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Assistenza alle donne violentate

  • Venerdì, 18 Luglio 2014 08:34 ,
  • Pubblicato in Flash news

Corriere della Sera
18 07 2014

Sono 200 gli avvocati che da settembre potranno frequentare gratuitamente i corsi di formazione per assistere e tutelare le donne vittime di violenza.

E l'obiettivo dell`intesa siglata dall'assessore regionale alle Pari opportunità, Paola Bulbarelli, e dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Paolo Giuggioli.

"Sono 13.755 le donne che, tra il 2009 e il 2013, si sono rivolte a uno dei 16 centri antiviolenza della Lombardia". ...

Il Fatto Quotidiano
15 07 2014

Le donne dei centri antiviolenza maltrattate dalla politica istituzionale è stato lo slogan della nostra protesta, quando il 10 luglio scorso siamo andate a Roma per i centri antiviolenza. Dopo la conferenza stampa alla Camera, organizzata da Celeste Costantino, siamo andate in via della Stamperia davanti alla sede della Conferenza Stato-Regioni che votava il riparto dei fondi per le donne vittime di violenza. Quello che assegna tremila euro l’anno ai centri per “salvarli” dalla chiusura, quello che equipara i centri antiviolenza istituzionali a quelli delle organizzazioni non governative. I fondi saranno distribuiti (quei pochi che ci sono) al movimento per la vita, alle comunità madre bambino, agli sportelli per inserimento lavorativo di donne, ai luoghi di conciliazione familiare e in alcune regioni, come il Piemonte, saranno esclusi alcuni dei centri antiviolenza aderenti a D.i.Re.

L’indiscriminata distribuzione di fondi è stata dettata anche da logiche burocratiche e clientelari e dalla mancanza di conoscenza del problema ma il pot-pourri di enti, consorzi, associazioni censito dalle Regioni è anche il prodotto della legge 119, cosiddetta sul femminicidio, che non individua quali sono i criteri qualitativi per definire un centro antiviolenza. Una legge mata male, con logiche securitarie e che dovrebbe essere modificata.

A Roma eravamo una sessantina: una per ogni centro. Abbiamo alzato lo striscione rosso di D.i.Re e altri cartelli e abbiamo gridato slogan contro il governo e la sua indifferenza nei confronti dei luoghi di competenza ed esperienza delle donne. Siamo maltrattate dal governo. Non avremmo potuto più sederci davanti ad una donna che rivela di subire violenze se non avessimo fatto sentire chiaro e forte il nostro dissenso perché la violenza contro le donne è anche un problema culturale e politico.

Mentre gridavamo la nostra protesta sotto le finestre della conferenza Stato-Regioni, è arrivata la Digos: la nostra manifestazione non era autorizzata. ‘Le donne danno il meglio di sé quando trasgrediscono le regole’ diceva una compagna di Roma. Ci hanno chiesto di mettere via i cartelli, li abbiamo girati e tenuti al collo e abbiano continuato a gridare slogan e allora la ministra Lanzetta ha incontrato una delegazione D.i.Re.

Le nostre richieste? I criteri siano selettivi.

Celeste Costantino, quando giovedì ha concluso la conferenza stampa, ha detto che in un Paese con la maggiore presenza di deputate della storia della Repubblica, con un Consiglio dei Ministri composto per metà di donne e con la terza carica dello Stato rappresentata da una donna non si può permettere lo svilimento dei centri antiviolenza. Eppure questo è accaduto, lo svilimento c’è stato.

Dopo la nostra protesta qualche risposta sta arrivando ma è ancora presto per dire quanto e se le richieste D.i.Re saranno accolte. Noi terremo il punto.

@Nadiesdaa

Gli spiccioli antiviolenza

Lipperatura
10 07 2014

Le parole per dirlo andranno anche ripensate e trovate. Ma intanto trovate i fondi. Perché è inutile farcire i discorsi di quanto si è attenti alla questione della violenza, ed è inutile approvare i decreti sicurezza che poi servono ad altro (a perseguire i NoTav, e adesso mi aspetto che, così come quando parlo di Amazon spunta fuori un certo commentatore, sempre quello, a difenderlo, spunti fuori l’altro che reagisce come i cavalli di Frau Blücher alle tre lettere T-A-V). E’ inutile quando la situazione dei centri antiviolenza è quella che denuncerà oggi alle 14.30 D.i.Re, la rete che riunisce i centri, alle ore 14,30 nella Sala Stampa della Camera dei Deputati e alle 15.30 protesterà a Roma in Via della Stamperia 8, davanti alla sede della Conferenza Stato-Regioni.
I motivi sono qui (e qui l’articolo de Il Fatto Quotidiano)

I Centri antiviolenza che da oltre vent’anni operano in Italia, riconosciuti come luoghi di buone pratiche per fronteggiare il fenomeno della violenza contro le donne, non possono essere liquidati con quattro soldi. La storica esperienza e competenza di questi luoghi deve rappresentare un punto di partenza per tutti.

