Fare e disfare il genere, con le parole

  • Lunedì, 27 Aprile 2015 11:56 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Ingenere.it
27 04 2015

Donne e uomini si diventa, anche a colpi di parole. Una rassegna di contributi teorici attorno alla stretta relazione tra il linguaggio e la dimensione materiale e fisica che coinvolge le persone e le cose.

Dario Minervini

Cosa distingue gli uomini e le donne? La domanda potrebbe apparire banale se non fosse che attorno a questo interrogativo numerose studiose - e qualche studioso - hanno sviluppato un dibattito scientifico particolarmente vivace. Il corpo, la relazionalità (più o meno affettiva), la razionalità (più o meno strumentale), il ruolo socialmente riconosciuto e legittimato, le parole e i discorsi con cui si rappresentano il maschile e il femminile. Queste sono solo alcune delle questioni che derivano direttamente dalla domanda sopra indicata. La rassegna di riflessioni teoriche attorno al concetto di performatività[1], che qui si propone, parte dalla sfera immateriale del linguaggio e del suo potere di 'fare' gli uomini e le donne e arriva alla dimensione materiale, quella fisica e tangibile delle persone e delle cose che le circondano.

Le parole non descrivono semplicemente il mondo, lo agiscono. Affermazioni come questa sono generalmente ricondotte alla teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin che nel 1962 pubblicò un volume dal titolo decisamente esplicito: How to Do Things with Words. Fra gli esempi indicati dallo stesso Austin per illustrare in che modo il potere delle parole potesse tradursi in azione vi fu quello di un prete che nel corso di una cerimonia nuziale afferma con tono fermo e deciso “vi dichiaro marito e moglie”. Se per un momento si prova ad immaginare questa scena abbastanza consueta vedremmo come una formula rituale, proferita da un soggetto investito di un’autorità riconosciuta, all’interno di un contesto regolato da norme condivise, performa la realtà.

Qualche tempo dopo, a partire dagli anni ’90, la filosofa femminista Judith Butler evidenziò come le parole agissero nella definizione di una specifica costruzione sociale, quella del maschile e del femminile. Il risultato fu quello di una rappresentazione negoziata e socialmente determinata dell’identità di genere. Questa volta era la stessa categoria del genere ad assumere una connotazione performativa, coincidendo con una serie di atti non esclusivamente linguistici espressi, interpretati ed incorporati dagli attori sociali. In questo quadro teorico, il tema del corpo e di come questo potesse essere linguisticamente rappresentato, costituì uno dei nodi centrali del ragionamento di Butler. Il corpo, infatti, appariva come parte integrante del processo di costruzione sociale del genere in quanto detto e agito, descritto e attivato nei diversi momenti e luoghi dell’esperienza quotidiana. La performatività si manifestava esattamente nel dire degli uomini e delle donne nella vita quotidiana, nella ripetizione nel tempo di questa rappresentazione culturale e sociale di come gli uomini e le donne sono e si comportano.

Più recentemente, a partire dal corpo e dalla sua materialità, sono state elaborate e teorizzate nuove rimodulazioni del rapporto fra performatività e genere. Annemarie Mol, ad esempio, evidenzia il ruolo del corpo nel supportare attivamente la costruzione sociale delle identità di genere associandosi ai discorsi, contribuendo ad attivare specifiche configurazioni socio-materiali. Queste argomentazioni vengono sviluppate all’interno di un campo disciplinare relativamente giovane, quello degli studi di scienze e tecnologie di cui Mol è una delle più autorevoli esponenti.

