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Corriere della Sera
07 07 2014

Il 10 luglio le operatrici dei Centri anti-violenza proclamano un'iniziativa di protesta, spiega Manuela Ulivi, presidente della Casa di Milano. Il problema è che manca una responsabilità politica diretta, dice Valeria Fedeli, vice presidente del Senato

di Giovanna Pezzuoli

Gridano allo scandalo le operatrici dei centri anti-violenza, denunciando il “tradimento” della legge sul femminicidio e proclamando un’iniziativa di protesta che si terrà a Roma giovedì 10 luglio, in occasione dell’incontro della Conferenza Stato-Regioni. Sono in ballo 17 milioni di euro stanziati per i prossimi due anni dalla legge 119 del 2013. Ma con quali criteri verranno distribuiti? Se sarà confermato il piano del governo, ai centri anti-violenza che accolgono e sostengono le donne arriveranno solo le briciole! L’associazione nazionale D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), che rappresenta 67 centri, e la rete internazionale Wave (Women against violence in Europe) fanno sentire la loro voce:

«I centri anti-violenza che da oltre 20 anni operano in Italia non possono essere liquidati con quattro soldi. La storica esperienza e competenza di questi luoghi deve rappresentare un punto di partenza per tutti»

E chiedono che i criteri di riparto dei fondi siano ridiscussi e condivisi, nel rispetto delle raccomandazioni europee, e che si tenga conto della Convenzione di Istanbul, in vigore dal primo agosto, dove si sostiene che i governi devono privilegiare le azioni dei centri anti-violenza privati e indipendenti, gestiti da donne.

Perché, per uno strano mistero, i fondi destinati ai centri da 17 milioni si sono ridotti ad appena 2 milioni e 260 mila euro.

Esattamente che cosa è accaduto? E dove finiranno gli altri 14 milioni e 740 mila euro? È quasi un rompicapo… «Per legge i finanziamenti devono passare attraverso le Regioni. E la Conferenza Stato-Regioni ha fatto vari incontri, da cui noi come D.i.Re siamo state escluse. Curiosamente partecipavamo a tutti i tavoli, dalla prevenzione alla salute, ma non a quello dove si discuteva di fondi», spiega Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano, dove martedì 8 luglio, alle 12 (via Piacenza 14), verrà presentata l’iniziativa nazionale di protesta. Il problema è che la legge parla genericamente di centri anti-violenza e case rifugio: in assenza di criteri chiari di definizione, ci si è accorti che ogni Regione interpretava le cose un po’ a modo suo. Il risultato? Risponde l’avvocata Ulivi:

«In Puglia, per esempio, saltano fuori 19 Centri, mentre ce ne sono al massimo 5 o 6. Dove li hanno pescati? Viene il sospetto che le Regioni per accaparrarsi i fondi si siano inventate questi centri nati un po’ come funghi. La Sicilia, altro esempio, vergognosamente dichiara 52 case-rifugio. Mah, andremo a visitarle… Secondo noi ce ne sono al massimo 12. In poche parole, un’assurda mappatura, un elenco stilato dai Carabinieri che sulla base della lista del 1522 (il servizio telefonico istituito nel 2006 dal Dipartimento per le Pari Opportunità) hanno verificato per telefono se i centri in questione esistevano o no!»

Ed ecco che l’Emilia Romagna ne censisce 14, una mappatura perfetta, come sono verosimili i 21 centri lombardi, ma già il Piemonte ne conta 21 (troppi!), proprio come la Sardegna che ne dichiara 13. In tutto ci sarebbero 188 centri anti-violenza e 164 case-rifugio, che sommati fanno 352. Ora se dividiamo quei 2 milioni e 260 mila euro per 352 otteniamo una striminzita fetta di 6 mila euro e rotti “a testa”, 3 mila euro all’anno che non basteranno nemmeno per pagare le bollette telefoniche. Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati, i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

