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La Stampa
07 11 2014

Le vetrine dell’agenzia di viaggi Chile Touristik nel centro di Francoforte nascondono una storia che supera i confini del luogo e del tempo in cui si trova, sfidando anche con le sue coincidenze i limiti della fantasia più ricca. Prima di prendere la cittadinanza svizzera e trovar fortuna nel settore vacanze, infatti, il suo titolare fu un giovane cileno che salvò la vita a decine di perseguitati politici del regime del generale Pinochet, nascondendoli come impiegati della catena di farmacie che possedeva a Santiago.

Più tardi, poi, quello stesso uomo fu anche la persona che davanti al film di Steven Spielberg, «Schindler’s list», scoprì di non essere stato il solo a combattere una dittatura usando il suo spirito imprenditoriale, e restò incredulo nel vedere che chi lo aveva fatto prima di lui, portava addirittura il suo stesso cognome.

«Ho scoperto la storia di Oskar Schindler e della sua famosa lista come la maggior parte delle altre persone: guardando la tv», racconta il 75enne Jorge Schindler dalla Germania, dove vive dai primi Anni Ottanta in seguito alla sua fuga dal Cile. «Sono sempre stato un anti-fascista e mi sono commosso davanti a quel film. Le nostre vite hanno sorprendenti analogie, ma anche una grande differenza: Oskar collaborò con la Gestapo per salvare i suoi mille operai ebrei, io invece ho ingannato la Dina, per tener nascosti i miei cento finti dottori».

Nipote di un professore di Marsiglia andato a parare nel gelido Arauco, una regione carbonifera e inospitale del sud cileno, Jorge fu un ragazzo povero dalle idee comuniste, finché non si trasferì nella capitale e si sposò. Il padre della sua prima moglie era farmacista e quando Jorge ne divenne il genero lo ricambiò facendolo diventare suo socio. Il mestiere dello speziale gli cambiò la vita a tal punto che, da una bottega di quartiere, arrivò a vendere aspirine in tutto il Cile per conto della Bayer, dove faceva anche il sindacalista.

Quando nel 1970 Salvador Allende diventò presidente, Schindler, che aveva lavorato alla campagna elettorale, ottenne un posto nella pubblica amministrazione, perdendolo però l’11 settembre di tre anni dopo. Quel giorno del ’73, l’esercito bombardò il palazzo de La Moneda e spodestò il governo socialista. Con l’inizio di una dittatura che sarebbe durata fino al 1990, a Jorge toccava ricominciare con poco: l’esperienza accumulata tra le medicine, una fama da attivista diventata scomoda e un prestito in banca.

«La prima farmacia l’ho aperta a Villa Mexico, la seconda in casa da due zitelle al Maipù. Tutti quartieri popolari di Santiago», dice dell’impresa che arrivò ad avere sette locali e che, sulle prime, «medicava i ragazzi di strada, curava le donne incinte e aiutava gli anziani». Tuttavia, il progetto prevedeva anche un doppio fondo: nel retrobottega di ogni negozio funzionava un centro d’accoglienza per i perseguitati politici, che venivano sfamati, ripuliti, vestiti col camice bianco e mandati al banco a vendere farmaci con regolare ricetta.

«I primi ad arrivare furono soprattutto comunisti ricercati. Volevano riattivare il partito in clandestinità. Poi si sparse la voce tra tutti i rivoluzionari, gli studenti, i sindacalisti del carbone della regione in cui sono nato». Create in quel ’74 in cui moriva il suo più noto omonimo Oskar, le farmacie Schindler durarono quasi cinque anni e, dei 100 ricercati accolti, solo due furono catturati e uccisi dagli agenti di Pinochet.

Nel maggio del ’76 fece irruzione la polizia, cercando «l’ospedale segreto in cui si curano i sovversivi». «Ammisi che eravamo tutti di sinistra, ma dissi anche che dopo il golpe avevamo abbandonato la militanza - ricorda Jorge - non penso che mi abbiano creduto, ma non trovarono nemmeno prove del contrario». La sua copertura durò fino al ’79, poi la situazione si fece insostenibile e fuggì in Germania. Adesso che la pubblicazione di un libro con la sua storia l’ha reso famoso, molti gli chiedono se tornerà in Cile. «Perché no - risponde lui - potrei lavorare in una delle mie farmacie, molte sono ancora aperte e le gestiscono ancora i vecchi compagni».