"Una vagina o un pene non devono necessariamente determinare l’essenza dell’identità di genere per essere significativi nella rappresentazione di se stessi in quanto donna o uomo. Fino a che punto siano rilevanti dipende dalla scena. Per strada non c’è bisogno di un pene per performare la mascolinità. Mentre è molto utile nella doccia condivisa di una piscina. Lì i genitali ci sono, sono in scena"[2]

Questo stralcio, provocatorio ed efficace al tempo stesso, è contenuto in un libro nel quale la studiosa restituisce, argomentandoli, i risultati del proprio lavoro etnografico sulle pratiche scientifiche di tipo diagnostico nel campo dell’arteriosclerosi. Le pagine descrivono in maniera dettagliata i modi in cui i corpi e la scienza medica si incontrano e le diverse dinamiche performative che di volta in volta possono manifestarsi. La materialità conquista una scena di primo piano e affianca l’attore esperto nella definizione della realtà (il titolo del volume è esplicito in tal senso: The body multiple. Ontology in medical practice). Guardare al corpo, e a come questo partecipa nel riconoscimento del maschile e del femminile, consente di mettere definitivamente in discussione l’idea che esista un’essenza naturale alla base del genere. Piuttosto la sfera naturale (biologica) e quella culturale (della rappresentazione sociale) contribuiscono insieme a performare il genere.

Gli studi sviluppati nell’ambito degli studi di scienza e tecnologia aprono ad altre dimensioni analitiche e complicano lo scenario. Karen Barad ridimensiona ulteriormente il potere di definizione della realtà da parte del linguaggio decentrando la capacità umana di agire sino ad attribuire alla performatività una natura che lei stessa definisce post-umana (Barad 2003). Barad nega che il linguaggio degli uomini possieda in sé il potere di rappresentare la realtà delle cose in maniera autonoma dalla realtà stessa. La concezione asimmetrica del rapporto fra il domino delle parole e quello della realtà 'reale', afferma Barad, è il risultato di una specifica acquisizione epistemologica ed ontologica di tipo storico-sociale e non deve essere confusa con un’inevitabile operazione logica necessaria alla speculazione scientifica. Un’alternativa può essere quella di vedere come le cose e le persone co-costruiscano la realtà. Su questo punto Barad richiama oltre a Butler un’altra importante studiosa di 'questioni di genere', Donna Haraway. Entrambe, infatti, evidenziano l’importanza di guardare al modo attraverso cui i soggetti diventano corpi culturalmente connotati (Haraway 1997), ovviamente anche in termini di genere. Questo processo performativo che associa i soggetti e le entità materiali, le parole e le cose, è un processo profondamente politico.

L’agire politico in riferimento alla dimensione biologica ci porta immediatamente a Michel Foucault. Nello sviluppo del discorso sulla performatività post-umana Barad prende in prestito diversi concetti dal filosofo francese fra cui quello di dispositivo. Proprio parlando di scienza e di tecnica, infatti, si evidenzia come questi siano i luoghi d’elezione in cui i dispositivi (tecniche e tecnologie di misurazione, strumenti diagnostici, regole e procedure di diritto, etc.) vengono attivati. I dispositivi non consentono semplicemente di trasferire su una lastra l’immagine di una massa tumorale o di materializzare l’agire di un delinquente in una sentenza, ma sono letteralmente corresponsabili - anche in termini etici - di ciò che contribuiscono a performare. Per queste ragioni la performatività appare distribuita ma questo non esclude la responsabilità che cose e persone esprimono nelle dinamiche di inter-azione. Se, ad esempio, si considerano alcuni artefatti nei quali è possibile rintracciare uno specifico 'copione' di genere è possibile registrare sia la riproduzione tradizionale della divisione sessuata dei ruoli che le pratiche di ridefinizione degli stessi. Un’immagine efficace può essere quella di una bambina che gioca con suo padre calciando una palla rosa che riporta le immagini delle più famose principesse del mondo delle fiabe. Quella che è stata appena descritta è una scena nella quale una configurazione socio-materiale è oggetto di negoziazione fra le parti in causa e performa una realtà per certi versi alternativa a quelle che consideriamo usuali (il gioco 'maschile' del calcio, le decorazioni 'femminili' della palla).