E gli altri quasi 15 milioni di euro? Alle Regioni che finanzieranno progetti sulla base di bandi, denuncia Tutti Carrano, presidente di D.i.Re. La scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne. Per legge, infatti, il 33% è destinato a progetti che riguardano la creazione di nuovi centri anti-violenza pubblici e privati. E qui è facile immaginare la corsa già iniziata alla creazione di centri. L’assessora regionale Paola Bulbarelli ha annunciato che in Lombardia si dovrebbe arrivare a 44 centri entro il 2014. Quanto al restante 67% è destinato a rafforzare progetti che le Regioni hanno in atto. «In questo modo alla nostra Casa di Milano arriveranno altri fondi, ma non tutti i centri si trovano in queste condizioni. Che cosa accadrà? L’ultima parola spetta sempre alle Regioni, e il rischio è che cerchino di creare per decreto centri dove la donna è vista come una semplice utente senza garanzie di segretezza e volontà di avviare insieme un percorso, sottraendo risorse a chi svolge un lavoro di qualità. Per esempio il decantato sportello anti-violenza in zona 5 ha già chiuso. In Lombardia, in realtà, la situazione è abbastanza sotto controllo: al tavolo regionale sulle politiche anti-violenza siedono 24 componenti, di cui 10 in rappresentanza dei centri aderenti a D.i.Re. I riconoscimenti formali ci sono, vedremo la sostanza! E la frammentazione dei fondi resta un rischio. Su 625 mila euro previsti per il 2014, lasciano perplessi 125 mila destinati a “comunicazione ed eventi” o altri 50 mila per la ricerca, certo necessaria, anche se c’è il timore di favoritismi», conclude l’avvocata Ulivi.

Ma la questione è soprattutto a monte, osserva l’onorevole Valeria Fedeli, vice presidente del Senato. «Sul riparto dei fondi alle Regioni, in base alla legge 119, stava lavorando la ministra Cecilia Guerra. Fino all’anno scorso i finanziamenti servivano per consolidare i centri esistenti, quest’anno non è più avvenuto… C’è una circolare al vaglio della Conferenza Stato-Regioni in cui si chiede l’indicazione di nuovi criteri che dovrebbero valere per il 2015, ma per il 2014 si è arrivati a un riparto senza alcun criterio e senza avere coinvolto i centri anti-violenza che fino ad oggi hanno svolto questo lavoro con competenza. È stata solo un’operazione burocratica».

La denuncia della senatrice va alle radici del problema:

«Questo accade quando manca una responsabilità politica diretta. Abbiamo applaudito la delega alle Pari Opportunità al premier Matteo Renzi pensando di dare così valore ad azioni antidiscriminatorie ma se la delega non viene esercitata politicamente è come se non ci fosse più. Questo ne è l’ultimo, clamoroso esempio. Serve una ministra alle Pari Opportunità. Abbiamo otto ministre e un vuoto proprio lì! Se manca un’attenzione politica del governo a queste tematiche, di contraddizioni ne salteranno fuori sempre di più. Il problema è che nessuno guarda l’impatto di ogni misura presa dal Governo sulla questione di genere.

È il caso del decreto legge del 28 giugno scorso che abolisce l’applicazione della misura di custodia cautelate anche per i reati di stalking e maltrattamenti in famiglia. Infine ricordiamoci due cose: dal primo agosto la Convenzione di Istanbul impone una nuova responsabilità agli Stati sul tema della violenza contro le donne e l’Italia è rapporteur europea su Pechino + 20 (a ridosso cioè del ventesimo anniversario della IV conferenza mondiale sulle donne delle Nazioni Unite, tenutasi a Pechino nel 1995). E questo rende ancora più urgente una chiarificazione sul problema della delega».

Del resto la richiesta di attribuire al più presto la delega alle Pari Opportunità a una ministra è già stata oggetto di interrogazioni parlamentari: tornano a perorare questa (giusta) causa le 63 associazioni che aderiscono all’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria. Che il 30 giugno hanno scritto una lettera al presidente Matteo Renzi: «Vorremmo precisare che la ministra dovrebbe svolgere un’azione di coordinamento per il mainstreaming della politica di genere di tutti i dicasteri del Governo. La nostra richiesta è motivata anche dal fatto che l’Italia assumerà tra pochi giorni la Presidenza europea per il prossimo semestre e in particolare per l’appuntamento del 2 ottobre durante il quale l’Eige (European Institute for Gender Equality) presenterà il suo rapporto sullo stato delle questioni di genere nell’Unione europea». Una lettera, come dicevamo, “multifirma”: da Se non ora quando a Donne in quota, dall’Udi a Pari o Dispare, da GiULiA a Usciamo dal Silenzio.

Ai centri antiviolenza il fondo dei fondi

  • Venerdì, 04 Luglio 2014 14:23 ,
  • Pubblicato in Flash news

Ingenere.it
04 07 2014


Ripubblichiamo e diamo notizia del comunicato sulle modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14 - della Rete D.i.R.E., Donne in rete contro la violenza, che raggruppa i centri antiviolenza d'Italia.