Filippo Fiorini

 

Articolo tre
11 09 2014

“La storia è nostra e la fanno i popoli”.

Parole che hanno segnato un'epoca. Che hanno raccontato per decenni la storia di un popolo e di un Paese, nonché il desiderio di rivalsa e di umanità, quella che troppo spesso siamo tentati di dimenticare.

L'11 settembre è il giorno in cui le Twin Towers vennero abbattute. Ma, ancor prima, nello stesso giorno del 1973, il Cile iniziava a conoscere il proprio inferno, anche per colpa di quegli stessi Usa, guidati, ai tempi, da Richard Nixon. Ed allora è necessario ricordare anche questo, di 9/11.

Erano le 9.10: il Capo di Stato cileno, Salvador Allende, si era collegato per la quinta e ultima volta in radio. Aveva deciso, improvvisamente, di dire tutta la verità al suo popolo, raccontare quanto, in quegli stessi istanti stava accadendo al Palazzo: i caccia sorvolavano il tetto, sganciando bombe, mentre, fuori dai cancelli, l'esercito tentava di entrare all'interno dei locali e chiudere un'epoca. Di fatto, si stava compiendo in diretta il golpe di Pinochet, uno degli eventi più discussi, tragici e controversi della storia recente.

Erano gli anni della Guerra Fredda. Gli Usa si fronteggiavano con l'Unione Sovietica e, ovunqe, in tutto il mondo, si respirava una pesantissima aria di tensione. Chiunque temeva il tracollo degli equilibri e, conseguentemente, l'esplosione della guerra, che avrebbe visto fronteggiarsi due superpotenze: una previsione devastante.

Per questo non era accettabile, per gli Usa, che un nuovo paese decidesse di dirigere le proprie preferenze verso il comunismo, spostando così pericolosamente l'asse di equilbri e rischiandone la rottura. Per questo, quando, nel 1970, Allende venne nominato presidente con maggioranza relativa (raccolse il 36% dei voti), divenendo il primo leader marxista eletto in America, gli Usa non nascosero l'intenzione immediata di rovesciare il volere del popolo attraverso un colpo di Stato. In un documento dello stesso anno, inviato dal vice direttore delle operazioni della Cia di Santiago, Thomas Karamessines, si leggeva infatti: “È politica ferma e in atto che Allende venga rovesciato da un golpe … è imperativo che queste operazioni vengano intraprese clandestinamente e in sicurezza, in modo tale che la mano americana e dell'USG [Governo degli Stati Uniti] rimanga ben nascosta.”

Non fu subito avanzata un'azione violenta. Dapprima, infatti, si tentò di abbattere Allende conducendo una campagna segreta atta ad aggravare le già devastanti condizioni economiche in cui versava il popolo cileno. Documenti del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, in seguito declassificati dalla presidenza Clinton e scritti da Kissinger, danno adito a questa ricostruzione; il fine, ovviamente, era quello di generare scontento nel popolo cileno, impedendo così consolidamento del potere di Allende e facendo precipitare il Cile nel caos.

Una strada che si rivelo efficace, ma non sufficientemente. Salvador Allende, pur intuendo l'ostruzionismo americano, proseguì nella sua missione di realizzare la cosiddetta “via socialista cilena”, mettendo in campo, fin da subito, numerose riforme: l'istruzione venne resa gratuita, così come la sanità. Terreni vennero espropriati e, soprattutto, venne nazionalizzata l'industria del rame, fino a quel momento in mano a società statunitensi. Uno smacco che Nixon non perdonò: fu così che, nel giro di pochi giorni, l'inquilino della Casa Bianca decise di revocare gli aiuti al Cile. In men che non si dica, il Paese sudamericano, scivolò nella recessione.