Tuttavia le situazioni legate all’identità di genere appaiono decisamente più problematiche. L’esempio appena riportato è adeguato a rendere conto di un aspetto particolarmente rilevante: le asimmetrie fra soggetti e materialità coinvolti nelle dinamiche performative. Se è vero che la performatività è il risultato di una negoziazione distribuita, è altrettanto vero che all’interno di questa dinamica vi sono responsabilità, capacità e pesi specifici differenti. Nel caso del genere, ciò appare difficilmente contestabile: i generi non hanno tutti le stesse possibilità performative, e uomini e donne non sempre condividono gli stessi spazi di possibilità. La questione dell’asimmetria e del potere è stata presa in seria considerazione da quella che potremmo definire un’alleanza scientifica e politica fra stidi di genere e studi di scienza e tecnologia. L’incontro di queste sensibilità disciplinari ha dato vita a un progetto che partendo dalla decostruzione dei vincoli linguistici e delle rappresentazioni socioculturali ha incluso la materialità come dimensione costitutiva e dinamica nei e dei processi performativi del genere. La sfida posta da questa alleanza è quella di minare alle fondamenta quell’immaginario che ancora oggi non sfugge alla tentazione di riportare i modi di essere del genere all’interno di ciò che si considera 'naturale' e per questo eticamente ammissibile, oltre che moralmente dovuto.

 

Riferimenti bibliografici

Austin, John L. (1968) How to Do Things with Words. Oxford: OUP, 1962.

Barad, Karen. (2003) "Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter", Journal of Women in Culture and Society, vol. 28, no. 3, pp. 801-831

Butler, Judith. Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. New York: Routledge, 1990.

Haraway, Donna (1997). Modest Witness @ Second Millennium.Female Man Meets Onco Mouse. New York: Routledge.

Mol, Annemarie. (2002) The body multiple. Ontology in medical practice, Durham-London, Duke, University Press.

 

NOTE

[1] In questo breve contributo si richiamano alcune riflessioni teoriche sul genere che hanno fatto riferimento alla performatività, ovvero a quel complesso di dinamiche che danno una forma, un significato e un ruolo sociale agli uomini e alle donne.

[2] Mol 2002: 39, traduzione dell'autore

 

Corpi e ruoli tra media e vita quotidiana

  • Lunedì, 20 Aprile 2015 11:46 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Ingenere.it
20 04 2015

I segni dell’uguaglianza e della differenza, così come quelli della discriminazione e della stigmatizzazione legati a genere e sessualità, passano per il complesso intreccio di simboli e significati che si sviluppa tanto nei linguaggi prodotti e riprodotti nelle interazioni faccia a faccia, quanto nella comunicazione che si sviluppa attraverso i media digitali e i mass media. Anzi, nelle società contemporanee i confini tra queste due dimensioni – così come tra i linguaggi e i generi mediatici – tendono sempre più a sfumare, facendo emergere rapporti complessi tra vita 'on-line' e vita 'off-line', tra quotidianità (ordine dell’interazione) e media unidirezionali, che ci conducono molto più lontano da quell’avvento dell’iper-realtà e della "tirannia del simulacro", di cui parlava Jean Baudrillard nel 1981.

Uno dei primi studi che si occupava di questo intreccio ponendo al centro i rapporti di genere, fu il lavoro di Erving Goffman del 1979 intitolato Gender Advertisements che si concentrava, appunto, sui linguaggi pubblicitari. L’analisi di Goffman portava alla luce il fatto che l’ordine dell’interazione (cioè il modo in cui si organizza la vita quotidiana) e le rappresentazioni mediatiche erano fortemente convergenti: la donna veniva rappresentata dalla pubblicità come “elemento succube”, sempre alla mercé delle decisioni di un uomo. Infatti la figura femminile era ricodificata sia dal pubblicitario (quasi sempre uomo ed eterossessuale), che dà forma allo spot, sia dall’attore che la affianca nella rappresentazione. Questo ruolo subordinato, ancillare, seduttivo e ornamentale alimentava così un immaginario che era del tutto congruente con il modello di famiglia americana centrata sull'uomo come maggiore percettore di reddito[1] . Forte della sua capacità di assorbire e trasformare in business la critica, come mise ad esempio in luce Robert Goldman nel 1992, tanto i linguaggi pubblicitari quanto quelli più generalmente espressione dei mass media commerciali, tesero a sviluppare negli anni successivi una sorta di 'femminismo mercificato'; un nuovo insieme di simboli, linguaggi e rappresentazioni volti a mostrare che solo attraverso il mercato e il consumo le nuove donne emancipate avrebbero potuto trovare i mezzi necessari per ricostruire la propria identità e la propria nuova facciata: in fondo, il tema del documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, in cui viene mostrato come la figura femminile ridotta a merce sia uno dei linguaggi fondamentali con cui si esprime il potere. All’interno di questo frame, tutto sommato, può anche essere ricondotta buona parte dell’ingresso degli LGTBI sulla scena mediatica, in particolare in quella pubblicitaria, nella quale l’omosessualità femminile o il richiamo all’ambiguità della bisessualità, sempre da parte delle donne, diventa un ulteriore strumento di seduzione per aumentare l’erotismo della merce. Molto più in ombra rimane, invece, la rappresentazione dell’omosessualità maschile.