"Tremila euro l’anno per due anni: è quanto il Governo intende assegnare a ognuno degli storici Centri antiviolenza e alle Case Rifugio che operano con efficacia da decenni e in regime di volontariato. E’ in questa esperienza che si radicano il sapere e il metodo che consentono a tante donne di salvarsi la vita, e di ritrovare autonomia e libertà. Ma quei soldi non basteranno nemmeno a pagare le bollette telefoniche.

A chi gran parte degli stanziamenti (circa 15 milioni di euro)?
Alle Regioni, che finanzieranno progetti sulla base di bandi: la scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne.

Apprendiamo dalla stampa – il Sole 24 ORE del 27 giugno 2014 – le incredibili modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14.

Secondo una mappatura in base a criteri illeggibili, di questi 17 milioni ai 352 Centri Antiviolenza e Case Rifugio toccheranno solo 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro.

Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

Questa scelta del Governo contravviene in modo netto alla Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, che l’Italia ha ratificato e che entrerà in vigore il prossimo 1° agosto, la quale prevede siano destinate

“adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile” (Articolo 8).

Nella Convenzione si privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, mentre il Governo Italiano sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale.

L’idea è che la politica non intenda rinunciare a “intercettare” quei fondi, e che si proponga di controllare e ridurre allo stremo i Centri antiviolenza indipendenti, già operativi da molti anni e associati nella rete nazionale D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza).
Denunciamo questo modo di procedere.

Il Governo non ha sino ad oggi neppure formulato un Piano Nazionale Antiviolenza, e si presenta in Europa senza avere intrapreso un confronto politico serio con tutte coloro che lavorano da oltre 20 anni sul territorio, offrendo politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne."

 

 

D.i.Re.
04 07 2014

L’associazione nazionale D.i.Re Donne in Rete, che rappresenta 67 centri antiviolenza, si mobilita contro il riparto dei finanziamenti che verrà discusso alla prossima Conferenza Stato – Regioni del 10 luglio. Saremo presenti per far sentire la nostra voce.

I Centri antiviolenza che da oltre vent’anni operano in Italia, riconosciuti come luoghi di buone pratiche per fronteggiare il fenomeno della violenza contro le donne, non possono essere liquidati con quattro soldi. La storica esperienza e competenza di questi luoghi deve rappresentare un punto di partenza per tutti.

La distribuzione dei fondi non è chiara, temiamo che siano distribuiti con criteri “politici” disperdendo le già scarse risorse messe in campo.

E’ evidente che i Centri, che da oltre vent’anni lavorano in Italia con le donne, finiranno per avere finanziamenti irrisori mentre si cerca di creare un sistema parallelo di centri istituzionali con competenze improvvisate le cui procedure ancora “ingessate” in rigidi criteri burocratici, non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza. In particolare: anonimato, ascolto competente e privo di giudizio, rispetto della loro volontà.

La storica esperienza e competenza dei luoghi di donne deve rappresentare il punto di partenza per le istituzioni per costruire una politica che guardi all’esperienza nata dai Centri Antiviolenza, riconoscendone tutto il valore in quanto luoghi di libertà e autodeterminazione delle donne. Nei centri istituzionali c’è il rischio che prevalga la burocrazia, gli aspetti giudicanti e formalizzati, che non garantiscono l’anonimato e l’ascolto dei desideri della donna, rispettandone i tempi e le scelte.

Non a caso la Convenzione di Istanbul individua nelle Associazioni di Donne il luogo privilegiato di risposta al fenomeno in quanto portatrici di una forte motivazione e capaci di mettere in campo iniziative utili ad un cambiamento.

I Centri Antiviolenza ritengono che la generica modalità di impiego delle risorse economiche indicate dal piano di ripartizione dei fondi, non solo non porti alcun cambiamento nelle pratiche dei servizi e di conseguenza nella cultura sociale ma al contrario si incrementi il rischio per le donne che subiscono violenza e che decidono di allontanarsene di non essere sostenute adeguatamente.

I centri antiviolenza chiedono

- che i criteri di riparto dei finanziamenti siano ridiscussi e condivisi con i centri antiviolenza nel rispetto delle raccomandazioni europee.

- che i centri antiviolenza pubblici siano, in questa prima fase, esclusi dal riparto dei fondi: la Convenzione di Istanbul -che entrerà in vigore il 1° agosto, sostiene che i governi devono privilegiare le azioni dei centri antiviolenza privati gestiti da donne in quanto servizi indipendenti.