La situazione si fece tragica. La condizione di crisi aveva scatenato la rabbia nei confronti di Allende da parte di molti cileni: oltre agli esponenti cristiano-democratici e della destra del partito nazionale, i proprietari terrieri privati dei loro possedimenti e i poveri, ridotti al lastrico, iniziarono a puntare il dito contro il governo del Presidente. Di lì ad un primo tentativo di golpe il passo fu più che breve.

Avvenne nel giugno del '73: in quell'occasione un gruppo di soldati, sotto la guida del colonnello Souper, circondò il Palazzo Presidenziale tentando di rovesciare il potere. Le forze lealiste, però, riuscirono a sedare i disordini e reprimere la rivolta, in maniera celere: nel giro di poche ore l'emergenza rientrò. Non per questo Allende poté dirsi tranquillo: un nuovo tentativo di colpo di Stato avvenne a luglio, così che, alla fine, il Presidente, temendo per il futuro, non decise di riformare anche l'esercito. Alla guida del Ministero della Difesa pose così il generale Augusto Pinochet, nonostante, inizialmente, il posto fosse stato assegnato al "fedelissimo" Prats, ritirato per le polemiche suscitate dalla nomina.

Riorganizzata la sua sicurezza e, di conseguenza, quella del suo popolo, Allende accelerò nelle riforme, ma dovette fare i conti con un nuovo attacco: giuridico. I partiti a lui avversi, infatti, iniziavano ad accusarlo di "atti incostituzionali". Secondo quanto denunciavano le opposizioni, Allende stava tentando di “assoggettare tutti i cittadini al più stretto controllo politico ed economico da parte dello Stato con lo scopo di stabilire un sistema totalitario”. Sotto fuoco incrociato, il Presidente respinse tutte le accuse e riconfermò la sua intenzione di proseguire "per il bene del Cile".

Fu così che si dovette scendere nella violenza. Tra il 7 e il 10 settembre, Allende venne informato di un imminente colpo di Stato, previsto per il 14 dello stesso mese. Ad avvisarlo, il suo fedele generale Prats, che gli suggerì anche di lasciare il Paese. Il Presidente declinò l'invito, convocando, anzi, il ministro Pinochet, credendolo suo alleato. A lui raccontò dei rischi che stava correndo e svelò inoltre le sue future mosse: un errore che gli costò la vita.

All'alba dell'11 settembre era già troppo tardi: il golpe era in atto. Alleande abbandonò la sua abitazione trincerandosi a La Moneda, dove venne raggiunto dai suoi uomini. Alle 8 meno cinque, Allend si collegò per la prima volta in radio e riferì ai cittadini quanto era in corso. Poco dopo, cominciarono i bombardamenti.

I militari, guidati da Pinochet, non lasciarono scampo ai lealisti. Assaltata La Moneda, impedirono entrate e uscite, bombardando e sfondando barricate. Per ore, all'interno del palazzo, i lealisti cercarono di resistere alla furia golpista, invano. Pinochet aveva vinto e non c'era più nulla da fare, se non un ultimo gesto rivoluzionari: pur di non lasciarsi uccidere, Allende afferò la sua mitraglietta e se la scaricò addosso, crivellandosi di colpi. I militari sostennero per lungo tempo di essere stati loro a eliminarlo, ma ricostruzioni, testimonianze ed esami hanno sempre confermato la teoria del suicidio.

La dittatura di Pinochet durò dal 1973 al 1990. In diciassette anni, 40mila persone furono uccise, torturate o incarcerate perchè considerate dissidenti, traditori. 1200 di loro sparirono nel nulla, più di 3000 furono le vittime accertate. Il tutto con il contributo e il benestare della Chiesa, che nascondeva i crimini del dittatore.

E della Cia. D'altronde, ebbe a dire Kissinger, riferendosi al golpe: “Non l'abbiamo fatto, ma ne abbiamo creato le basi”.