Queste brevi suggestioni ci fanno immediatamente comprendere come, accanto all’emersione di nuove forme di comunicazione e di costruzione sessuata del sé legate ai media digitali, i linguaggi e gli immaginari costruiti dallo stretto intreccio tra mass media e vita quotidiana continuino a svolgere un ruolo importante nella società globale. La sessione da me coordinata del convegno Genere e linguaggio si è concentrata in modo preponderante su questi temi, esplorando in particolare due tipi di linguaggi e di rappresentazioni dei rapporti di genere: quello cinematografico e quello dell’intrattenimento televisivo rivolto prevalentemente ai teenager.

Mentre non mancano gli studi sul modo in cui la donna bianca, occidentale, è rappresentata nei media e nel cinema, la costruzione dei corpi e della rappresentazione delle donne migranti provenienti dal resto del mondo, è un tema molto meno esplorato. Al mito della 'grande proletaria', dell’italiano e dell’italiana 'brava gente' con cui il cinema nostrano ha spesso rappresentato (in modo consolatorio e in linea con la nostra mitologia nazional-popolare) l’emigrante italiano nel mondo, si è sostituita negli anni più recenti una complessa filmografia che racconta le storie degli immigrati in Italia. Lì dove la figura dell’uomo-migrante è disegnata in modo complesso, pur occupando spesso ruoli residuali nella narrazione cinematografica, grande protagonista di questo nuovo filone è la figura della donna-migrante. Come suggeriscono le varie relazioni tenute al convegno e, in particolare, quella di Gaia Peruzzi (Sapienza, Università di Roma), la donna proveniente dall’Est Europa è il personaggio più rappresentato; in narrazioni filmiche che sembrano riproporre l’archetipo ad un tempo attraente e seducente, di Lillith, la prima moglie di Adamo, ripudiata da quest’ultimo perché non volle obbedirle e simbolo della seduzione che conduce alla rovina dell’uomo. Al contrario, quando sono rappresentate, le donne provenienti dai paesi arabi lo sono prevalentemente attraverso linguaggi e narrazioni che si concentrano sul loro ruolo materno così come sulla loro condizione di subordinazione. In entrambi i casi, dietro lo stereotipo di genere e culturale scompare la complessità del soggetto donna, ridotto così 'ad una dimensione'.