La distribuzione dei fondi non è chiara, temiamo che siano distribuiti con criteri “politici” disperdendo le già scarse risorse messe in campo.
E’ evidente che i Centri, che da oltre vent’anni lavorano in Italia con le donne, finiranno per avere finanziamenti irrisori mentre si cerca di creare un sistema parallelo di centri istituzionali con competenze improvvisate le cui procedure ancora “ingessate” in rigidi criteri burocratici, non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza. In particolare: anonimato, ascolto competente e privo di giudizio, rispetto della loro volontà.
La storica esperienza e competenza dei luoghi di donne deve rappresentare il punto di partenza per le istituzioni per costruire una politica che guardi all’esperienza nata dai Centri Antiviolenza, riconoscendone tutto il valore in quanto luoghi di libertà e autodeterminazione delle donne. Nei centri istituzionali c’è il rischio che prevalga la burocrazia, gli aspetti giudicanti e formalizzati, che non garantiscono l’anonimato e l’ascolto dei desideri della donna, rispettandone i tempi e le scelte.

Non a caso la Convenzione di Istanbul individua nelle Associazioni di Donne il luogo privilegiato di risposta al fenomeno in quanto portatrici di una forte motivazione e capaci di mettere in campo iniziative utili ad un cambiamento

I Centri Antiviolenza ritengono che la generica modalità di impiego delle risorse economiche indicate dal piano di ripartizione dei fondi, non solo non porti alcun cambiamento nelle pratiche dei servizi e di conseguenza nella cultura sociale ma al contrario si incrementi il rischio per le donne che subiscono violenza e che decidono di allontanarsene di non essere sostenute adeguatamente.
I centri antiviolenza chiedono

- che i criteri di riparto dei finanziamenti siano ridiscussi e condivisi con i centri antiviolenza nel rispetto delle raccomandazioni europee.
- che i centri antiviolenza pubblici siano, in questa prima fase, esclusi dal riparto dei fondi: la Convenzione di Istanbul che entrerà in vigore il 1° agosto, sostiene che i governi devono privilegiare le azioni dei centri antiviolenza privati gestiti da donne in quanto servizi indipendenti.
- che nella distribuzione siano compresi solo i centri antiviolenza gestiti da realtà del privato sociale attive da almeno 5 anni e che il finanziamento premi maggiormente i centri antiviolenza che operano da più anni valutando i curricula, i progetti svolti e il tipo di intervento che garantiscono.
- Che ci sia una forte raccomandazione alle Regioni di utilizzare i finanziamenti in aggiunta ai quelli che le amministrazioni regionali dovranno stanziare.

La protesta dei centri antiviolenza

  • Martedì, 08 Luglio 2014 13:50 ,
  • Pubblicato in Flash news

Ingenere.it
08 07 2014

A chi vanno i soldi previsti per il contrasto alla violenza contro le donne? Come verranno ripartiti, e come mai si pensa di aprirne di nuovi, liquidando le strutture storiche con con quattro soldi? Dopo aver lanciato l'allarme, la rete D.I.R.E. annuncia una protesta per il 10 luglio, in occasione della conferenza Stato-Regioni, in cui verrà stabilita la ripartizione dei fondi.

«La distribuzione dei fondi non è chiara - sostengono le associazioni - temiamo che siano distribuiti con criteri “politici” disperdendo le già scarse risorse messe in campo.
E’ evidente che i Centri, che da oltre vent’anni lavorano in Italia con le donne, finiranno per avere finanziamenti irrisori mentre si cerca di creare un sistema parallelo di centri istituzionali con competenze improvvisate le cui procedure ancora “ingessate” in rigidi criteri burocratici, non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza.

In particolare: anonimato, ascolto competente e privo di giudizio, rispetto della loro volontà». Il timore è che con la creazione di centri istituzionali finisca per prevalere la burocrazia, a scapito delle pratiche consolidate da anni di esperienza sul campo.

