Corriere della Sera
27 10 2014
Le ultime sopravvissute chiedono le scuse dei giapponesi. Ai nostri genitori dicevano che saremmo andate a lavorare in fabbrica, ma poi ci consegnavano ai militari. Io sono stata portata via a 13 anni
di Clara Iatosti *
Seoul, Corea. Agosto 2014. Siamo nella cattedrale di Myong Dong. Francesco attraversa la navata, si ferma. Una donna anziana, alta, elegante nel suo abito tradizionale di seta cruda candida, gli prende la mano. La trattiene stretta nella sua, gli dice qualcosa, che l’interprete traduce. Il papa annuisce, visibilmente commosso. Anch’io conosco Bok-Dong, la signora in bianco. L’ho intervistata per la mia tv e non ho più dimenticato quel volto solcato dalle ferite dell’anima. Un passato atroce, il suo, nascosto tra le pagine più buie e sconosciute della storia dell’umanità.
Durante l’occupazione giapponese, la Corea – con altre regioni asiatiche controllate dal Sol Levante – visse l’orrore. Dal Chōsen, tra il 1910 e il 1945, le donne, spesso poco più che bambine, furono deportate al fronte e lì violentate per anni in bordelli per soldati; queste vittime di guerra furono chiamate eufemisticamente “donne di conforto”. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, vissero nascoste come proscritte. Nel paese dei mattini calmi, si voleva dimenticare la barbarie. Uscirono allo scoperto solo con le prime manifestazioni degli anni novanta. Le confessioni di ex ufficiali nipponici hanno fatto conoscere la loro sorte ad un pubblico più vasto, ma il governo giapponese afferma che non ci siano prove di questo crimine, non riconosce responsabilità e non apre i suoi archivi. Stime approssimative parlano di 300.000 deportazioni.
Ho incontrato Bok-Dong a Seoul, nel museo della guerra e dei diritti umani (negati) delle donne. Ormai, sono rimaste in vita solo una cinquantina di loro. Sono anziane, qualcuna malata e il ricordo è lacerante, ma non si sottraggono alle domande.
«Dal Giappone non vogliamo soldi – mi ha detto Bok Dong -, ma che finalmente ammetta tutte le atrocità commesse. Non è vero (come dicono) che eravamo volontarie, non è assolutamente vero. Vorremmo che si scusino e che ammettano ciò che hanno fatto».
«I giapponesi mentivano. – ha aggiunto Won-Ok, l’altra gentile signora coreana che ha accettato di incontrarmi – Ai nostri genitori dicevano che saremmo andate a lavorare in fabbrica, ma poi ci consegnavano ai militari. Io sono stata portata via a 13 anni, ora ne ho 87. Non ho mai potuto dimenticare, perché essere “rapite” anche solo una volta è un dolore troppo grande. Ma a noi è accaduto tante volte e abbiamo subito violenza da tanti uomini. Non vorrei ricordare, è troppo penoso e quando, come oggi, mi ritrovo a farlo, rivivo quanto accaduto e la notte poi non riesco a dormire».
Originaria di Pyong Yang, finita la guerra, è rimasta bloccata a Singapore, senza soldi, né documenti. Rimpatriata dagli americani in nave, dopo due settimane di mare, voleva cercare abiti puliti prima di tornare a casa, ma la divisione della Corea (dramma nel dramma) l’ha sorpresa al Sud e non ha più rivisto i genitori e i quattro fratelli. Conclusa l’intervista, Bok-Dong mi ha preso la mano. «Per favore, fai conoscere al mondo la nostra storia. Devi dire come si è comportato il Giappone nei nostri confronti. Tanti giornalisti stranieri sono venuti, ci hanno domandato, ma poi non hanno fatto nulla. Aiutaci a far conoscere la nostra storia e il nostro dolore. Ormai siamo molto anziane. Le altre non ci sono più. Vorremmo vedere un mondo diverso prima di morire». Anch’io ho annuito, di fronte a tanto coraggio.
La Repubblica
03 04 2013
SEUL - Il ministro della difesa sudcoreano ha annunciato un piano d'emergenza che prevede un possibile ricorso alla forza per garantire la sicurezza dei suoi cittadini che lavorano a Kaesong, il complesso industriale in territorio nordcoreano, dove operano però decine di aziende del Sud e 53 mila lavoratori nordcoreani. L'area, l'unica sulla quale esista al momento una condivisione fra Nord e Sud, è stata chiusa da Pyongyang per ritorsione contro le manovre di Seul e Usa.