Sul piano dell’intrattenimento televisivo rivolto ai teenager, mentre permane l’assoluta centralità del medium televisivo e dei suoi linguaggi nel panorama mediatico italiano, il pubblico giovanile tende a sviluppare una fruizione complessa della televisione che sempre più si intreccia con i linguaggi tipici dei media digitali: il format dei relationship rality appare perfettamente congruente con la tendenza degli adolescenti ad utilizzare i social network come dimensioni in cui ricostruire la propria vita quotidiana (mediante linguaggi multimediali) annullandone l’ordinarietà e ridefinendola, appunto, come fosse uno 'straordinario' reality nel quale sfera privata e sfera pubblica si confondono; e dove “colei alla quale si crede”, cioè la verità delle relazioni (secondo la battuta del capolavoro pirandelliano Così è se vi pare), emerge e si chiarisce. Il caso del programma Friend zone, prodotto da MTV e studiato da Giuseppina Bonerba (Università degli Studi di Perugia) rientra perfettamente in questa tipologia, rivelando una particolare rappresentazione dei rapporti di genere all’interno della sfera intima degli adolescenti: nel programma americano – incentrato sulla rivelazione del proprio amore al migliore o alla migliore amica – oltre ad emergere un significativo avvicinamento dei modelli comportamentali messi in pratica da ragazze e ragazzi nel corteggiamento, si delinea il profilo di un amore vissuto come prolungamento e potenziamento dell’amicizia, nel quale il sesso non è più elemento costitutivo. Per entrambi i generi (anche quando sono rappresentate coppie omosessuali) emerge il modello di un amore inteso come sostegno e appoggio reciproco.

 

Riferimenti bibliografici

Baudrillard J. (1981), Simulacres et Simulation, Paris: Éditions Galilée.

Goffman E. (1976), Gender Advertisements, Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press.

Goldman R. (1992), Reading Ads Socially, London: Taylor & Francis.

 

NOTE

[1] Analizzata, tra gli altri, da Talcott Parsons.

Judith Malina, il corpo della rivoluzione

  • Martedì, 14 Aprile 2015 14:17 ,
  • Pubblicato in Flash news

Cronache del garantista
14 04 2015

Judith Malina è uscita di scena non come avrebbe meritato, con tutti gli onori, ma in un ospizio per artisti dove aveva trovato rifugio da un po’ di anni nel New Jersey. O forse, ripensando alla sua vita, sempre contro il sistema, è vero il contrario: è andata via come ha vissuto, senza i riconoscimenti, gli onori, i soldi, il clamore che una grande artista come lei avrebbe meritato. Gli applausi però li ha sempre presi, tanti, in tutto il mondo. Applausi che dovrebbero continuare all’infinito: perché Judith Malina è stata unica, speciale, una stella che ha attraversato il Novecento teatrale, culturale, politico.

L’incontro decisivo della sua vita arriva prestissimo, intorno ai vent’anni. Malina conosce Julian Beck con il quale fonda il Living Theatre nel 1947. New York in quegli anni è tutta un fermento di attività d’avanguardia. La norma è bandita, la sperimentazione è la strada privilegiata per inventarsi qualcosa di nuovo, che butti all’aria le convenzioni. I due, entrambi di origine ebraica (la famiglia di lei era fuggita dalla Germania nazista), si amano, ma soprattutto condividono la stessa voglia di mettersi in gioco, di vivere il teatro come un’arte totale.

La loro compagnia diventa una sorta di comunità, di laboratorio di idee e di vita. Ed è così che nascono i primi lavori, il successo, la fama mondiale. I loro spettacoli non sono spettacoli. Sono pugni nello stomaco, sono provocazioni, sono arte e sono vita. The brig (fine anni 50) racconta la violenza della vita militare, è un’opera pacifista, una messa in scena del sadismo, una denuncia in prima persona dell’odio che ci portiamo dentro. Il Living è così. Non c’è un noi e un voi. La messa in gioco è totale, l’indagine sull’essere umano parte da se stessi e coinvolge tutti gli aspetti del fare teatro. Seguono, per citare qualche titolo, Mysteries and Smaller PiecesParadise Now, Antigone, Prometheus. Con queste opere arrivano anche in Europa e in Italia. Vanno negli ospedali, nelle carceri, vanno in mezzo al movimento studentesco e pacifista che dalla fine degli Sessanta mette a soqquadro la società.