- che nella distribuzione siano compresi solo i centri antiviolenza gestiti da realtà del privato sociale attive da almeno 5 anni e che il finanziamento premi maggiormente i centri antiviolenza che operano da più anni valutando i curricula, i progetti svolti e il tipo di intervento che garantiscono.

- che ci sia una forte raccomandazione alle Regioni di utilizzare i finanziamenti in aggiunta ai quelli che le amministrazioni regionali dovranno stanziare.

Il Fatto Quotidiano
03 07 2014

Risposte efficaci per le donne vittime di minacce e violenze? Indietro tutta! Il 28 giugno è entrato in vigore il decreto legge 26 giugno 2014 n 92 che eviterà l’arresto e la detenzione in carcere o a domicilio, agli autori di maltrattamenti familiari e di stalking (ma anche di furti in abitazione, piccole rapine, e ullallà, corruzione o illecito finanziamento ai partiti). E’ possibile leggere un commento al decreto sul sito Penale Contemporaneo. La norma sarà estesa automaticamente ai pluri-recidivi e a tutti quelli a rischio di reiterazione del reato senza alcuna valutazione del tribunale di sorveglianza. Insomma sarà applicabile anche alle situazioni con maggior pericolosità.

Non bastava la sorpresa del riparto dei finanziamenti della Conferenza Stato-Regioni che devolverà esigui fondi per le attività dei centri antiviolenza storici e delle Case Rifugio (quelle poche che ci sono); il decreto legge del 26 giugno penalizzerà soprattutto le donne vittime di violenza familiare e stalking, maggiormente esposte al pericolo per la natura del reato. Lo sgomento tra le operatrici dei centri è tanto, e non si comprende se un siffatto decreto sia frutto di disattenzione o cinismo.

L’anno scorso il Governo Letta emanò il cosiddetto decreto legge sul femminicidio, molto criticato dai centri antiviolenza, che mancava poco mandasse in carcere l’autore di maltrattamenti anche su denuncia del vicino di casa. A distanza di un anno il Governo Renzi fa un decreto pericoloso che mina le misure cautelari a tutela alle vittime di violenza.

Potremmo rassicurare le donne se nel nostro Paese ci fossero le 5700 Case Rifugio previste dalla direttive europee, per ospitalità e protezione, invece ce ne sono solo 500, e molte sono a rischio di chiusura. Sappiamo da qualche giorno che l’entità dei finanziamenti che arriveranno non saranno sufficienti per l’affitto e le utenze di un anno.

Chi ha voluto questo decreto è fortunato: non deve guardare in faccia le donne come accade a noi, quando sono angosciate per le minacce che ricevono.

Io li condannerei al volontariato nei centri antiviolenza, glielo spieghino loro alle donne che chiedono aiuto.

Nadia Somma

Fondi antiviolenza: no alle elemosine!

Womenareurope
01 07 2014


- le ipotesi di ripartizione sui fondi:

l’articolo su ilsole24ore:

http://www.sanita.ilsole24ore.com/art/dal-governo/2014-06-27/anteprima-violenza-contro-donne-172140.php?uuid=AbysNhxJ

la lettera inviata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri a Ministero del Tesoro, Ragioneria di Stato e Regioni e provincie autonome:

http://www.sanita.ilsole24ore.com/pdf2010/Sanita2/_Oggetti_Correlati/Documenti/Dal-Governo/violenza_donne.pdf?uuid=777c2450-fe0e-11e3-86b5-17559ee4cf87

 

- l’intervento di Nadia Somma:

Femminicidio, conferenza Stato-Regioni: centri antiviolenza, l’elemosina che non vogliamo

di Nadia Somma | 30 giugno 2014

Ma le donne libere e indipendenti no! E’ questa la logica che ha guidato la Conferenza Stato-Regioni per ripartire i fondi previsti dalla cosiddetta legge sul femminicidio?

Seimila euro suddivisi in due anni: sono i finanziamenti “certi e costanti” che il Governo erogherà per aiutare i centri antiviolenza delle donne a non chiudere. Una presa in giro alla quale D.i.Re, l’associazione nazionale dei centri antiviolenza, ha risposto con un duro comunicato stampa.

I criteri di ripartizione proposti dalla Conferenza Stato-Regioni sono stati pubblicati due giorni fa sulSole 24 Ore, e ne aveva scritto anche Marina Terragni sul suo blog. La maggior parte dei finanziamenti (circa 9 milioni di euro) andranno alle Regioni per i progetti già in essere sulla base di bandi. Altri cinquemilioni di euro andranno a finanziare nuovi centri che probabilmente nasceranno su input istituzionale: con quale metodologia, competenze, formazione? Non si sa. E’ probabile che sorgeranno come funghi dopo la pioggia, in Lombardia pare ne stiano “covando” una quarantina. In altre regioni chissà.