I centri antiviolenza chiedono:
• che i criteri di riparto dei finanziamenti siano ridiscussi e condivisi con i centri antiviolenza nel rispetto delle raccomandazioni europee.
• che i centri antiviolenza pubblici siano, in questa prima fase, esclusi dal riparto dei fondi: la Convenzione di Istanbul che entrerà in vigore il 1° agosto, sostiene che i governi devono privilegiare le azioni dei centri antiviolenza privati gestiti da donne in quanto servizi indipendenti.
• che nella distribuzione siano compresi solo i centri antiviolenza gestiti da realtà del privato sociale attive da almeno 5 anni e che il finanziamento premi maggiormente i centri antiviolenza che operano da più anni valutando i curricula, i progetti svolti e il tipo di intervento che garantiscono.
• Che ci sia una forte raccomandazione alle Regioni di utilizzare i finanziamenti in aggiunta ai quelli che le amministrazioni regionali dovranno stanziare.

Il Fatto Quotidiano
08 07 2014

La denuncia di Dire, rete per l'assistenza alle donne: "Alle realtà già esistenti solo gli spiccioli. Costretti a vivere di volontariato". Il governo ha annunciato la spartizione del fondo di 17 milioni: la fetta più grande per (non meglio specificati) "progetti regionali". E le strutture anti-violenza già impegnate sul territorio protestano: "352 centri? Cifra sovrastimata". Intanto il premier si tiene la delega alle Pari opportunità.

Seimila euro per due anni per gestire un centro anti-violenza, dare ospitalità a donne maltrattate e bambini e permettere assistenza a chi denuncia soprusi. “Non ci paghiamo neppure le bollette così”. Titti Carano, presidente di Dire (Donne in rete contro la violenza), rete che raccoglie 63 centri in tutta Italia , non riesce a darsi una risposta. Il nuovo piano di finanziamento del Governo previsto per il 2013 e il 2014 dalla legge 119 - quella contro il femminicidio - sta scatenando le proteste degli operatori di tutta Italia. Le strutture, la cui validità è stata riconosciuta anche dal protocollo siglato nel 2013 con Anci (Associazioni nazionale comuni italiani) per l’istituzione di linee guida, promozione di tavoli tecnici e altre iniziative, riceveranno soltanto 2 milioni e 260 mila euro che divisi per i 352 centri su tutto il territorio (non tutti “autentici”, secondo Dire), portano a circa 6mila euro ciascuno per i prossimi due anni. ”Non capiamo”, continua Carano, “perché è stata decisa questa modalità di ripartizione dei fondi. Così dovremo continuare a vivere di volontariato”. Ma non solo. “Se confermata la spartizione, si rischia di andare contro la Convenzione di Istanbul che chiede un maggiore impegno finanziario delle istituzioni contro la violenza di genere. Il 10 luglio ci diamo appuntamento nelle piazze d’Italia per far sentire la nostra voce”. Il ministero, contattato da ilfattoquotidiano.it ha preferito non rispondere e l’Italia rischia ancora una volta di restare indietro nonostante i proclami. ”Senza dimenticare”, denunciano da Sel, “che il presidente del Consiglio ha ancora la delega alle Pari opportunità. Chiediamo che sia affidata al più presto come ce lo chiede la Convenzione”.

Pochi spiccioli dunque alle case rifugio, considerando che il totale dello stanziamento previsto dal ministero delle Pari Opportunità, è di 17 milioni di euro. Il piano del governo, trasmesso nei giorni scorsi alla conferenza delle Regioni, prevede che il 33% dei fondi, pari a 5.670.000 euro, vada all’istituzione di nuovi centri. Dei restanti 11 milioni e 330mila euro, l’80% verrà destinato a interventi regionali mentre il 20% del rimanente (2 milioni circa) verrà diviso tra i centri anti-violenza e le case rifugio pubbliche e private già esistenti (circa 352). “Una modalità di ripartizione che non riusciamo a capire – dice Titti Carrano, presidente dell’associazione Dire che, nel 2013, ha dato assistenza a 18.421 donne, ospitandone 1.300 (minori inclusi) – Ci chiediamo perché una parte così importante di fondi vada ad interventi che hanno sedi, utenze e personale già pagati quando noi dobbiamo basare parte delle nostre attività sul volontariato”. In questo senso, secondo Dire, la scelta del Governo rischia di contravvenire alla Convenzione di Istanbul, che entrerà in vigore il prossimo primo agosto e che prevede lo stanziamento di risorse per una corretta applicazione di politiche integrate, di misure e di programmi (inclusi quelli svolti da organizzazioni non governative e dalla società civile) per prevenire e combattere tutte le forme di violenza contro le donne. Le modalità di ripartizione dei fondi per le iniziative contro la violenza di genere, indicate dal dipartimento delle Pari Opportunità, sono state contestate anche dalle deputate Delia Muller (Pd) e Celeste Costantino (Sel). Entrambe chiedono che il governo modifichi la norma e che valorizzi le realtà valide già esistenti sul territorio.