Oggi è difficile raccontare quell’esperienza. Sembra lontana, quasi mitica. Di quella grande stagione resta poco, soprattutto nel mondo del teatro. La sua eco arriva fino ai 90, poi a poco a poco si affievolisce. Julian Beck muore nell’85, Malina va avanti e lavora con altri registi tenendo vivo il Living Theatre. Solo per pochi anni ancora il fermento che la loro storia rappresenta costituisce un elemento propulsivo, non solo nel ricordo, ma nell’esperienza reale di tanti artisti. È un modo di intendere il teatro. La scena borghese salta: salta la divisione tra chi guarda e chi recita, salta la contrapposizione tra vita e finzione. Salta tutto. Provate oggi a pensare a uno spettacolo teatrale. Arrivate, vi sedete in platea, si apre il sipario, ci sono due tavoli, due sedie, qualche attore o attrice. Bene, è esattamente quello che non avreste mai trovato in uno spettacolo del Living. Loro credono nella rivoluzione, nella pace, credono che il loro lavoro possa cambiare la realtà. E la cambiano. Per intere generazioni sono un punto di riferimento, un simbolo di lotta e di futuro.

È con queste idee in testa e le immagini dei loro spettacoli impresse per averle viste e studiate all’università che arrivo la prima volta a vedere Judith Malina. A Roma, fine anni Novanta, al teatro Vascello. La grande artista è in scena con un piccolo spettacolo di cui è regista un’artista italiana, Lorenza Zambon. È tratto da Il diario di Jane Somers di Doris Lessing e si chiama Maudie e Jane, racconta il rapporto tra una giovane donna e un’anziana signora un po’ toccata. Malina, ormai anche lei davvero anziana, non ha paura di stare in scena nuda. È lì capisco una cosa: il teatro del Living è grande per tutte le ragioni che ho detto. Ma è grande soprattutto per un’altra ragione.

Il corpo. Sì, Judith Malina e Julian Beck sono grandi per questo, soprattutto per questo, per come sanno usare il loro corpo, ricrearlo, farlo parlare, uscire dagli schemi. Non sono gli unici, non sono in assoluto i più grandi. Ma vedendo Malina, che non ha timore di mostrarsi vecchia, capisco che la sua forza è soprattutto questa: mettersi nuda, affrontare le convenzioni, uscire dagli schemi con quello che ha di più prezioso: se stessa. Per la sua generazione il corpo era un’arma pacifica, uno strumento nonviolento per scagliarsi contro i valori non condivisi. Oggi quel corpo è stato ricoperto, è stato sottratto allo spazio della libertà, della rivendicazione, della lotta. Si lotta per coprire il corpo, si rivendica la sua integrità e dignità. Forse Judith Malina starebbe con chi fa questa operazione.

Farebbe parte di quella generazione che dice: “Sì è vero, abbiamo lottato per la libertà. Ma la libertà è liberta solo se risponde a questo o quel criterio, a questa o quella regola”. Forse. Ma potrebbe anche far parte di quelle donne che non rinnegano le proprie battaglie. Non lo sappiamo bene. Ma chi se frega, poi. Un’altra cosa che ho imparato vedendo lei e tanti altri grandi del teatro internazionale è che un artista vale non per quello che pensa, ma per ciò che produce nella tua testa. A me Malina ha insegnato la libertà senza condizionamenti.

Legge, desiderio, capitalismo

  • Mercoledì, 25 Marzo 2015 08:55 ,
  • Pubblicato in Flash news
Alfabeta2
25.03.2015

Il volume «Legge, desiderio, capitalismo. L'anti-Edipo tra Lacan e Deleuze» (Bruno Mondadori, 2014) sarà discusso venerdì 27 marzo, alle 19.00, presso la Libreria Assaggi in via degli Etruschi (San Lorenzo), Roma. Interverranno Pino Pitasi, Francesco Vandoni, Federico Chicchi, Anna Simone, Alex Pagliardini.

Tra i disagi di questa civiltà, profondamente segnata da un’antropologia neoliberale centrata su un simbolico e su un reale di tipo plastico e tendenzialmente votato alla de-umanizzazione degli attori sociali, dal ridursi progressivo delle linee di scarto tra soggetto agito e soggetto agente, v’è sicuramente anche la distorsione, in chiave spettacolare, di ciò che possiamo chiamare cultura. Con cicliche cadenze, infatti, può accadere che un autore fondamentale del Novecento diventi improvvisamente una star, riproposta al grande pubblico dei festival e depurato di ogni sua complessità, a seconda delle esigenze della moda culturale del momento, sino a divenire, esso stesso, una sorta di psico-farmaco consolatore. Negli anni passati è accaduto a Foucault, ora pare il turno di Lacan.