La richiesta avanzata dai Centri antiviolenza, che da oltre vent’anni lavorano sul campo, di ricevere finanziamenti che li sostengano è stata respinta per una scelta politica tutta tesa a prendere il controllo dei percorsi delle donne che vogliono dire basta alla violenza. Saranno finanziate soprattutto reti di carattere istituzionale, contro quanto affermato dalla Convenzione di Istanbul che privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, il tutto sulla base di una programmazione fatta dalla Regione.

E allora come possiamo spiegare la ripartizione dei fondi per i centri antiviolenza proposta dalla Conferenza Stato-Regioni se non con logiche di controllo e anche (gli amici degli amici, of course) clientelari?

La cosiddetta legge sul femminicidio e i codici rosa adottati in alcuni ospedali sono un segnale chiaro: le donne che subiscono violenza sono soggetti deboli da tutelare, da guidare, da salvare, da controllare con la proposizione o imposizione di procedure. I centri antiviolenza invece costruiscono i percorsi insieme alle donne e lavorano per riaffermarne la dignità, l’autodeterminazione, la forza e i diritti e denunciando le cause che sottraggono loro potere e indipendenza. Quando parlo di restituzione di potere alle donne intendo il potere su loro stesse, perché la strada maestra per aiutare le donne ad uscire dalla violenza è fatta con la restituzione di quel potere che è stato sottratto simbolicamente, culturalmente e alla fine anche nella relazione affettiva.

Ma la ripartizione dei fondi è tesa anche a sostenere un associazionismo gradito ai partiti di governo, piuttosto che quello di donne libere ed indipendenti che ricordano carenze e lacune della politica italiana nel contrasto della violenza contro le donne; che rimarcano le procedure istituzionali che causano alle donne vittimizzazione secondaria; che esigono risposte che le istituzioni non vogliono dare. Perché tra centri antiviolenza e istituzioni è in atto da sempre una partita dove “io so che tu sai che io so” che non siamo affatto amici. Perché noi chiediamo che le donne si sottraggano alla violenza e contrastiamo la cultura che la alimenta e la mantiene in vita e troppo spesso l’ istituzione invece di essere garante di diritti è intrisa in quella cultura fin nel midollo. Noi siamo le antagoniste delle istituzioni e in un Paese conservatore e patriarcale come l’Italia non possiamo e forse non dobbiamo, se facciamo bene il nostro lavoro, avere vita facile.

Però ora basta. Ci siamo fatte prendere in giro abbastanza. Ci hanno preso in giro anche lo scorso autunno quando ci hanno chiamate a Roma per sedere ai tavoli interministeriali. Sono stati interrotti senza alcuna spiegazione. E’ questo il rispetto che i politici hanno del nostro tempo e del poco denaro dei nostri centri, quello che abbiamo speso per andare agli incontri finalizzati anche a rinnovare il Piano Nazionale contro la violenza alle donne. Scaduto nel novembre 2013 non è stato ancora rinnovato.

Non possiamo e non dobbiamo più permettere che ci prendano in giro. Dobbiamo dare un segnale a partire dalla restituzione di quei tremila euro annui: il centro antiviolenza Demetra Donne in aiuto se e quando li riceverà, farà un assegno e lo restituirà al mittente.

Abbiamo due scelte davanti a noi: una è quella di riconsegnare alle istituzioni i servizi a sostegno delle donne lasciando loro tutto il peso e la responsabilità ma controllando che la loro metodologia e i loro interventi non vìolino i diritti delle donne e non producano vittimizzazione secondaria. Abbiamo fior di esperte e avvocate per poterlo fare.

Oppure possiamo essere autonome rispetto ai finanziamenti pubblici.

Nella Bassa Romagna stiamo per aprire la Casa Rifugio senza un euro di finanziamento pubblico. Quanto le istituzioni locali rispetteranno la Convenzione di Istanbul che sarà attiva dal 1° agosto e quanto riconosceranno il lavoro che il nostro centro svolge da dieci anni sul territorio? Lo verificheremo molto presto.

@Nadiesdaa

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/30/femminicidio-conferenza-stato-regioni-centri-antiviolenza-lelemosina-che-non-vogliamo/1044351/

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