Per quanto riguarda la spartizione dei fondi per interventi regionali, non risulta ancora chiaro a che cosa si riferisca esattamente il governo. Il ministero delle Pari Opportunità, interpellato per un chiarimento, nonostante le sollecitazioni non ha ancora risposto. Manuela Ulivi, della Casa delle donne maltrattate di Milano si chiede in base a quali criteri verranno definiti i destinatari. “A Milano – spiega Ulivi – negli ultimi mesi, sono stati chiusi degli sportelli anti-violenza. Questo è accaduto perché per aiutare in modo proficuo una donna che subisce violenza e che si ritrova a fare scelte difficili non bastano un ufficio e una semplice attività di consulenza, ma serve un know how specifico che include esperienza, capacità di relazione e mediazione. Tutti elementi che non si possono improvvisare”.

A sollevare un’ulteriore perplessità è poi il numero di centri e case rifugio censite – in totale 352 – che sembra sovrastimato rispetto alla realtà. Angela Romanin, vicepresidente del Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna, ad esempio, non riesce a spiegarsi come il Ministero abbia potuto contare fino a 22 case rifugio nella sua regione. “Non capisco il criterio usato. E lo dico alla luce della mia esperienza dato che lavoro sul territorio da oltre 20 anni. Mi domando dove abbiano trovato questi numeri”. Un altro mistero dell’elenco riguarda la Sicilia dove, secondo il governo, risultano esserci 62 tra case rifugio e centri. “Stiamo interpellando la Regione a questo proposito – fanno sapere dal Coordinamento regionale siciliano – perché quando si parla di centri bisogna che vengano riconosciute le caratteristiche che li distinguono e che sono accoglienza, assistenza fisica, psicologica, protezione, empowerment, formazione, educazione. Un altro discrimine importante è che le case rifugio, per essere tali, devono avere un indirizzo segreto“.

Dubbi in merito ai criteri di censimento e di riconoscimento dei centri antiviolenza vengono sollevati anche da Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, onlus che opera in tutta Italia, che non fa parte del circuito Dire. “Quando ho letto il numero dei centri in alcune regioni sono rimasta stupita. Ma dove sarebbero esattamente?”. Inoltre, secondo Carnieri Moscatelli, che ha protestato anche scrivendo alcune lettere al presidente del Consiglio Matteo Renzi, “per favorire la parità di genere ci vuole una politica nazionale. Viviamo in un Paese diviso in realtà regionali diverse e serve un’omogeneità culturale quando si intendono fare determinati interventi”.

C’è un’ultima questione da chiarire. Riguarda l’istituzione delle nuove strutture che verranno finanziate col 33% dei 17 milioni: mancano definizioni esaurienti sulle caratteristiche che le dovranno contraddistinguere. La rete Dire teme che ci si possa affidare troppo all’improvvisazione, con il rischio che questi posti, nel breve e lungo periodo, possano rivelarsi inutili. La questione, però, è controversa. Ci sono centri, come quello di Imola Per le donne, che ritengono che novità non sia sinonimo di approssimazione. “Noi esistiamo da due anni e qualche mese ma, nonostante questo, la nostra attività è frutto di percorsi professionali decennali e di una selezione accurata delle operatrici – spiega la presidente Maria Rosa Franzoni. – Per ora ci basiamo sul volontariato. Abbiamo calcolato che il lavoro che abbiamo fatto in un anno equivale a circa 60mila euro. Credo che sia giusto favorire una pluralità nel panorama italiano, certamente senza penalizzare in alcun modo le strutture che da anni operano sul territorio in modo efficiente. E vanno senz’altro individuati criteri validi e specifici che definiscano i centri antiviolenza”.

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