Eppure il pop-Lacan che circola smisuratamente ovunque, non è il Lacan pensatore fondativo dello strutturalismo e di una serissima pratica psicoanalitica che ha coinvolto e coinvolge generazioni di studiosi e psicoanalisti, nonché analizzandi, ma solo una sua spicciola traduzione, una sorta di lacanismo senza Lacan –lui riderebbe molto di questa mancanza-, un sapere Bignami teso a rovesciare in negativo persino l’idea di una cultura intesa come evento. Perché oggi l’evento non è più taglio, apertura e irruzione del soggetto imprevisto, rivoluzionario e desiderante, come ci hanno insegnato Deleuze e Guattari, ma già cultura spettacolo, atto performativo, prestazione sempre più spesso incagliata e prodotta dalla stessa antropofagia neoliberale.

Pertanto tornare a pensare, togliersi da questo imbarazzo della parola che dice senza dire, significa rimettere al centro la complessità del lascito e dell’opera stessa di questi giganti del pensiero, senza temere di perdersi o di non far quadrare il cerchio. È ciò che fa mirabilmente un testo Legge, desiderio, capitalismo. L’anti-Edipo tra Lacan e Deleuze, esito di una giornata di studi organizzata da Federico Chicchi presso l’Università di Bologna nel 2012.

Al centro, come recita il sottotitolo, v’è la nozione militante dell’anti-Edipo propostaci da Deleuze e Guattari nel ‘72, mentre al lato il testo si innerva sull’incontro mancato, tentato, in alcuni casi persino provato, tra i due autori e Lacan a partire dai concetti di legge, desiderio e capitalismo, ma anche e soprattutto a partire da alcune formule assiomatiche contenute nell’anti-Edipo: disedipizzare l’inconscio andando al di là di ogni legge (saggi di Landman, Pagliardini, Fadini, Lippi, Godani, Pitasi); «il desiderio non vuole la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e involontariamente volendo ciò che vuole» (saggi di Recalcati, Carmagnola, Vandoni, Spina e Ronchi); «il capitalismo è il limite esterno di ogni società perché non ha per quanto lo riguarda limite esterno, ma solo un limite interno che è il capitale stesso, e che non incontra, ma che riproduce spostandolo sempre» (saggi di Bazzicalupo, Giardini, Chicchi, Redaelli, Bifo).

La vera forza del libro non è solo quella di riportare Lacan sul suo terreno, al di là del lacanismo, nell’interlocuzione problematica con Deleuze e Guattari, ma anche e soprattutto quella di intercedere sul presente introducendo degli elementi che spostano, scompongono e ricompongono, senza mai cadere nella trappola dialettica, propria di ogni filosofia politica del servo, prima ancora che del padrone: o con Lacan/dunque reazionario o con Deleuze e Guattari/ dunque rivoluzionario. Magari fosse così semplice! Non potendo qui dar conto di tutti i saggi seguirò un percorso che, a mio avviso, riesce assai bene nell’opera di exit da questa mortifera contrapposizione.

Per cominciare direi che è fondamentale la lettura minuziosa di Lacan su legge e godimento che compie Alex Pagliardini nel suo saggio, perché è solo a partire da qui che diventa possibile riorientare lo psicoanalista francese sul piano della parresia. Lavorando sulla logica maschile e sulla logica femminile del godimento in Lacan, Pagliardini scrive: «La logica maschile è la logica del godimento che torna sempre allo stesso posto, che insiste e si ripete nel punto di eccedenza-eccezione che la legge del significante gli ha assegnato. In sostanza, nella logica maschile il godimento ha una legge ed è della legge», mentre la logica del godimento femminile «afferma qualcosa di più radicale, e per certi versi anche più semplice» ovvero una dimensione materiale del godimento che non necessita di una legge perché già atto, già eccedenza, già desiderio, aggiungerei.