"Abbiamo preparato un piano d'urgenza e comprende una possibile azione militare, in caso di situazione grave", ha dichiarato Kim Kwan-Jin durante una riunione di deputati del partito conservatore di maggioranza. Il ministero sudcoreano per l'Unificazione ha invitato invece Pyongyang a "normalizzare immediatamente" il traffico tra i due Paesi. Se Pyognyang "persiste nel suo atteggiamento, deve essere consapevole delle ripercussioni delle sue azioni sulle relazioni intercoreane e sulle critiche e l'isolamento dalla comunità internazionale", ha rimarcato il ministero auspicando la rimozione "immediata" delle restrizioni.
La crisi su Kaesong ha avuto un'impennata improvvisa stamattina quando le autorità di Pyongyang hanno prima ritardato e poi sospeso l'ingresso dei lavoratori sudcoreani nell'area industriale. Quasi duecento dipendenti e oltre 150 autotreni provenienti dal Sud sono stati rimandati indietro. La Corea del Nord ha notificato al Sud il divieto di ingresso al distretto, consentendo
solo a quelli già presenti di poter tornare a casa. "Il governo della Corea del Sud si rammarica profondamente per il divieto di ingresso e sollecita una pronta revoca", ha commentato il portavoce del ministero Kim Hyung-Seok.
Il ministro, nel resoconto del presidente della commissione parlamentare Yoo Won-chul ripreso dalla Yonhap, ha osservato che si valutano "tutte le opzioni possibili". L'esercito di Seul, nei piani militari, è pronto a demolire il 70% della prima linea del Nord entro cinque giorni nel caso di provocazione grave di Pyongyang contro il Sud, ha detto Yoo.
Prima del blocco degli ingressi deciso dal Nord, a Kaseong risultavano esserci 861 sudcoreani e sette lavoratori stranieri, scesi a 4 dopo che a tre è stato concesso di rivarcare la linea di confine verso mezzogiorno (le ore 5 circa in Italia). Questa mattina, nei piani originari, 484 lavoratori e 371 veicoli di Seul avrebbero dovuto raggiungere Kaesong. A causa del divieto, a 46 persone sarà permesso il rientro nel pomeriggio, lasciando 822 lavoratori al complesso: il calo drastico delle partenze, rispetto agli ipotizzati 466, è legato comunque all'esigenza delle 123 aziende della zona industriale di consentire la regolare operatività degli impianti.
Pochi giorni fa Pyongyang aveva già minacciato di chiudere l'area a sviluppo congiunto se la Corea del Sud non avesse fermato gli "insulti" sul fatto che il distretto restasse aperto "solo per la necessità" di Pyongyang di raccogliere risorse finanziarie fresche. "Se il gruppo di traditori (del Sud, ndr) continua a parlare del fatto che la zona di Kaesong è mantenuta operativa a danno della nostra dignità, allora - aveva riferito l'agenzia ufficiale Kcna - il distretto sarà chiuso senza pietà".
Kaesong genera ogni anno nelle casse nordcoreane flussi per 87 milioni di dollari, in prevalenza grazie ai salari dei circa 53.000 lavoratori impiegati, fornendo supporto a oltre 250.000 persone, includendo anche i familiari.
Se la Corea del Nord continuasse a negare l'ingresso ai lavoratori sudcoreani, sarebbe equivalente alla chiusura del complesso perché le fabbriche di Kaesong non possono mantenere in funzione le linee produttive senza i rifornimenti di materie prime che vengono mandate regolarmente dal Sud al Nord.
Il complesso industriale ha avviato la produzione nel 2004, perlopiù con manodopera nordcoreana e know-how del Sud. Nord e Sud Corea non permettono ai loro cittadini di viaggiare da un Paese all'altro senza autorizzazione, ma finora costituiva un'eccezione quella dei lavoratori di Kaesong. Nella città di frontiera di Kaesong ci sono 120 ditte sudcoreane, dove lavorano 53mila lavoratori nordcoreani. Nel 2012, con la manodopera nordcoreana efficiente e a basso costo, il complesso di Kaesong ha prodotto beni per un valore di 470 milioni di dollari.
Già nel 2009 Pyongyang chiuse la frontiera a seguito delle esercitazioni militari congiunte fra Usa e Sud Corea, bloccando a Kaesong per diversi giorni centinaia di lavoratori sudcoreani. Successivamente ripresero nel complesso le operazioni normali.
La Cina condanna tutte le "azioni e le parole provocatorie" che minacciano "la pace e la stabilità nella penisola coreana e nella regione". Lo ha dichiarato il vicepremier Zhang Yusui, commentando la decisione della Corea del Nord di chiudere il distretto industriale congiunto di Kaesong. Zhang ha rinnovato l' appello già rivolto nei giorni scorsi dalla Cina a "tutte le parti in causa" affinchè "mantengano la calma ed esercitino la moderazione".