Il Fatto Quotidiano
02 04 2014

Mancavano pochi minuti alle 21, il nord del Cile ha tremato ed è subito scattato l’allerta tsunami: nella notte, migliaia e migliaia di persone si sono dovute allontanare dalla costa. E puntualmente, poco dopo la violenta scossa di magnitudo 8.2, le prime onde – alcune alte anche circa 2 metri – si sono abbattute sulle spiagge di alcune località. Le autorità hanno subito chiesto l’evacuazione preventiva della popolazione sul “100% della costa” del Paese, lunga 4.300 chilometri: la scossa è stata molto violenta e in effetti anche il Perù e l’Ecuador hanno subito diffuso a loro volta un’allarme tsunami sulle coste del Pacifico, poi parzialmente rientrato. Poco prima della mezzanotte ora locale il ministro degli Interni cileno, Rodrigo Penailillo, ha reso noto che “l’allerta tsunami rimarrà in vigore in tutto il paese per altre sei ore”. Sono 5 le vittime fino ad ora, secondo il governo. A perdere la vita sono stati 4 uomini e una donna, soprattutto a causa di infarti o schiacciati dai crolli. Decine i feriti, mentre migliaia di persone sono rimaste senza corrente elettrica. I danni effettivi del sisma potranno essere valutati solo in mattinata, dicono le autorità.

“Il Cile ha affrontato bene questa prima fase dell’emergenza”, ha sottolineato la presidente Michelle Bachelet, che ha dichiarato “zona di catastrofe” alcune delle aree più colpite. “L’allerta tsunami è stata data con prontezza”, ha aggiunto la Bachelet durante una breve dichiarazione nel palazzo presidenziale della Moneda, precisando di aver dichiarato “zona di catastrofe” tre delle aree più colpite dal sisma: Arica, Parinacota e Tarapaca. Domani la presidente si recherà nelle zone colpite dal disastro.

Sempre secondo l’esecutivo di Santiago, in Cile le onde più alte (poco più di 2 metri) sono state quelle arrivate ad Iquique, 1.800 km a nord della capitale. Dopo i primi dati, lo United States Geoloical Survey ha rivisto al rialzo la magnitudo del sisma – definito da tanti cileni “molto lungo” – al largo delle coste settentrionali del Cile da 8 a 8.2. Rivisti anche i dati di ipocentro ed epicentro, rispettivamente a 20,1 km di profondità e 95 km a nordovest di Iquique, dove ci sono stati danni all’aeroporto e alcune delle abitazioni più fragili sono crollate. E non sono d’altra parte mancate le repliche: cinque-sei di media intensità, tutte comunque ben al di sotto degli otto gradi.

“Stiamo valutando insieme ai nostri esperti le variazioni della mareggiata e monitoriamo, minuto a minuto, quelle situazioni che si presentano più rischiose”, ha precisato il ministro degli interni, annunciando la chiusura oggi delle scuole in alcune città. Il ministro ha d’altro lato smentito versioni circolate su presunti saccheggi nelle località costiere del paese, che però sono stati segnalati da più fonti ad Iquique. Nella stessa città, circa 300 detenute di un carcere femminile sono riuscite a fuggire durante la confusione e gli attimi di terrore del terremoto. Alcune di loro sono state poi catturate.

Il Cile – uno dei Paesi più colpiti al mondo dai terremoti – è così ripiombato nell’incubo sisma, che ben conosce: oggi la terra ha tremato nel nord, il 27 febbraio del 2010 era capitato nel centrosud, con un bilancio – soprattutto a causa dello tsunami – di 526 morti e 25 ‘desaparecidos‘, oltre all’ingente distruzione delle infrastrutture e le abitazioni. Scossa che fu superiore a quella odierna, con magnitudo 8.8.

Il Cile nelle mani di due donne sopravvissute alle sofferenze della dittatura militare: Isabel Allende, prima presidente del Senato nei 200 anni di storia del paese, insedia Michelle Bachelet alla guida dello stato. ...
La socialista Michelle Bachelet torna alla presidenza in Cile e diventa la terza donna, insieme alla brasiliana Dilma Rousseff e all'argentina Cristina Kirchner, al potere nel subcontinente latino americano. ...

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