Questo tentativo di spostare è importante non solo perché ci toglie dal mantra dell’evaporazione dei Padri, dunque della legge, riconducendo il godimento alla sua materialità non necessariamente foriera di una scissione problematica tra desiderio e godimento, ma anche e soprattutto perché introduce al rapporto intercorso tra Lacan e il femminismo francese, nonché italiano, della differenza. Cosa c’è stato di più rivoluzionario, materiale e desiderante in questo paese, del gesto di Carla Lonzi e del gruppo di rivolta femminile atto a distinguere il godimento della «donna clitoridea», da quello prodotto dalla Legge del Padre della «donna vaginale»? Su questo crinale, infatti, si muove il bel saggio di Federica Giardini contenuto nel volume.

Riprendendo Lonzi, ma anche e soprattutto Antoinette Fouque, in analisi da Lacan e Irigaray insieme, Giardini segue la pista originaria del femminismo della differenza per rileggerla alla luce del rapporto tra anti-Edipo e Legge del Padre, senza mai cadere nella trappola prescrittiva dell’una o dell’altra impostazione, ma mettendo al centro l’idea secondo cui è possibile «lavorare politicamente utilizzando se stesse (e se stessi) come materia prima» perché è solo così che l’inconscio si fa corpo e materia attraverso il linguaggio (Lacan) e concatenamento di relazioni desideranti (Deleuze-Guattari) generative, ma anche regolative.

Interessantissimo anche il saggio di Chicchi che prova a rintracciare sinestesie tra i due autori sulla scorta delle torsioni schizofreniche della società dei consumi contemporanea per andare a sostenere la tesi secondo cui «essere degni di ciò che ci accade» (Deleuze) oggi, può anche prevedere un’idea di libertà e creazione che «non cede» al proprio desiderio (Lacan), se quest’ultimo, ovviamente, è già un prodotto schizo-compulsivo del capitalismo parassitario del presente e dell’antropologia neoliberale. Non desiderio, in realtà, ma simulacro. E quindi, verrebbe da dire, quali che le vere mosse di questo libro?

Intanto quella secondo cui rimuovere l’Edipo non ha senso perché, paradossalmente, il rischio di riprodurlo inconsciamente ovunque può assumere, con molta facilità, le sembianze di un asfittico rovescio che trasforma in fallimento ogni obiettivo politico e filosofico proprio perché senza corpo ed esperienza; disedipizzare l’inconscio, in molti casi, è davvero l’unico lavoro da fare, non per rimuovere, ma per prendere atto di quanto la parola ideologica, volutamente anti-edipica o considerata rivoluzionaria in quanto tale, spesso è infinitamente più edipica e senza corpo di quella prodotta in un contesto analitico; spostare, attraverso il recupero del femminismo e della logica del godimento femminile, sulla materialità dell’esperienza e sulla sua messa in parola; assumersi la possibilità che possa esservi un godimento senza legge che libera, anziché incastrare, andando così nella direzione di un ripensamento delle singolarità, al di là dell’etica, così come al di là del soggetto rivoluzionario e, aggiungo io, della rimozione, pensato da Deleuze e Guattari.

In altre parole si tratta di ripensare la misura e il giusto, non come contenimento etico-morale, ma come mera riappropriazione della libertà, come restituzione. A partire da una mancanza, ovviamente. Altrimenti desiderare è impossibile.

 

Maddalena Robustelli, Zeroviolenza
11 marzo 2015

Alle dodici di stamane (ndr 10 marzo) si è diffusa in rete la notizia dell'approvazione al Parlamento di Strasburgo della risoluzione Tarabella relativa alla "Relazione sulla Parità tra donne ed uomini nell'Unione europea per l'anno 2013". Al suo interno sono affrontati vari temi, il congedo parentale, il gap salariale di genere, il divario pensionistico e l'implementazione di politiche proattive per l'occupazione femminile.

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