fascismo. Continuerò a seguire i tuoi/vostri post sempre con un immenso piacere e solidarietà. (…) Un grandissimo abbraccio
—>>>Devo aggiungere qualche rigo, perché dopo averle detto che la sua è una storia straordinaria lei mi risponde così:
“E’ straordinaria perchè mi ha reso forte, autonoma di pensiero, ma anche sola. Penso che la solitudine vada un pò di pari passo con tutto questo, è una conseguenza e la vittoria più grande è stata proprio la forza e l’autodeterminazione che adesso mi ritrovo che è fortissima e che molti che mi stanno accanto non accettano e c’è stata un’esclusione alla fine reciproca, allontanarmi da queste persone ha sì accresciuto il senso di solitudine (ma che io l’ho sempre vista per dirla alla De Andrè o tantissimi scrittori che l’elogiavano se vissuta consapevolemente, come una fonte di arricchimento personale, riesci di conseguenza a vivere in rapporti non per necessità ma senza pretendere nulla in cambio, veri, genuini, liberi)…per questo il tuo blog è stata come una “luce” per me.”
Al di là dei complimenti al blog, il fatto è proprio che questa storia è e resta straordinaria. Ancora un abbraccio a lei. Forte.